Dieci anni dopo, l’Italia si appresta a saltare nuovamente nel v(u)oto. Il voto che arriverà alla fine di una campagna elettorale breve, anticipata, fuori stagione. E ci dirà qualcosa in più su “dove siamo” rispetto alla crisi di sistema apertasi dieci anni fa e, in fondo, mai chiusa. E dove siamo diretti? Dov’è diretta la nostra democrazia?
È forte il senso di déjà vu, rispetto all’autunno del 2012. Come allora, una situazione di crisi che attraversa il Paese. Un governo “tecnico”, o quantomeno a guida tecnica, perché gli esecutivi sono sempre politici: il governo di (super)Mario, Draghi, dopo un altro (super)Mario di dieci anni prima: Monti.
Una maggioranza larga, larghissima, che si sfalda a pochi mesi dal traguardo di fine-legislatura. Peraltro, nel bel mezzo di una torrida estate. Surriscaldata da una guerra in Europa e dalle sue pesanti conseguenze su diversi piani. L’inflazione anzitutto. Ma non solo.
E poi, si sono riprodotti i calcoli di chi, facendo franare maggioranza ed esecutivo, immagina di poterne trarre vantaggio sotto il profilo elettorale.
Inoltre, uno strano clima d’opinione che aleggia nel paese, nel quale s’impastano inquietudine, timori, insofferenza. Appunto, un quasi déjà vu.
Sappiamo come andò a finire allora. O meglio come iniziò la lunga stagione della protesta, che alle Politiche 2013 soffiò soprattutto sulle vele di una formazione neonata, un (sedicente) non-partito, guidato da un comico irriverente, al suo debutto elettorale. Contro tutto e contro tutti: per questo, vincente. Perché anti. Frustrando le aspettative di chi immaginava di potersi riconfermare al governo. Puntando sul convinto sostegno al governo del professore e del suo programma. Oppure trasformando direttamente in partito quell’esperienza: il partito di Monti e dell’“agenda Monti”. Anche oggi, ricorre nel dibattito preelettorale l’“agenda Draghi”.
L’opposizione al governo
Da allora – ma forse già da prima – si è fatta largo una convinzione, tra i partiti e gli addetti ai lavori. Si è affermata l’idea che le elezioni si vincano stando all’opposizione, andando poi ad incassare al momento opportuno: puntando, appunto, sul voto “contro”, cavalcando l’onda populista dell’antipolitica che sollecita da anni sentimenti «rancorosi» di porzioni importanti di cittadini, di elettori «incattiviti». È forte l’idea di poter vincere grazie al voto dei loosers: i «perdenti della globalizzazione», i segmenti sociali che maggiormente si sentono lasciati indietro, dimenticati dalla politica mainstream, colpiti dai grandi processi di trasformazione (e interconnessione) su scala planetaria, e dalle ripetute crisi che da essi derivano.
Due di queste crisi peseranno, in particolare, cinque anni dopo, sull’esito delle politiche 2018. L’onda lunga della crisi economico-finanziaria globale, partita dagli Usa tra il 2007 e 2008, cui si accompagna un vento populista che ha soffiato forte nelle democrazie di mezzo mondo. Il 2016 è stato un anno chiave: ha portato Trump alla Casa Bianca, la vittoria dei brexiters in UK. In quella fase molti partiti sovranisti e anti-partito sono entrati nei governi delle democrazie europee. E poi l’inquietudine generata dalla crisi internazionale (ed europea) dei migranti e dei rifugiati. Che spinge ad annunciare misure securitarie: decreti sicurezza, blocchi navali.
A beneficiarne, in quella occasione, furono due forze politiche: la Lega di Salvini e, ancora, il Movimento 5 stelle di Di Maio. Due forze politiche diverse, ma unite dalla capacità di catalizzare un disagio diffuso, rappresentandolo e sollecitandolo al tempo stesso. Il malessere economico di tante famiglie, in particolare nel Mezzogiorno.
Il disorientamento di ampi settori della società al cospetto delle trasformazioni di ordine culturale indotti dalla globalizzazione, dei fenomeni migratori e degli sbarchi sulle nostre coste. Mescolando questi sentimenti, di paura e displacement, con la sfiducia nei partiti e la protesta contro i governi delle larghe intese. Proprio per questo, i due partiti conquisteranno, insieme, le stanze del potere, arrivando a convergere, nelle loro divergenze (parallele).
Le ragioni della crisi (quasi annunciata)
Solo alla luce di questo percorso è possibile dare una spiegazione a una delle crisi di governo più inspiegabili della storia repubblicana: la crisi che, nel luglio del 2022, porta alla chiusura dell’esperienza di Draghi a Palazzo Chigi. Tale epilogo appare per certi versi prevedibile, persino scontato, se valutato dalla prospettiva dei protagonisti: i partiti, costantemente tentati dall’idea di giocare la campagna da battitori liberi. Con l’obiettivo di riprendersi uno spazio, quello “politico” ridottosi con il governo tecnico guidato da una figura di altro profilo internazionale come (super)Mario Draghi. Sottraendosi, così, alle responsabilità della larghissima maggioranza di tutti-meno-uno. Per provare a intercettare le tensioni sociali derivanti da una nuova situazione di crisi. Da un doppio scenario di guerra: quella contro un virus non ancora pienamente debellato; quella deflagrata ai confini orientali dell’Europa, in seguito all’offensiva russa in Ucraina.
La drammaticità di tale congiuntura sembrava sconsigliare la ri-apertura di un quadro di instabilità, incertezza e fibrillazione politica. A ridosso dell’autunno, il tempo della necessaria definizione della legge di bilancio, e durante l’implementazione dei progetti del PNRR da portare avanti per far fronte alla/alle crisi. Ne sconsigliava quantomeno l’anticipazione, visto che le elezioni sarebbero comunque arrivate, nel primo semestre del 2023. Il paese avrebbe potuto aggrapparsi a un governo – e ad una personalità – che avevano restituito credibilità e centralità all’Italia in Europa. Almeno per qualche mese ancora. Ma calcoli elettorali lo hanno portato rapidamente nella direzione opposta.
Non sorprende che a staccare la spina, alla fine, siano stati proprio i vincitori del 2018: gli insorti entrati nel palazzo, che hanno però pagato a caro prezzo il loro ingresso nel sistema – un conto che stava diventando ogni giorno più salato. Lega e M5s, dunque, insieme a Forza Italia e Berlusconi, già protagonista dello strappo all’epoca della caduta di Monti.
E pensare che Draghi, al momento dell’arrivo a Palazzo Chigi, sembrava godere di un indubbio vantaggio rispetto all’altro SuperMario: appellativo del noto idraulico videoludico, chiamato ad “aggiustare” il paese. Nel biennio 2011-2012 si era trattato, infatti, di chiudere tutti i rubinetti di un’Italia alle prese con una emergenza economico-finanziaria senza precedenti. Nel nome del rigore e del rientro nei parametri finanziari – su tutti, il famigerato spread. Per l’ex-Presidente della BCE si trattava, al contrario, di aprire tutti i tubi, per irrigare il paese di risorse, anch’esse, senza precedenti: quelle dei fondi europei e del PNRR. E, grazie al boost dei vaccini, di traghettare l’Italia fuori dall’epoca del virus. Anche per la prospettiva di questa enorme opera di distribuzione, era venuta a determinarsi una maggioranza dal perimetro amplissimo, che includeva quasi tutti i partiti. Tutti meno uno: i Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni.
L’aggressione russa in Ucraina, ciò nondimeno, ha determinato un nuovo, radicale cambiamento di scenario. L’orizzonte è tornato ad addensarsi di nubi: a causa della guerra, e delle ricadute sul piano economico. Per i distinguo, quando non le diverse posizioni, dei leader verso la Russia di Putin. Sebbene il consenso del governo rimanesse ancora molto elevato, all’inizio dell’estate la tentazione di chiamarsi fuori, per partiti in continua emorragia di consensi, è diventata irresistibile.
Mentre il presidente del Consiglio, consapevole delle difficoltà cui sarebbe andato comunque incontro, nel percorso di avvicinamento al voto, ha colto l’occasione per porre una sorta di prendere-o-lasciare ai partiti di maggioranza. I partiti hanno scelto di uscire dal governo Draghi: di sperimentare la Dr-exit. Il Capo dello Stato, nonostante l’appello alla responsabilità rivolto alla politica, anche in occasione del giuramento a Montecitorio dopo la sua ri-elezione, non ha potuto fare altro che prenderne atto e procedere allo scioglimento delle camere.
Vecchi timori e nuove paure
L’attenzione degli italiani, allora, nell’inedita campagna elettorale 2022, si concentra soprattutto sui temi dell’inflazione e del rincaro energetico. Quattro persone su dieci, in un sondaggio condotto da Demos nei primi giorni di agosto, indicano il tema del costo della vita e dell’aumento dei prezzi fra le prime due emergenze del paese. Tali preoccupazioni pesano su una società già provata dai lunghi mesi dell’emergenza sanitaria. Costretta, dal 24 febbraio, a vestire l’elmetto ancor prima d’aver tolto definitivamente la mascherina. A misurarsi con un post-pandemia non ancora del tutto iniziato e già molto diverso dal dopo-guerra-Covid che aveva iniziato a pregustare. Una stagione nella quale tutte le questioni irrisolte del mondo pre-pandemia – dall’economia, alle migrazioni internazionali fino al surriscaldamento ambientale – tornano prepotentemente a fare paura. Ingigantite dallo spettro della guerra e delle sue conseguenze nella vita quotidiana degli italiani. A cominciare dal costo del gas metano passando per il caro benzina alle ipotesi di razionamento energetico in vista dell’inverno.
Difficile dire in che misura il malessere strisciante peserà sul voto e sul post-voto. Fino a che punto le ripercussioni dei processi globali si allineeranno fra loro, diventando un’unica macro-questione che polarizza l’elettorato. E se tale divisione andrà a sovrapporsi all’asse sinistra-destra, ponendo fine (o ridimensionando) la lunga stagione del tripolarismo. A tali interrogativi si intreccia quello da cui siamo partiti: sarà ancora valida l’equazione opposizione-uguale-consenso? In che misura, cioè, la credibilità dell’opposizione prefigurata dai sondaggi agostani si condenserà nei voti del 25 settembre? Se e come cambierà il mood degli italiani dopo l’estate, al rientro dalle ferie. E come si svilupperà l’azione di governo dell’opposizione al governo? (che è quasi un ossimoro!).
La legge elettorale conta
A differenza del 2012 – e forse memore di quel precedente – il premier uscente non è in campo. Sono altri a proporsi come interpreti dell’“agenda Draghi”. Il Pd, anzitutto, che ancora una volta si presenta al voto con il marchio del partito della responsabilità e del governo. Ma ha già perso per strada, per ragioni diverse, tanti possibili alleati: prima il M5s, poi il neonato terzo (o quarto?) polo di Calenda e Renzi. Del resto, le aspettative di sconfitta e le regole elettorali (che prevedono una consistente componente proporzionale) spingevano in questa direzione. Spingono a coltivare il “proprio” campo, per quanto ristretto, piuttosto che il campo largo immaginato dal segretario Enrico Letta.
Tutti i pronostici della vigilia sono così a favore del centro-destra, capace di ritrovare l’unità nonostante le tensioni interne, e il peso assunto da Fratelli d’Italia in questi anni di opposizione. Il partito di Giorgia Meloni, non a caso, è l’unico a poter rivendicare un coerente e intransigente ruolo di opposizione a tutti i governi di larghe intese formatesi dal 2011 in poi: da Mario a Mario. Ma può anche rivendicare l’adozione di un approccio “costruttivo” nei confronti dell’esecutivo, al cospetto della minaccia della guerra, e fermo sulla linea euro-atlantica – ribadita in più lingue, peraltro –, dopo gli avvicinamenti con la Russia del passato. Tanto da aver suscitato qualche reazione da questo fronte.
Tale strategia ha permesso a FdI di sottrarre molti voti, nel corso della legislatura, sia al M5s sia alla Lega. Tali flussi contribuiscono a spiegare la pressione cui entrambi i partiti sono stati sottoposti. Una pressione che, alla fine, li ha spinti ad abbandonare, seppur in modo rocambolesco, la maggioranza di governo, insieme a Forza Italia (che a sua volta ha perso figure importanti: Brunetta, Carfagna, Gelmini). Per tornare a puntare sui temi del 2018: il lavoro e la povertà, quindi il reddito di cittadinanza nel caso del M5S; la flat tax e il controllo delle frontiere, nel caso della Lega. E poi il sempreverde ponte sullo stretto di Messina.
La scelta fatta li espone, tuttavia, al rischio di presentarsi come motore del caos: primi protagonisti di una crisi che, agli occhi di molti cittadini, rimane incomprensibile, autoreferenziale, pericolosa. In una fase e in uno scenario piuttosto delicati.
Il rischio cittadinanza (politica)
Il rischio, allora, è che, mentre i partiti fanno a gara a (ri)collocarsi al di fuori dall’area di governo, a chiamarsi fuori siano proprio i cittadini. Allontanandosi dalla politica. E dalle urne. Più di quanto abbiano già fatto in passato, andando a rafforzare il “partito dell’astensione”. Giovani compresi. Questi ultimi sono corteggiati un po’ da tutti i partiti. Chissà se seguiranno le indicazioni degli influencer sui social e dei cantanti durante i concerti. Si tratta di un segmento particolarmente deluso dalla politica. Difficile da intercettare, per partiti e leader. Sbarcare su TikTok non è certo sufficiente. Perché, oltre ai social, i giovani guardano (con preoccupazione) al loro futuro, che la politica non ha saputo prefigurare in modo credibile in questi anni.
Così, da un lato, i giovani hanno da tempo mostrato una tendenza culturale al disimpegno, al disinteresse verso la politica, in particolare quella istituzionalizzata. Dall’altro, questo distacco viene anche alimentato dalla politica stessa. Si è cioè aperto una sorta di «cleavage» generazionale, basato sulla percezione che la politica sia distante dagli interessi e dalle domande espresse dalle nuove generazioni. I giovani, quelli a cavallo tra millennial e post-millenial, appaiono peraltro piuttosto mobili sul territorio, per studio e lavoro. Ma non possono ancora esercitare il diritto di voto se lontani dal loro comune di residenza. Nel frattempo, la politica ha timidamente rispolverato l’idea del voto ai sedicenni.
Concludendo
Dunque, la logica del voto contro, che in passato aveva funzionato, forse oggi appare meno credibile. Più che votare contro, vi è il rischio che i cittadini scelgano, in misura maggiore che in passato, di non votare. Nel momento in cui scriviamo manca poco meno di un mese alle elezioni. All’indomani del 25 settembre molte delle domande e delle ipotesi qui formulate potranno trovare risposta. Sperando che anche i cittadini-elettori possano trovare, nella politica, risposte al loro malessere, rinnovando quel patto di cittadinanza alla base della democrazia.
1 settembre 2022