Incontrarsi sulle frontiere

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«In un mondo in cui la vita sa così bene congiungersi alla vita, un mondo in cui i fiori si mescolano ai f iori nel letto stesso del vento, e in cui il cigno conosce tutti i cigni, solo gli uomini fabbricano la propria solitudine»1: così scrive Antoine de SaintExupéry, in un suo piccolo capolavoro, oscurato dal meritato successo de Il Piccolo Principe. In un universo assimilato a un giardino in cui lo stesso vento accarezza tutti i fiori, perché gli umani consumano inspiegabilmente tante energie distruttive per fabbricare la propria solitudine? È questo, in fondo, l’inganno innaturale dell’odio e della guerra: «Perché odiarci? Noi siamo solidali, trasportati dallo stesso pianeta, equipaggi di una stessa nave. E se è un bene che delle civiltà si contrappongono per favorire nuove sintesi, è mostruoso che si divorino a vicenda»2. Le ultime righe mettono a fuoco efficacemente il senso complessivo di questo dossier, in piena continuità con il precedente, incentrato sull’ambivalenza delle frontiere. Fissare un limite, determinare una frontiera, sia in senso spaziale che temporale, scrivevano nella introduzione a quel dossier i curatori Carlo Cirotto e Giuseppina De Simone, è sempre un’arma a doppio taglio: può favorire e può impedire, perché «il confine delimita [...] uno spazio dove le diverse identità si incontrano e si riflettono l’una nell’altra, confermandosi a vicenda». In questo senso, intesi come frontiere e non come barriere, i confini per un verso sono necessari alla vita, ma per altro verso devono poter essere attraversati.

Il dossier che presentiamo riparte da qui, cercando di far compiere al discorso un passo avanti. Le frontiere sono attraversabili se sono abitabili, se cioè smettiamo di considerarle non solo come muri che interdicono qualsiasi transito, ma nemmeno – al contrario – come spazi neutri e insignificanti che possono essere scavalcati agevolmente e in modo indolore. Il riconoscimento, che è una forma originaria e generativa dell’umano, non avviene nonostante le frontiere e nemmeno a prescindere da esse. Il riconoscimento postula un incontro e incontrarsi sulle frontiere – il titolo che abbiamo dato a questo dossier – non ha soltanto il sapore provocatorio di una sfida, ma contiene un invito profondo a riconoscere prima di tutto la frontiera come un dato antropologico fondamentale, che custodisce lo statuto originario dell’umano. Solo a condizione di riconoscere la persona umana come vera e propria “questione di frontiera” in se stessa, possiamo aprirci a un autentico paradigma relazionale, grazie al quale distanza, disuguaglianza e scontro possono trasformarsi in occasioni di incontro. È un cambiamento dello sguardo, infatti, che può dar vita a un cambiamento di paradigma, in cui anche la frontiera cambia di segno, trasformandosi in un luogo generativo di interscambio, di mediazione, di partecipazione, di corresponsabilità.

Guardandoci attorno, non è difficile cogliere una diffusa domanda di incontro sulle frontiere, che tuttavia deve continuamente misurarsi con la controfigura drammatica – e sanguinosa – dello scontro. Eppure, camminiamo spesso, insieme ad altri, senza incontrarci. Ciascuno sembra andare per la sua strada, a testa bassa, evitando di incrociare lo sguardo di chi ci è a fianco o di chi ci viene incontro, magari sorridendo. Meglio non corrispondere, non si sa mai come interpreterà il nostro comportamento. Perché aprirsi? L’incontro porta con sé un carico di fatica e responsabilità. Del resto, abbiamo anche perso l’abitudine a incontrarci. Il Covid e il remote working ci hanno impigrito, indebolendo la nostra dotazione di coraggio. Incontrarsi ha bisogno di coraggio. Non conviene infatti incontrarsi, meglio essere tutelati da uno schermo che non ferisce e non tramette virus (non ancora). Meglio stare uno di qua e uno di là, meglio recintare e irrigidire le identità per inseguire l’illusoria sicurezza che può regalarci in maniera subdola la distanza. Sono numerosi i lavoratori che lo pensano, diversamente dai giovani della “Generazione Z”, i quali apprezzano certamente la flessibilità spazio-temporale ma non vogliono lavorare soltanto da casa. Apprezzano piuttosto le relazioni con la famiglia, con i colleghi, con i capi e desiderano lavorare in team, secondo una ricerca del Centro Studi Assolombarda del 2023.

I più giovani, dunque, sembrano avere uno sguardo diverso da quello calcolante, che è sempre senza incontro; una condizione nella quale possiamo coltivare però solo brandelli di conoscenza, mentre è proprio sulle frontiere che possiamo avere una vista larga, che ci rende capaci di vedere chi sta di qua e chi sta di là: due “insiemi” segnati – e forse accomunati – proprio da una linea di confine. La frontiera, in tal caso, cambia di segno e diventa positiva, trasformandosi in un luogo generativo e aperto. L’incontro sulle frontiere “scarica a terra”, così, tutto il suo immenso potenziale di possibilità. L’inatteso che apre nuovi orizzonti alloggia sulle frontiere, è pazientemente a disposizione di chi si abbandona a questa esperienza. La frontiera diventa allora anche luogo dell’affidarsi a chi sta di là, una porta dietro la quale si potrebbe incontrare la stabilità che tanto cerchiamo.

È un di là che ha dimensioni diverse: senza incontro interiore, senza sguardo relazionale, senza la possibilità di affacciarsi nel mondo dei sogni e delle aspettative delle nuove generazioni, senza l’ascolto profondo dei bisogni e delle ambizioni di chi lavora siamo precari. Tale stato alimenta una in-stabilità che prevarica la speranza togliendoci futuro, come quei modelli organizzativi e sociali che rendono impossibile l’incontro. Ce li racconta con la loro portata sprezzante dei bisogni umani e dei diritti il grido che hanno lanciato oltre 500 lavoratori di un centro commerciale per chiedere, secondo quanto riportato da Salvatore Giuffrida su «la Repubblica» del 28 aprile scorso, la chiusura il Primo maggio: «… fateci stare in famiglia». Donne e uomini che attraversano le matrici di turni massacranti e le aperture praticamente tutti i giorni dell’anno; condizioni che non consentono l’incontro, trasformando il lavoro in una barriera di disumanità, anziché in una porta d’ingresso di benessere e gioia. Occorre uno sguardo diverso per apprezzare i benefici della linea di confine che distingue senza separare insiemi diversi. Dobbiamo abitare le frontiere valorizzandone la struttura porosa e relazionale.

L’articolazione del dossier riflette questo intreccio di incontri sulle frontiere, sempre possibili e benedetti, anche se spesso mancati. Tenendo insieme anzitutto la frontiera interpersonale e quella intrapersonale: nel primo caso, l’abuso strumentale della differenza tra normale e patologico diviene spesso la prima forma di discriminazione, anziché alimentare gli esempi virtuosi che si riassumono nella reciprocità della cura (Silvia Landra); nel secondo caso, solo nella dinamica interiore dell’incontro fra l’io e l’inconscio – la dimensione più intima e spesso la più ignorata – si può ritrovare il vero nome del desiderio inconscio come cura per l’Altro (Ignazio Punzi). Eppure, incontrando chi è diverso da noi, avvertiamo sempre un che di enigmatico, che ci sfida a riconoscere la frontiera stessa come un Terzo, in cui la relazione tra l’io e l’altro, così come tra culture diverse, ci apre a un orizzonte di beni comuni relazionali, come dimensione universale dell’esperienza (Pierpaolo Donati).

Le stesse frontiere intergenerazionali, d’altro canto, strette tra nostalgia tradizionalista e autonomia senza debiti, possono essere il luogo dei conflitti più laceranti o, al contrario, dischiudere lo spazio di tessiture narrative condivise, come autentici veicoli di ospitalità (Silvia Pierosara). Lo sguardo si apre quindi sulle frontiere sempre più instabili del mercato del lavoro con i suoi dualismi, della mobilità professionale all’interno dell’impresa e fra organizzazioni, nella volatilità strumentale delle competenze, delle carriere e delle transizioni che le governano, senza misconoscere i valichi che possono aprirsi anche grazie alla nuove tecnologie (Giovanni Costa). Infine, il forum mette a tema le condizioni di un autentico incontro fra culture, capaci di abitare il “tra”, attivando alcune posture fondamentali, come vedere, ascoltare, affezionarsi (Monica Martinelli). Gli uomini di cultura, in particolare, sono chiamati ad essere “traghettatori” lungimiranti e “pellegrini delle frontiere” (Piero Pisarra); quindi tessitori di conoscenze condivise, capaci di ospitare una riserva, e un riserbo della vita (Ivo Lizzola).

Note

1 A. de Saint-Exupéry, Terra degli uomini, Mursia, Milano 2013, p. 50.

2 Ivi, p. 158.