Terra Santa. Nonostante tutto, c’è chi costruisce la pace

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Dalla martoriata Terra Santa, alcune esperienze di incontro tra israeliani e palestinesi la cui interazione resiste anche dopo l’abominevole attacco di Hamas del 7 ottobre scorso e la violenta guerra che ne è scaturita. Perché la pace può essere costruita, nonostante la diffidenza verso l’altro, la paura di chi è diverso, la tendenza a identificare ovunque il nemico.

Prima della data-cesura del 7 ottobre 2023, quando Hamas ha sferrato contro la popolazione d’Israele un attacco mai visto prima, le storie di incontro e di costruzione di ponti tra due popoli (ebrei e palestinesi) e tre religioni (cristianesimo, islam ed ebraismo) erano molte. Forse non arrivavano sotto i riflettori della stampa mainstream, ma chi conosceva gli angoli della Terra Santa non aveva difficoltà ad incontrarle e descriverle. Oggi i risvolti di una guerra senza regole, il cui centro è nei pochi chilometri quadrati della Striscia di Gaza, si ripercuotono in tutta l’area e si diffondono a macchia d’olio nei territori palestinesi della Cisgiordania, nelle varie regioni dello Stato d’Israele e nei Paesi arabi confinanti. Il clima è cambiato e spesso ha provocato gli scricchiolii di quei ponti che erano stati costruiti negli anni tra israeliani e palestinesi, cristiani, musulmani, ebrei. Da ogni parte sono cresciute la diffidenza verso l’altro, la paura di chi è diverso, la tendenza a identificare ovunque il nemico. Collaborazione, aiuto reciproco, impegno comune tra realtà appartenenti a due popoli diversi sembrano oggi in pericolo.

Ma non è ovunque così. C’è chi continua ad operare per una riconciliazione, chi non demorde nonostante tutto, chi si impegna con testardaggine sulla via di un incontro possibile, riconoscendo che è il momento di stringere ancora di più i legami, di andare nella direzione opposta rispetto al clima di contrapposizione che si è creato.

Come accade non lontano da Tel Aviv e Gerusalemme, nel villaggio di Neve Shalom - Wahat al-Salam (Nswas) che porta il doppio nome (in italiano “Oasi di pace”) per rispettare le due comunità che vi abitano, quella ebraica e quella palestinese. Un esempio di come sia possibile vivere insieme da oltre cinquant’anni, se alla base della convivenza ci sono accettazione dell’altro, rispetto reciproco e cooperazione. Certamente, dal 7 ottobre in poi tutto si è complicato, ma «questo modello funziona [ha affermato Samah Salaime, direttrice dell’Ufficio comunicazione e sviluppo di Nswas] anche se fa male. Questa volta fa molto male. Ma nessuno qui se ne vuole andare. Nessuno infrangerà la linea rossa, appoggiando la violenza o le posizioni violente. Gli unici strumenti che conosciamo qui sono educazione e dialogo, e stanno funzionando. Anche in questi giorni. Io spero che noi continueremo a credere in questo modello, per essere assieme». Come Samah, molti altri abitanti del villaggio in questi mesi hanno testimoniato il loro impegno nel voler continuare a portare avanti il sogno del loro fondatore, il padre domenicano Bruno Hussar, ebreo convertitosi al cristianesimo e cittadino israeliano: trasformare in un’oasi di pace un luogo di convivenza quotidiana tra due popoli in guerra. Nel dare vita a quest’esperienza, padre Hussar partì dalla convinzione che le religioni hanno un ruolo fondamentale nei conflitti. Dapprima formò un gruppo di cristiani, musulmani ed ebrei con lo scopo di incontrarsi e dialogare insieme. Poi, convinto che una cosa è parlare, un’altra è vivere, propose loro di fare di più: abitare nello stesso luogo, gomito a gomito, ognuno nella sua casa ma accanto a chi ha un credo diverso e appartiene a un altro popolo. Fu così che due famiglie, una ebrea e l’altra palestinese, accolsero la proposta e si trasferirono sulle dolci colline che oggi ospitano il villaggio. Era il 1972. Successivamente, altre famiglie decisero di unirsi alle prime. Il sogno di padre Hussar prendeva sempre più forma.

Un villaggio in espansione

Oggi a Nswas vivono settanta famiglie, con le componenti ebraica e palestinese equamente rappresentate. Ogni decisione relativa al villaggio e alla sua amministrazione viene presa in forma democratica. La lista di chi chiede di venire ad abitare qui si allunga sempre di più, ma l’ammissione di nuovi nuclei familiari avviene solo quando è possibile garantire a ciascuno un terreno dove costruire la propria casa: a quel punto ogni famiglia edifica la sua abitazione nelle modalità che ritiene opportune e conduce una vita autonoma nel villaggio, educando i figli secondo le proprie convinzioni religiose e la cultura del suo popolo. Dal 1984 c’è una scuola che garantisce l’istruzione dei bambini fino a dodici anni di età. Il sistema educativo scelto è l’unico in Israele che prevede l’insegnamento sia in ebraico che in arabo, che assicura la presenza di insegnanti palestinesi ed ebrei, che è improntato all’incontro tra i bambini dei due popoli, garantendo la conoscenza reciproca e il rispetto della cultura e delle tradizioni dell’altro.

Ma qui c’è di più: dal 1979 è stata fondata la Scuola per la pace, un vero fiore all’occhiello per il villaggio, dove è racchiusa l’essenza educativa di questo singolare luogo. Il programma prevede seminari, percorsi, incontri, corsi per giovani e adulti che arrivano da ogni parte di Israele e della Cisgiordania: alla base di tutto c’è il conflitto israelo-palestinese, con le sue complessità da approfondire, i luoghi comuni da abbattere, gli stereotipi, i rapporti di potere e i pregiudizi da mettere a fuoco, la presa di coscienza che ciascuno, volente o nolente, ha un ruolo nello scontro tra i due popoli.

Insieme si può

La realtà di Nswas non è l’unica che continua ad impegnarsi nell’accettazione dell’altro, nel rispetto reciproco e nella cooperazione vicendevole.

Rabbis for Human Rights, organizzazione che riunisce centocinquanta rabbini di Israele, si impegna da molti anni per la riconciliazione tra i due popoli. Lo ha fatto e lo continua a fare in mille modi. Per esempio, sostenendo le comunità beduine sparse tra Gerusalemme e Gerico, ma anche inviando scatoloni di cibo (con Free Jerusalem, movimento di attivisti indipendenti, e altre realtà israeliane) nei Territori occupati della Cisgiordania, dove dopo il 7 ottobre Israele ha revocato i permessi e così i lavoratori palestinesi hanno perso la propria occupazione. “Nella nebbia un faro”, c’è scritto in inglese, arabo ed ebraico su ogni scatolone. A descrivere le operazioni di raccolta viveri e imballaggio, è Lucia Capuzzi, su «Avvenire»: nel suo reportage del 29 marzo scorso descriveva quest’attività che si protrae da quasi sei mesi due volte a settimana, con circa cento volontari suddivisi in gruppi. La giornalista ha raccolto la voce di Noa Dagoni, di Free Jerusalem, una delle pioniere dell’iniziativa: «Non si tratta solo di distribuire del cibo. Il nostro è un messaggio tangibile di solidarietà. Così diciamo no alla guerra e all’occupazione. Non, però, con le parole, bensì facendo qualcosa per e soprattutto con i palestinesi», spiegava l’avvocata trentaduenne. «Un gesto, quello di raccogliere e donare cibo ai vicini in difficoltà, che assume un significato ancora più forte nel mezzo della polemica sugli aiuti umanitari per Gaza», concludeva Lucia Capuzzi.

Da una parte e dall’altra del muro di separazione che lo Stato d’Israele ha costruito intorno ai Territori palestinesi occupati, continuano ad operare e collaborare anche due movimenti di donne impegnate per la pace: Women of the Sun, organizzazione femminile nata a Betlemme, e Women Wage Peace, movimento pacifista israeliano con obiettivi simili. La loro interazione è attiva dal 2022, sempre con lo scopo di stimolare la ricerca di una vera pace nelle rispettive società. Ed è proseguita anche dopo il 7 ottobre con tenacia. Tanto che le due realtà sono candidate per il Premio Nobel per la pace 2024.

Un’altra presenza che non si stanca di riunire nelle stesse classi studenti cristiani, musulmani ed ebrei è l’Istituto Magnificat di Gerusalemme, scuola di musica della Custodia di Terra Santa. Qui pianoforti, flauti, violini e violoncelli uniscono i loro suoni per mano di allievi e insegnanti sia palestinesi che israeliani. Convenzionato con il Conservatorio “A. Pedrollo” di Vicenza (Italia), l’Istituto Magnificat non è solo un’officina di musica. È anche un laboratorio di armonia e condivisione per costruire una nuova Gerusalemme di pace. Quella che tutti sognano. E che alcuni stanno cercando, con fatica, di realizzare già. Qui ed ora. Nonostante tutto.