Democrazia e comunicazione

di 

Comunicare è condizione di possibilità di forme di vita condivisa. Come riconoscere la comunicazione che costruisce democrazia? L’amicizia con la verità, una informazione vera, sincera e libera sono i tratti essenziali di una comunicazione che apprezzi la complessità e resista al dogmatismo e alla demagogia.

La democrazia non è semplicemente un insieme di istituzioni o pratiche quali il diritto di voto o l’esistenza di partiti politici in competizione, ma un fenomeno complesso e multidimensionale: piuttosto una forma di vita, che si realizza nel medio dello spazio pubblico aperto alla differenza e alla controversia, alla ricerca dell’intesa e al permanere del disaccordo1. La caratterizzano perciò una certa “incompiutezza”, un esser sempre “a venire”2, una dinamica di pluri-versalizzazione per una comunanza senza totalizzazione. 

Già parlare di comunanza evoca un’aria di famiglia con l’altro termine qui in gioco: comunicazione.

Raccogliendo il suggerimento dell’etimologia – dal latino communicatio, “mettere a parte”, “far partecipi gli altri di ciò che si possiede”, con riferimento al munus, a qualcosa di donato affinché sia comune a tutti3 – comunicazione significa l’attività di costruzione di uno spazio di condivisione. Per gli esseri umani, che sono costitutivamente relazionali, vulnerabili, esseri che vivono “del” mondo e non solo “nel” mondo4, si deve dire che è impossibile non comunicare5. E però può darsi una buona e una cattiva comunicazione.

Il comunicare, quale condizione di possibilità di forme di vita condivisa, lo è certo anche della forma di vita democratica. Tuttavia, pure i regimi totalitari, nel loro esigere adesione e non solo obbedienza, costruiscono spazi di comunicazione. Come qualificare – e riconoscere – la comunicazione che costruisce democrazia?

La comunicazione democratica è amica della verità

In un tempo in cui si assiste a menzogne plateali – e persino esibite – che pure non cessano di essere efficaci, il primo carattere da sottolineare è la sua amicizia con la verità. Se «quella che si chiama ‘postverità’ non è altro che la popolarizzazione del principio capitale del postmoderno [...], quello [...] secondo cui ‘non ci sono fatti, ma solo interpretazioni’»6, si può ben comprendere in che senso la non-verità oggi riguardi non tanto meri segreti o tattiche bugie, ma la distorsione del senso di realtà. Arendt, in Verità e politica rilevava: «il risultato di una coerente e totale sostituzione di menzogne alla verità di fatto non è che le menzogne saranno ora accettate come verità e che la verità sarà denigrata facendone una menzogna, ma che il senso grazie al quale ci orientiamo nel mondo reale – e la categoria di verità versus falsità è tra i mezzi mentali a tal fine – viene distrutto. E a questo danno non c’è alcun rimedio». L’annullamento della linea di demarcazione significa, per la vita politica, la perdita del senso del limite, mentre essa dovrebbe riconoscersi «limitata da quelle cose che gli uomini non possono cambiare a loro piacimento. Ed è solo rispettando i suoi confini che questo ambito, dove siamo liberi di agire e trasformare, può rimanere intatto, preservando la sua integrità e mantenendo le sue promesse». In Le origini del totalitarismo osservava quindi che «il suddito ideale del regime totalitario non è il nazista convinto o il comunista convinto, ma l’individuo per il quale la distinzione tra realtà e finzione, tra vero e falso non esiste più».

Libertà di parola, allora, in democrazia non significa poter dire qualsiasi cosa, ma impegno di fronte a “come le cose stanno”, per quanto siano complesse e difficoltoso quindi comprenderle. La comunicazione democratica vive della responsabilità di mantenere “non inquinato” lo spazio di condivisione: dove ciascuno possa cercare liberamente il proprio orientamento nel mondo e la democrazia non sia usata come strumento per distruggerla fin nelle sue condizioni di possibilità. Non è certo Ponzio Pilato (Gv 18,37-38) il campione della democrazia, che con la sua domanda – “Che cosa è la verità?” – non solo non la cerca, ma dissolve la questione stessa rimettendosi alle grida della maggioranza perché scelga ciò che “preferisce”7.

Lo stretto rapporto con l’informazione

La comunicazione democratica, amica della verità, ha certo, inoltre, uno stretto rapporto con l’informazione. Non coincide con essa ma se ne nutre, esigendo che sia vera, sincera e libera. Le democrazie liberali avevano ritenuto fino ad oggi possibile garantire tali caratteristiche con il principio del “libero commercio delle idee”, nell’ambito di quelli che tradizionalmente sono stati intesi come “i diritti fondamentali di libertà” pensati, soprattutto, come diritti di libertà dal potere politico (art. 21 della Costituzione italiana). La quarta rivoluzione industriale, quella digitale, mettendo in discussione i precedenti modi di produzione e distribuzione dell’informazione ha, però, messo in difficoltà quelle forme della sua promozione e protezione. Oggi, da un lato il sistema è completamente decentrato, per cui basta avere un computer e una connessione di rete, dall’altro lato è però organizzato, ordinato, mediato. Nel mondo di internet il ruolo di gatekeepers è assunto dalle piattaforme dell’informazione8, in mano alle grandi companies dette anche Tech Giants. Come dire: la rete è aperta a tutti e i produttori di informazione sono tutti uguali, però alcuni “sono più uguali degli altri”, e sono quelli che “hanno le chiavi dei cancelli”.

È del 2009, inoltre, l’introduzione, da parte di Google, della personalizzazione delle ricerche. L’algoritmo del motore di ricerca comincia a fornire all’utente i risultati che gli sono più “adatti”, cioè a selezionarli (“ciò che è più importante per lei e secondo i suoi interessi”, diranno poi alcune condizioni di contratto). Nel sistema del massimo decentramento, insomma, non tutti ricevono le stesse informazioni. Questo ha due correlati preoccupanti. Da un lato, infatti, gli utilizzatori della rete si ritrovano in filter bubble9, cioè chiusi, in qualche modo, all’interno della sola sfera di informazioni che sono già coerenti con il proprio orizzonte di esperienze e conoscenze, dall’altro, anche in virtù del segreto industriale, gli algoritmi che selezionano l’offerta funzionano come black box10. Come ha ben osservato Cass Sunstein, in Republic.com, la predisposizione di “offerte ad hoc”, che può anche risultare appropriata nell’ambito del mercato delle merci, viene estesa a tutta l’interazione online, assimilando la sovranità del cittadino alla sovranità del consumatore. Ma mentre per il primo si tratta di trovare agevolmente risposta alla propria domanda di consumo, il cittadino consapevole e democratico è colui che costruisce e trasforma la propria prospettiva – alla ricerca della miglior convivenza possibile – formando la propria aspettativa in relazione con gli altri, ritornando così riflessivamente su di sé, rimodulando le proprie parzialità, ampliando la propria visione. L’orizzonte politico democratico, e il connesso regime giuridico della libertà di informazione, prevedono proprio che ai cittadini sia accessibile – e che incontrino – una pluralità di idee, di informazioni. Questo ora rischia di venir meno. Ciò offre il f ianco facilmente, peraltro, all’accettazione di fake news che costruiscono fatti inesistenti: se viviamo all’interno di una bolla, infatti, un’informazione falsa che, però, corrisponda ai nostri pregiudizi, è facilmente ritenuta vera, con un effetto echo chambers (a causa del bias di conferma). Certo le fake news sono sempre esistite ma oggi trovano inedite e moltiplicate occasioni di conferma, diffusione e, pure, conservazione (per la difficoltà di far valere il “diritto all’oblio” nel mondo digitale). Non sembra sufficiente, allora, la ricetta (otto-novecentesca, alla John Stuart Mill) di chi dice che come rimedio basta offrire “più comunicazione”.

Si rischia un impoverimento, quindi, ed una “restrizione di mondo”: a causa di una paradossale riduzione dell’incontro con l’alterità e di accesso alle differenze, proprio nel momento in cui si dispone del massimo potenziale tecnologico per poterli realizzare. È una questione decisiva per la sopravvivenza della democrazia, presa nell’oscillazione tra sfiduciato, scettico abbandono e accentuate polarizzazioni.

Una comunicazione “ecologica”

La comunicazione che crea spazio democratico possiamo qualificarla come “ecologica”.

Riprendo l’espressione da Jerome K. Liss, che scriveva «abbiamo bisogno di un modo di vivere e comunicare che apprezzi la complessità e resista al dogmatismo e alla demagogia»11. Basata sull’ascolto attivo, è ecologica una comunicazione che assolve in modo generativo sia a compiti di tipo interattivo-relazionale sia a funzioni di carattere informativo-cognitivo. Si può cominciare nel quotidiano, provando ad esempio a diminuire l’uso di slogan, di frasi fatte, impegnandosi a ripulire il proprio linguaggio da dogmatismi, moralismi, giudizi, sarcasmo. Significa assumersi la responsabilità del proprio dire e sceglierne un modo positivo, ospitale: ad esempio evitando un’espressione come “hai torto”, per sostituirla con “non sono d’accordo”, e dicendo “è importante ascoltare”, anziché “devi tacere”. L’attenzione deve andare ai contenuti e alle parole ma anche alle forme paraverbali – come spinte ed accelerazioni, timbri, volume, inflessioni anche dialettali – e alle forme non verbali – quali postura, mimica, atteggiamento, gestione dello spazio. Non si deve trascurare, inoltre, che molte dimensioni si intrecciano a costituire il milieu del comunicare: dalla sfera interpersonale a quella sociale ed istituzionale, dai depositi di produzione scritta e audiovisiva (analogica e online), allo stesso configurarsi dei luoghi che è insieme materico e simbolico, significativo e performativo.

La stretta amicizia tra democrazia e comunicazione, quindi, suggerisce la cura di una forma di vita che le vede mediarsi insieme: come ponte sempre in costruzione tra possibili barriere e inevitabili confini.

Note

1 Cfr. A. Honneth, J. Rancière, Recognition or Disagreement. A Critical Encounter on the Politics of Freedom, Equality, and Identity, a cura di K. Genel, J.P. Deranty, Columbia University Press, New York 2016.

2 Cfr. J. Derrida, L’autre cap, Les Éditions de Minuit, Paris 1991.

3 Cfr. A. Fabris, Etica della comunicazione interculturale, Ets, Pisa 2003.

4 Cfr. C. Danani, Living on the world, in «Medicina e Morale», (2020), 2, pp. 193-211.

5 P. Watzlawick, J. H. Beavin, D. D. Jackson, Pragmatics of Human Communication. A Study of Interactional Patterns, Pathologies, and Paradoxes, Norton, New York 1967.

6 Cfr. M. Ferraris, Postverità e altri enigmi, Il Mulino, Bologna 2017.

7 Cfr. J. Maritain, Riflessioni sull’America, Morcelliana, Brescia 1960.

8 Cfr. D. M. White, The “Gate Keeper”: A Case Study In the Selection of News, in «Journalism Quarterly», 27 (1950), 4, pp. 383-390.

9 Cfr. E. Pariser, The Filter Bubble: What the Internet Is Hiding from You, Penguin Press, New York 2011.

10 Cfr. F. Pasquale, The Black Box Society: The Secret Algorithms That Control Money and Information, Harvard University Press, Cambridge 2015.

11 Cfr. J. K. Liss, La comunicazione ecologica. Manuale per la gestione dei gruppi di cambiamento sociale, La Meridiana, Bari 2016.