I cittadini degli Stati membri dell’Ue hanno votato fra il 6 e il 9 giugno per il rinnovo del Parlamento europeo. La legislatura che si apre, 2024-2029, potrebbe rivelarsi decisiva per il processo di integrazione: nella linea di una Europa più unita e coesa, oppure nella direzione opposta, nella chiave di un ritorno a pericolosi quanto inconcludenti nazionalismi. Numerose le sfide che si prospettano ai Ventisette, fra cui riforme istituzionali, sicurezza e difesa, economia e “pilastro sociale”, migrazioni, cambiamento climatico, rivoluzione digitale.
Il voto per il rinnovo del Parlamento europeo è alle spalle ed è tempo di guardare avanti. Nelle sedi Ue, fra Strasburgo e Bruxelles, fervono le trattative per definire i cosiddetti top job, le alte cariche istituzionali dell’Unione: il o la presidente dell’Europarlamento, della Commissione e del Consiglio europeo. Poi, all’inizio dell’autunno, sarà la volta della definizione del collegio dei commissari. Decisioni, queste, che in parte si basano sugli stessi esiti del voto di giugno e in parte sul peso politico dei maggiori protagonisti della politica comunitaria, siano essi Stati (Germania e Francia in primis), leader o partiti.
Emergenze... vecchie e nuove
La legislatura scorsa, 2019-2024, ha visto le istituzioni dell’Unione europea impegnate a fronteggiare sfide inedite: la pandemia Covid-19, con la crisi sanitaria ed economica che questa ha generato; la guerra scatenata da Putin contro l’Ucraina e le sue tragiche conseguenze umanitarie, nonché le ricadute sul versante alimentare (cereali ucraini) ed energetico (stop al gas russo), con la successiva impennata dell’inflazione e una nuova frenata delle economie europee. Senza tralasciare l’arrembante rivoluzione digitale con le sue ripercussioni sulla vita quotidiana, sulle comunicazioni, sulle imprese, sulla società nel suo complesso.
Queste “emergenze” hanno superato – e portato a mettere in secondo piano – altre priorità che fino a poco tempo prima sembravano indilazionabili. Primo fra tutti il cambiamento climatico, che era parsa la parola d’ordine dell’esordiente Commissione europea nel 2019 e della stessa legislatura dell’Europarlamento. Eppure oggi il Green Deal sembra derubricato a tema di seconda fila, a sua volta scavalcato dalla risposta militare alla guerra d’aggressione russa e messo in discussione dalla protesta dei trattori e da diritti e interessi reclamati dal settore agricolo.
Persino il sempre pressante fenomeno migratorio non è più in cima all’agenda della politica europea, nonostante gli arrivi dal Sud del mondo non siano cessati. Il Patto asilo e migrazione, varato in fine di legislatura dall’Euroassemblea, non appare del resto in grado di affrontare con determinazione (e la necessaria umanità) i complessi aspetti delle migrazioni. Anzi, per certi aspetti la stretta securitaria che attraversa lo stesso Patto (detenzione nei campi di accoglienza e “delocalizzazione” dei migranti, rimpatri accelerati) lascia pensare che il principio di solidarietà che avrebbe dovuto caratterizzare le nuove regole sia stato confinato nelle dichiarazioni d’intenti e omesso nella realtà.
Anche le auspicate riforme delle istituzioni Ue sono rimaste sulla carta. Fra il maggio 2021 e il maggio 2022 la Conferenza sul futuro dell’Europa aveva prodotto una cinquantina di possibili interventi per rendere più efficace l’azione dei Ventisette, con nuove competenze da assegnare alle istituzioni comuni e il superamento di qualche strozzatura politica e burocratica che rallenta il processo d’integrazione. Chissà se Parlamento (l’istituzione che più ha sostenuto tali riforme), Consiglio e Commissione torneranno su quelle proposte, dando loro concretezza nella legislatura che prende avvio.
Tutti i nodi da sciogliere
Con l’avvio della nuova legislatura è però tempo di guardare avanti: se le questioni rimaste in sospeso, riforme comprese, verranno riprese in mano, il quinquennio entrante potrebbe produrre risultati davvero interessanti per il futuro dell’Unione europea. Benché le incognite non manchino...
Nello scorso mese di aprile sono, ad esempio, giunte a Bruxelles due interessanti relazioni, affidate ad altrettanti ex premier italiani, che guardano proprio al futuro. La prima affidata dal Consiglio Ue porta la firma di Enrico Letta e concerne il mercato unico; la seconda è stata predisposta da Mario Draghi su incarico della Commissione.
Letta ha indicato in energia, difesa, telecomunicazioni e settore f inanziario i pilastri del mercato unico, da rafforzare e condividere con decisioni e norme urgenti, così da rendere l’economia europea maggiormente integrata, innovativa e resiliente.
Draghi ha premuto il piede sull’acceleratore: «Nella Ue c’è bisogno di un cambiamento radicale. Le nostre regole per gli investimenti sono costruite su un mondo che non c’è più, il mondo pre-Covid, pre-guerra in Ucraina, pre-crisi in Medio Oriente. [...] Non abbiamo il lusso di poter rinviare le decisioni» per rendere l’Ue veramente competitiva. Torna dunque il suo whatever it takes che non riguarda solo l’economia, ma la tenuta politica dell’Unione. E in tal senso giunge a segnalare la possibilità di un’Europa futura «se non a 27, tra chi la vuole fare».
Si riscontrano significative continuità e contiguità tra le analisi e le proposte di Letta e Draghi: il ritardo dell’Europa rispetto ai grandi protagonisti della scena mondiale (Cina, Usa, Giappone, ma non solo); il dovere di considerare adeguatamente il contesto geopolitico (sicurezza, instabilità, crescente concorrenza economica, sregolati mercati finanziari) e socio-ambientale («Europa nonna», cambiamento climatico...), nonché due ambiti sempre più sfidanti: la transizione digitale e la questione-sicurezza.
C’è un ulteriore grande capitolo che potrebbe segnare i prossimi anni: l’allargamento dell’Unione ai paesi candidati all’adesione, ossia Balcani, Ucraina, Moldavia e Georgia. Il percorso verso l’Ue potrebbe richiedere ancora degli anni, ma nel celebrare il 20° dell’allargamento a est alle nazioni dell’ex blocco comunista, il presidente del Consiglio europeo ha fatto riferimento al «nuovo allargamento», che potrebbe riguardare una decina di Stati. Per Charles Michel «dobbiamo essere pronti, da entrambe le parti, ad allargarci entro il 2030. Per i Paesi candidati ciò significa apportare le riforme necessarie e risolvere tutte le controversie bilaterali. Da parte dell’Ue, vuol dire riformare i nostri programmi, i nostri bilanci e il nostro processo decisionale». Ciò a dire: l’allargamento farà bene alla stessa Unione europea. Il cammino sarà lungo, forse non indolore. Potrebbe persino “funzionare”, a condizione che in questo processo eminentemente politico ed economico non si trascuri di coinvolgere i popoli, le nuove generazioni, la società civile dei rispettivi paesi, le Chiese e le comunità religiose: perché l’Ue sia davvero la casa comune dei cittadini europei.
Un’originale progettualità politica
Dopo la Brexit, e l’uscita del Regno Unito dall’Ue, con le pesanti conseguenze che i britannici stanno sperimentando sulla loro pelle, nessuno più in Europa parla di abbandonare l’Ue. Neppure le formazioni più euroscettiche o sovraniste che si sono fatte largo tra gli elettori europei. Peraltro i risultati delle elezioni di giugno non ci dicono tutto. Perché forse si sta comprendendo che è sempre più difficile immaginare un’Europa senza l’Unione europea, all’interno della quale rimane necessario costruire una vera unità di intenti, con passi avanti meno incerti nel tentativo di conciliare gli interessi comuni con le pretese di ogni singolo Stato membro. Occorre del resto rafforzare le competenze di Parlamento e Commissione Ue e mitigare l’eccessivo potere del Consiglio – il vero freno all’integrazione comunitaria – in cui sono rappresentati i singoli governi. Al centro dei processi decisionali vanno però posti i cittadini, le parti sociali, i territori, gli enti locali, con le rispettive esigenze, attese e reali bisogni. Serve una «democrazia utile», una «Europa utile», che mostri risultati concreti a favore dei cittadini. Tutto questo anche per togliere ragioni, plausibili o meno, ai nazionalismi che guardano al passato e ai populismi che enfatizzano le paure. Perché il progetto europeo scommette sulle convergenze, sulla reciproca f iducia, sulla solidarietà. In una parola: guarda al domani. La costruzione europea richiederà perciò un’originale progettualità politica, il coraggio di osare strade inedite, una vera “etica dell’attesa”, con la pazienza e la caparbietà di chi vuol costruire qualcosa di grande1. «Le sfide che dobbiamo affrontare [affermava David Sassoli] sono impegnative e chiedono all’Europa una grande unità. Pensiamo, per esempio, alla lotta alla povertà, alle grandi questioni finanziarie, alla sfida ambientale, alla sicurezza, agli investimenti, all’immigrazione, alla politica agricola, all’industria, alla sfida tecnologica. Quali di queste grandi questioni potrebbero essere affrontate dai nostri singoli Paesi? Nessuna. E per molte sfide lo spazio europeo è già troppo piccolo. Ma un’Europa più solidale – e quindi più forte – non può essere solo il risultato di interventi legislativi, poiché occorre restituire centralità alla persona umana, investire sul valore della comunità e perseguire uno sviluppo integrale orientato al bene comune. Mai come in questo momento abbiamo bisogno di partecipazione, dialogo e collaborazione. In virtù di questo, dobbiamo valorizzare ancora di più l’identità della cittadinanza europea. Abbiamo capito, insomma, che non è accettabile un’economia senza morale, uno sviluppo senza giustizia, una crescita a scapito delle generazioni future»2.
Con lo sguardo rivolto in avanti
Se fin qui si sono indicati elementi politici in relazione ai possibili – forse auspicabili – sviluppi dell’Unione europea, non vanno trascurati altri elementi essenziali, come l’irrinunciabile “costruzione” di un demos europeo, valorizzando le specificità e le diversità storiche, culturali, tradizionali e spirituali che attraversano il continente; non di meno serviranno “visioni”, progettualità e nuovi slanci per «dare un’anima» all’Europa politica, come più e più volte sottolineato dai pontefici (si pensi al magistero di Giovanni Paolo II, di Benedetto XVI e ora di papa Francesco).
È infine richiesto uno sguardo proiettato in avanti. Perché l’Unione europea è, come da più voci sottolineato, un «cantiere aperto», una «cattedrale in costruzione» che richiede l’impegno e la passione di successive generazioni. Come ha opportunamente suggerito Guido Formigoni, «di fronte alle difficoltà ricorrenti della storia del processo di integrazione, alle crisi che spesso si sono rivelate occasioni di salti di qualità, ci vogliono energie molteplici e plurali. Ma ci vuole soprattutto la coscienza di un’opinione pubblica informata, attiva, consapevole e determinata. Saremo noi cittadini, eventualmente, a forzare la nascita di un’Europa più rispondente alla sua missione. L’Europa del resto non è – non è mai stata – un dato di fatto, un presupposto, una ovvietà, perché il senso dell’integrazione europea è solo nell’essere un progetto per il futuro, l’immaginazione di un percorso nuovo rispetto alla politica e alle istituzioni come la storia ci hanno consegnate. Questo progetto può recuperare il suo slancio vitale solo costruendo con pazienza il consenso necessario»3.
Note
1 Ho affrontato questi temi nell’Introduzione al volume da me curato Scegliere l’Europa. Domande e risposte, Ave-In dialogo, Roma-Milano 2024.
2 D. Sassoli, L’Unione europea alla prova, in «Appunti di cultura e politica», (2021), 2, pp. 13-14.
3 G. Formigoni, Prefazione a Scegliere l’Europa. Domande e risposte cit., p. 10.