Nel suo testamento Paolo VI ricorda e rivolge una particolare benedizione a tre città: Brescia, Milano e Roma. Non si tratta solo dell’ovvio riferimento ai luoghi nei quali è nato, si è formato, ha vissuto e ha percorso le tappe fondamentali del suo servizio alla Chiesa. Il ricordo di queste tre città assume una valenza che va al di là del puro dato geografico e allude al percorso di un’intera vita della quale il tempo trascorso nelle tre città evocate ha scandito le tappe più importanti. Attribuire al nome di una città la funzione di cifra sintetica che designa un periodo della propria vita non rappresenta un espediente puramente retorico, ma rivela una scelta carica di profonde implicazioni. Significa anzitutto confessare che la storia della propria esistenza non può essere ricostruita limitandosi a registrare le vicende personali di un individuo, ma queste si inseriscono all’interno di una comunità con la quale la storia personale è inseparabilmente intrecciata. Significa inoltre ricorrere a una categoria che evoca la continuità nel tempo di una comunità che non nasce oggi, ma è erede di una tradizione, una comunità che nel corso dei secoli ha dato forma allo spazio da abitare e, al tempo stesso, ne è stata plasmata. Significa infine, per un credente e per un pastore della Chiesa, che la comunità cristiana che vive in un luogo e vicompie la propria missione è intimamente legata alla comunità civile e al molteplice tessuto di relazioni sociali che nella città si sviluppano. Alla luce di queste considerazioni vorremmo richiamare brevemente alcuni aspetti dell’esperienza umana, cristiana e civile che per Giovanni Battista Montini è legata alle tre città in cui ha vissuto.
Brescia
Brescia è stata per Giovanni Battista Montini la città delle origini, della famiglia nella quale è nato ed è stato educato e della Chiesa locale nella quale ha ricevuto il battesimo e ha maturato la scelta di abbracciare il ministero sacerdotale. A queste origini Paolo VI è sempre rimasto profondamente legato, anche se ha custodito i legami e gli affetti familiari sotto un velo di riservatezza e solo raramente li ha manifestati in pubblico. Questi profondi legami sono evocati quasi con pudore da Paolo VI nelle occasioni in cui, durante il pontificato, ha incontrato gruppi di bresciani e nelle parole rivolte a loro ritornano i nomi dei protagonisti delle vicende ecclesiali e sociali tra la fine del XIX e la prima metà del XX secolo. Non si tratta solo dei nomi di personaggi la cui notorietà è legata alle opere realizzate nell’ambito del movimento cattolico bresciano, ma della rete di relazioni che la famiglia Montini ha coltivato e che ha costituito il contesto vitale della formazione del giovane Giovanni Battista. È noto che, per ragioni di salute, il vescovo di Brescia mons. Giacinto Gaggia aveva dispensato il giovane Montini dalla residenza nel seminario diocesano. Egli ha così frequentato i corsi teologici continuando ad abitare con la propria famiglia. La sua formazione si è compiuta dunque in un contesto singolare. Il padre oratoriano Paolo Caresana è stato la sua guida spirituale, mentre in casa ha conosciuto i principali temi della realtà sociale e culturale del tempo e ha incontrato i protagonisti delle vicende ecclesiali e civili con cui la sua famiglia aveva profondi legami. Sotto questo profilo, lo scambio epistolare tra Giovanni Battista Montini e il padre Giorgio ha uno straordinario interesse perché lascia trasparire una vivace discussione delle questioni culturali, delle vicende politiche e degli eventi ecclesiali che hanno segnato il periodo tra le due guerre mondiali. Il riferimento a Brescia che si trova nel testamento suggerisce che l’insegnamento e l’opera di Paolo VI si sono nutriti della tradizione del cattolicesimo bresciano, tenendo sempre viva la consapevolezza della centralità del tema dell’educazione che di questa tradizione è stato e rimane un carattere distintivo. Mons. Enzo Giammancheri sottolinea che, al di là dei legami di carattere personale e famigliare con i protagonisti di quella stagione storica, Paolo VI riconosceva la validità e l’attualità dell’esperienza dei cattolici bresciani, che si distingue per quattro caratteristiche peculiari: la responsabilità assunta dai laici nelle diverse iniziative promosse dal movimento cattolico, la convinzione che il cristianesimo ha un’importanza decisiva per l’Italia di ieri e di oggi, l’impegno ad agire nella società in tutte le sue articolazioni ed istituzioni e, infine, il coraggio di intraprendere grandi opere, pur disponendo di mezzi esigui e semplicissimi.
Milano
Il 3 novembre 1954 è stata pubblicata la nomina di Giovanni Battista Montini ad arcivescovo di Milano. Di questa scelta di Pio XII, che ha impresso una svolta decisa alla vita del sacerdote bresciano che nel 1920 si era trasferito a Roma e che per trent’anni aveva prestato servizio nella Curia romana, fino a giungere ai vertici della Segreteria di Stato vaticana, sono state date spiegazioni assai diverse. Per alcuni si è trattato di un vero e proprio allontanamento, motivato da dissensi sulla linea seguita da Montini all’interno della Curia e dalla perdita della fiducia dello stesso Pio XII. Per altri è espressione della volontà del papa che il suo più stretto collaboratore maturasse l’esperienza pastorale diretta che gli mancava e, comunque, di un passaggio di cui la Provvidenza si è servita per preparare Montini al ministero di successore di Pietro, al quale sarebbe stato chiamato nel 1963. La nomina ad arcivescovo di Milano fu accolta da Giovanni Battista Montini con comprensibile trepidazione e con i timori derivanti dal radicale cambiamento al quale la sua vita e la sua attività dovevano disporsi. Ma la decisione di Pio XII permetteva anche di realizzare, seppure in forma imprevista ed assai esigente, l’aspirazione a un impegno pastorale diretto che Giovanni Battista Montini aveva desiderato fin dai primi anni del suo ministero e che aveva potuto trovare realizzazione solo in modo assai limitato, soprattutto attraverso l’attività svolta tra gli studenti universitari della Fuci fino al 1933. Con l’ingresso a Milano, infatti, tutto il tempo e le energie dell’arcivescovo Montini saranno assorbiti dall’attività pastorale e dal governo della diocesi ambrosiana. Nel discorso d’ingresso, il 6 gennaio 1955, il nuovo arcivescovo propone alcune linee programmatiche della sua azione pastorale e ne indica le priorità essenziali. Nel suo sguardo sulla Chiesa di Milano e sull’attività pastorale che si accinge a intraprendere è centrale il tema della tradizione. Egli constata infatti che nella società e nella cultura contemporanea sembra emergere in maniera acuta la questione circa la validità della tradizione religiosa e civile ricevuta dal passato. Pastore e Chiesa devono quindi rinnovare anzitutto la consapevolezza della responsabilità per la tradizione che è stata loro affidata e che sono chiamati a trasmettere fedelmente. Pur legata essenzialmente alla tradizione della fede e della vita cristiana che riceve dal passato, la Chiesa non può ripiegarsi in un atteggiamento puramente ripetitivo e conservatore, perché il senso autentico della tradizione è di far percepire in ogni generazione il valore del messaggio evangelico, la sua perenne vitalità e la sua inesausta capacità di illuminare tutti gli aspetti dell’esistenza umana. Il tema fondamentale di fronte al quale l’azione pastorale e la missione della Chiesa si trovano e la questione che assume per il nuovo arcivescovo valore programmatico, possono perciò essere formulati in questi termini: «Abbiamo bisogno d’un cristianesimo vero, adeguato al tempo moderno. Problema che possiamo anche meglio formulare così: come possiamo noi adeguare la nostra vita moderna, con tutte le sue esigenze, purché sane e legittime, con un cristianesimo autentico?». Se questo è un problema che investe la pastorale della Chiesa ovunque nel mondo occidentale, agli occhi del nuovo arcivescovo la situazione milanese presenta tratti particolari. Proprio perché nella metropoli lombarda in tutti i campi della vita civile e sociale i processi di trasformazione e di modernizzazione sono più accentuati e accelerati, la sfida per chi in tale contesto è chiamato a proclamare il messaggio cristiano in modo comprensibile e convincente è più ardua, ma le risposte efficaci eventualmente trovate possono indicare anche ad altri la direzione da seguire e possono perciò avere un valore esemplare che supera l’ambito locale. Montini sottolinea che il tempo presente esige da parte dei credenti e della Chiesa uno sforzo supplementare per attingere in modo più pieno alla tradizione di fede e di vita cristiana, ma anche un impegno di umanità e di sollecitudine per il bene comune della società, che si riassume nel duplice imperativo: approfondire e allargare. Questo richiede un’attitudine che da parte della Chiesa evita la chiusura nei propri spazi, che si vorrebbero proteggere con una difesa timorosa da tutto quello che si muove all’esterno. Ma alla società e alla cultura i credenti chiedono di non confinare l’esperienza cristiana in uno spazio che la privi di ogni rilevanza pubblica, di ogni possibilità di interlocuzione e di ogni influsso sulla vita umana. La Chiesa non intende dunque rinchiudersi da sola, ma neppure lasciarsi rinchiudere da altri in un ghetto.
Roma
A Roma Giovanni Battista Montini aveva vissuto dal 1920 al 1954 – tranne il breve soggiorno alla Nunziatura di Varsavia nel 1924 – e vi ha fatto ritorno nel 1963, quando è stato eletto alla Cattedra di Pietro, rimanendovi per i quindici anni del pontificato fino alla morte, il 6 agosto 1978. Roma per Montini ha un duplice volto, ecclesiale e civile. Il suo significato per i credenti è legato evidentemente alla testimonianza della predicazione e del sangue degli apostoli Pietro e Paolo. Nell’esortazione apostolica per l’Anno della fede (22 febbraio 1967) Paolo VI scrive che «questo tragico e benedetto suolo romano raccolse il loro sangue e custodì, inestimabili trofei, le loro tombe, e alla Chiesa di Roma toccò l’incomparabile prerogativa di assumere e di continuare la loro specifica missione». Questa missione non è limitata alla Chiesa di Roma, ma si estende alla Chiesa universale nella quale Roma è chiamata a «fungere da centro della Chiesa stessa» e a «dilatarne la visibile e mistica circonferenza ai confini dell’universalità». Paolo VI ha un’acuta consapevolezza della responsabilità che, come vescovo di Roma e successore di Pietro, gli spetta nel custodire l’integrità della fede apostolica e nel servire la comunione della Chiesa universale. È consapevole al tempo stesso delle forme nuove che l’esercizio del ministero petrino richiede in una Chiesa che, con il Vaticano II, ha riconosciuto il diritto e la necessità che ogni Chiesa locale maturi una fisionomia propria, attraverso l’assunzione della cultura dei popoli in mezzo ai quali essa compie la sua missione. Al ritorno dal viaggio in India, nell’udienza generale del 9 dicembre 1964, Paolo VI ammette che spesso il legame tra cattolicità e unità ha indotto a pensare che la cattolicità sia uniformità. In realtà, la cattolicità della Chiesa può essere pensata come unità nella diversità, anche se questa idea affascinante richiede di trovare vie capaci di riconoscere la molteplicità senza compromettere l’unità perché «se è bello ripetere: “Chi sta a Roma sa che anche gli indiani gli appartengono comemembri”, non è altrettanto facile stabilire i vincoli e le forme di tale appartenenza». Il nome di Roma evoca al tempo stesso la questione romana e l’aspra controversia tra lo Stato italiano e la Santa Sede, che a lungo ha impedito la piena partecipazione dei cattolici alla vita politica italiana. In una conferenza su Roma e il Concilio tenuta in Campidoglio il 10 ottobre 1962, alla vigilia dell’apertura del Vaticano II, l’arcivescovo di Milano richiama le differenze tra la Roma del 1870, nella quale la celebrazione del Vaticano I e la sua brusca sospensione hanno coinciso con la fine dello Stato Pontificio, e la Roma del 1962. Il confronto è istruttivo. La fine del potere temporale del papa infatti «parve un crollo [...] e parve allora, e per tanti anni successivi, a molti ecclesiastici ed a molti cattolici non potere la Chiesa romana rinunciarvi». Montini vi riconosce al contrario un disegno della Provvidenza che «aveva diversamente disposto le cose, quasi drammaticamente giocando negli avvenimenti», che ha creato le condizioni per porre in primo piano il ruolo spirituale del papa. Egli «usciva glorioso dal Concilio Vaticano I per la definizione dogmatica delle sue supreme potestà nella Chiesa di Dio, e usciva umiliato per la perdita delle sue potestà temporali nella stessa sua Roma, ma, come è noto, fu allora che il Papato riprese con inusitato vigore le sue funzioni di Maestro di vita e di testimonio del Vangelo, così da salire a tanta altezza nel governo spirituale della Chiesa e nell’irradiazione morale sul mondo, come prima non mai». Il pontificato di Paolo VI, con il suo sforzo instancabile di entrare in dialogo con tutti, rappresenta l’evidente dimostrazione della «irradiazione morale sul mondo» che è diventata parte essenziale del ministero del papa.
Antologia
(...). Che cosa dunque non ha ricevuto il Papa da Brescia? Egli dovrebbe fare un inventario che supererebbe le proporzioni di un momento così solenne, ed anche la sua capacità di calcolo perché sono doni immensi. Infatti, prosegue il Santo Padre con viva commozione, Egli non ha solo ricevuto la vita naturale da una famiglia buona, esemplarmente cristiana, ma ha ricevuto anche una formazione. Essi hanno avuto la bontà di ricordare il Babbo Suo e la Mamma, la buona, la cara Mamma; ed è proprio da chiedersi se Egli sarebbe arrivato sin lì se non avesse avuto questi principii, e cioè i tesori inestimabili di questa famiglia che amava e stimava prima, ma che ora, che il Santo Padre è un po’ più pratico della vita, Gli sembra davvero un tesoro incomparabile che la Provvidenza Gli ha elargito gratuitamente ancor prima che Egli si affacciasse alla scena di questo mondo. Con la famiglia, fratelli, parenti, di tutti i quali si deve lodare e gloriare per la loro bontà, onestà e soprattutto per la comprensione con cui hanno seguito la Sua vocazione ecclesiastica e la Sua vita lontana al servizio della Santa Sede. E con loro il Santo Padre deve ricordare le scuole da cui è uscito. Innanzi tutto il carissimo collegio Arici; il Papa ha ricevuto tanto, tanto, ed è infinitamente obbligato ai carissimi Padri della Pace del bene che hanno fatto a Lui e che fanno a migliaia di giovani, e a tanta gente della terra bresciana, e che diffondono anche al di là dei confini della loro terra. Che siano benedetti! E con loro, altre istituzioni: il Seminario; i confratelli; i cari Sacerdoti con i quali il Papa si duole di non aver potuto condividere la vita, pastorale e diocesana come sarebbe stato nelle sue aspirazioni, nei suoi desideri. (...). Il Papa dovrebbe dire anche di altre istituzioni, dalle quali ha molto ricevuto. Può nominare la scuola, la Morcelliana, dalla quale ha attinto quel che sa, quel che ha studiato, quel che ha compreso del valore del pensiero, dello studio, della propaganda scritta e stampata e che vuole incoraggiare a proseguire nel cammino percorso con tanto onore. E poi la tradizione bresciana dalla quale ha ricevuto un influsso decisivo per la Sua formazione e quindi sul Suo orientamento al servizio di Cristo e dei fratelli; per la quale, sin da giovane, ha compreso quanto la nostra religione meriti di essere conosciuta, praticata, vissuta, quanta forza abbia ancora in sédopo venti secoli nei quali, umanamente parlando, avrebbe dovuto esaurirsi. Brescia ha insegnato invece al Papa, sin dalla adolescenza di Lui, che questa molla di energie spirituali, è ancora intatta, robusta, ardente, è ancora pronta a darsi a chi la sappia tradurre in costume o in espressione di vita e di pensiero, Brescia Gli ha insegnato che la nostra religione è viva, è moderna ed è capace di affrontare tutti i problemi non solo per tollerarne l’urto, ma per incontrarli. Un’altra lezione, ha avuto pure dalla vita collettiva e comunitaria di Brescia: la vita civica, il costume politico, il costume sociale di uomini che meriterebbero una apologia: chi può non ricordare i sacerdoti bresciani, grandi e buoni, Mons. Gaggia, Salvetti; chi può non ricordare il nome di Tovini, Bazoli, Longinotti, e tutto questo laicato bresciano, magnifico, che ancora prima che fosse matura l’attuazione della vita cattolica nella vita pubblica, aveva già anticipato programmi e vedute con una lungimiranza che è degna d’ogni plauso, d’ogni ricordo ed imitazione. La Provvidenza ha benedetto molto i bresciani, ha dato loro doni che altrove forse sono sparsi in misura minore o non sono stati così coltivati e così felicemente tradotti in una storia, in una tradizione feconda e viva; e che costituiscono un patrimonio da conservare e da amministrare. Il Santo Padre lo diceva poco prima alle autorità bresciane, e lo dice anche loro: l’esser bresciani deve essere un titolo di impegno, un invito a conoscere, un po’ meglio e un po’ di più, le radici dalle quali proviene una così bella vitalità civile e sociale e religiosa. I loro antenati meritano di esser conosciuti e fatti oggetto di memoria e di imitazione.
(dal Discorso ai partecipanti al pellegrinaggio della diocesi di Brescia, 28 ottobre 1963)
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(...). Il riconoscimento che il Concilio ecumenico viene proclamando sulla dignità del Laicato cattolico, sulla sua vocazione ad una pienezza di vita cristiana, sulla sua missione di apostolato, nella perfetta coordinazione con quello gerarchico, e nella debita estensione della efficienza temporale e sociale, conforta la Nostra speranza nella vostra generosa rispondenza ai programmi, che vi sono proposti, come certamente conforta i vostri propositi per una nuova e vittoriosa ripresa della vostra molteplice attività. È necessario un concreto programma di lavoro, che sensibilizzi le
coscienze, accenda le volontà, accresca il senso di responsabilità in tutti i credenti; è necessario scuotere un certo torpore, che sembra talora impadronirsi delle schiere dei buoni di fronte alle forme più vistose di certo costume insincero, malsano, provocatorio; è necessario comunicare grandi idee, alimentare forti convinzioni Sull’esaltante missione di una vita integralmente cristiana, che prende origine dalla conoscenza del proprio inserimento nella comunità di amore e di grazia, quale ci è offerta nel mistero della Chiesa, e vuol viverne a fondo i vincolanti impegni, con l’aiuto sempre presente di Cristo Santificatore. Per conseguire questi altissimi scopi, l’Azione Cattolica Italiana è tanto benemerita per l’opera continua, capillare, efficace, ch essa compie per mezzo delle sue Campagne annuali, dei suoi corsi formativi specializzati, delle sue iniziative varie, sempre improntate d tono di freschezza e di tempestività. Continuate, diletti figli e figlie: anzi, vi diciamo, raddoppiate i vostri sforzi, le vostre cure, le vostre provvidenze affinché l’Azione Cattolica italiana, sempre più degna della sua storia bellissima, corrisponda alle Nostre vive attese, e risponda ai presenti bisogni. Contiamo tanto sopra di voi e vi seguiamo con la Nostra preghiera, con l’auspicio che il Signore della pace e dell’amore avvalori i vostri sforzi con l’onnipotente sostegno della sua grazia.
(dal Discorso di Paolo VI alla nuova Giunta centrale dell’Azione Cattolica Italiana, 12 dicembre 1964)
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(...). Voi attendete da Noi questa parola, che non può svestirsi di gravità e di solennità: non gli uni contro gli altri, non più, non mai! A questo scopo principalmente è sorta l’Organizzazione delle Nazioni Unite; contro la guerra e per la pace! Ascoltate le chiare parole d’un grande scomparso, di John Kennedy, che quattro anni or sono proclamava: «L’umanità deve porre fine alla guerra, o la guerra porrà fine all’umanità». Non occorrono molte parole per proclamare questo sommo fine di questa istituzione. Basta ricordare che il sangue di milioni di uomini e innumerevoli e inaudite sofferenze, inutili stragi e formidabili rovine sanciscono il patto che vi unisce, con un giuramento che deve cambiare la storia futura del mondo: non più la guerra, non più la guerra! La pace, la pace deve guidare le sorti dei popoli e dell’intera umanità! Grazie a voi, gloria a voi, che da vent’anni per la pace lavorate, e che avete perfino dato illustri vittime a questa santa causa. Grazie a voi, e gloria a voi, per i conflitti che avete prevenuti e composti. I risultati dei vostri sforzi, conseguiti in questi ultimi giorni in favore della pace, benché non siano ancora definitivi, meritano che Noi, osando farci interpreti del mondo intero, vi esprimiamo plauso e gratitudine. Signori, voi avete compiuto e state compiendo un’opera grande: l’educazione dell’umanità alla pace. L’Onu è la grande scuola per questa educazione. Siamo nell’aula magna di tale scuola; chi siede in questa aula diventa alunno e diventa maestro nell’arte di costruire la pace. Quando voi uscite da questa aula il mondo guarda a voi come agli architetti, ai costruttori della pace. E voi sapete che la pace non si costruisce soltanto con la politica e con l’equilibrio delle forze e degli interessi, ma con lo spirito, con le idee, con le opere della pace. Voi già lavorate in questo senso. Ma voi siete ancora in principio: arriverà mai il mondo a cambiare la mentalità particolaristica e bellicosa, che finora ha tessuto tanta parte della sua storia? È difficile prevedere; ma è facile affermare che alla nuova storia, quella pacifica, quella veramente e pienamente umana, quella che Dio ha promesso agli uomini di buona volontà, bisogna risolutamente incamminarsi; e le vie sono già segnate davanti a voi; e la prima è quella del disarmo.
(dal Discorso di Paolo VI alle Nazioni Unite, 4 ottobre 1965)