La sussidiarietà può ancora unire

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il principio di sussidiarietà come architrave di una welfare community a livello regionale, nazionale e globale. Una struttura articolata, dotata di componenti specifiche e codici simbolici in cui giocano un ruolo importante alcune idee, come quelle di un’economia relazionale, di una reciprocità che si apre alla logica del dono, di una tendenza all’empowerment di tutti i soggetti.

Tentare di leggere le dinamiche che caratterizzano l’evoluzione del tessuto sociale, nel tempo in cui viviamo, è un’impresa complessa ed ogni tentativo si rivela inevitabilmente parziale, a motivo della fluidità e magmaticità della cultura e della società. Cionondimeno è bene tentare, perché per agire e portare un contributo positivo è importante cogliere i nodi problematici essenziali che cercheremo di affrontare in prospettiva pedagogico-educativa. Anticipiamo fin da subito la chiave di lettura complessiva, ovvero la necessità di riscoprire il valore profondo del principio di sussidiarietà, sia come categoria di analisi della realtà sociale, sia come principio per un’educazione sociale e civile dei giovani e non solo.

Vi è un passaggio dell’enciclica Quadragesimo anno di Pio XI che – pure essendo stata pensata in un clima politico e culturale distante dal nostro (1931) – ci sembra profetico anche per l’analisi del tempo in cui viviamo: «Le cose si trovano ridotte a tal punto, che abbattuta e quasi estinta l’antica ricca forma di vita sociale, svoltasi un tempo mediante un complesso di associazioni diverse, restano di fronte quasi soli gli individui e lo Stato» (n. 79). Il testo segnala come ogni regime totalitario, che punta all’obiettivo di realizzare una società collettivi sta, di fatto produce anche un secondo effetto che è la crescita di una mentalità e di una cultura individualista. Individualismo e collettivismo si trovano spesso associati in una visione della società che promuovendo l’uno, di fatto rischia di produrre l’altro. L’enciclica pontificia individua anche il bersaglio che tali regimi si propongono di distruggere, ovvero quei corpi intermedi, che in una logica di sussidiarietà rappresentano anche l’antidoto all’affermarsi delle varie forme di individualismo e collettivismo.

Tra individualismi e populismi

Abbiamo visto come un regime totalitario, eliminando i corpi intermedi, rischi di produrre un individualismo sociale, perché i cittadini si ritrovano “soli” di fronte ad uno Stato che tutto assorbe in sé. Il tempo del totalitarismo è fortunatamente passato ed anche il centralismo statalista che ci aveva lasciato in eredità si è progressivamente “sfumato”, con maggiori aperture al decentramento territoriale e a forme di welfare partecipativo che si orientano nella direzione di una incipiente logica di sussidiarietà, di cui si trova traccia anche in recenti riforme costituzionali (Legge cost. 3/2001). Ci chiediamo invece se oggi si stia verificando il dinamismo inverso e speculare a quello descritto sopra, ovvero il passaggio da un diffuso individualismo a forme di populismo che virtualmente potrebbero aprire se non proprio a scenari di tipo totalitario, quanto meno a regimi di fatto autoritari.

Il dato di realtà da cui prendiamo le mosse è il progressivo allentarsi dei legami sociali tipico di una società liquida (Bauman), in cui tende a venire meno il senso di comunità, non solo per il fatto che gli individui tendono ad agire e progettare pensando più al loro interesse personale che al bene comune, ma perché si fa sempre più evanescente quel senso di appartenenza che è il fondamento della coscienza sociale e civica, anche in prospettiva educativa. Non è questa la sede1 per approfondire in modo sistematico le possibili letture di tale fenomeno, ma la sensazione è che si stia passando dalla logica (o dal mito) delle cittadinanze multiple a quella delle appartenenze transitorie e condizionate: il senso di appartenenza ad un gruppo si fa più evanescente, dura finché ci si trova bene o l’appartenenza “serve”, svanisce rapidamente e, soprattutto, non si traduce in un impegno costruttivo del singolo a beneficio della comunità. Molte persone della generazione di chi scrive, che ne condividono la formazione in ambito associativo, probabilmente ricordano indicazioni educative del tipo: «Non chiederti che cosa l’associazione può fare per te, ma che cosa tu puoi fare per l’associazione». Una siffatta esortazione mantiene intatta la sua saggezza educativa, ma spesso è venuto meno il presupposto soggettivo della sua capacità di far presa sulle persone: un forte senso di appartenenza, un “bisogno” di far parte di quel gruppo. Proviamo ad immaginare, invece, che l’adesione ad un gruppo o a un’associazione abbia caratteristiche simili a quella con cui si aderisce ad un gruppo di discussione su un social network: si aderisce senza troppe formalità e senza un grande coinvolgimento, si sta un poco all’interno del gruppo e si partecipa alla discussione, poi si valuta se tale adesione “ci serve” oppure è meglio abbandonare il gruppo (basta un click del mouse), senza nemmeno bisogno di dare spiegazioni a nessuno o rompere legami solidi.

Tale propensione all’individualismo lascia però aperto lo spazio per un bisogno di comunità che, pur rimanendo spesso inespresso, non è possibile cancellare dal cuore dell’uomo: siamo «animali politici» (diceva Aristotele) e non possiamo comunque vivere da soli, però è forte anche il bisogno di sentirsi rassicurati, da cui nasce la speranza che vi sia qualcuno in grado di prendersi cura del bene comune o, quanto meno, di far funzionare la vita politica. Qui probabilmente affonda le proprie radici una nuova propensione a forme di populismo che uniscono in sé tratti antichi e tratti nuovi.

Va detto che il fascino dell’uomo forte, del salvatore della patria, ha una storia molto antica che in diversi momenti si è tradotto in attribuzioni di credito o “deleghe in bianco” a personaggi più o meno meritevoli di fiducia. Quanti si sono presentati come salvatori della patria hanno sempre cercato di far leva sui bisogni e desideri più in grado di parlare alla “pancia” dei cittadini, andando a cogliere il sentire diffuso, i pregiudizi più comuni, e producendo slogan che risultano tanto più efficaci quanto più sono semplici. I populismi di ogni tempo hanno sempre fatto leva sulla capacità di interpretare il dissenso nei confronti della situazione consolidata e farsi portavoce di un malcontento, ma – in genere – hanno sempre offerto “in cambio” un sogno, per lo più costituito da miti illusori, che però rappresentavano il correlato essenziale di una pars destruens della proposta politica: il mito mussoliniano della rinascita della grandezza dell’impero romano gioca un ruolo essenziale nell’affermarsi del fascismo tanto quanto la capacità di interpretare il malcontento per una classe politica corrotta e logorata dagli scandali.

I populismi di oggi sono in parte simili, in parte diversi rispetto a quelli del passato. Cresce da un lato l’enfasi sulla pars destruens, per cui vengono premiati «rottamatori» e «sfascisti» di ogni tipo, mentre si fa sempre più evanescente la dimensione propositiva, soprattutto se guardiamo alle proposte in prospettiva di lungo periodo. Il messaggio più ricorrente è quello di chi vuole smarcarsi da questa o quella tendenza del malcostume che si denuncia nella classe politica proponendosi come alternativa moralmente credibile o anagraficamente più appetibile o semplicemente in un rapporto di discontinuità con la classe politica passata. Risultano meno chiari, invece, i progetti e le proposte che vadano oltre il proporre se stessi per una migliore gestione della quotidianità e dell’esistente ed anche quando si usa la retorica del sogno o del cambiamento radicale è molto difficile cogliere il percorso che dovrebbe portare ad una meta che viene proposta in termini volutamente evanescenti.

Alla ricerca del bene comune

Un secondo problema, particolarmente serio, è l’immagine implicita di bene comune che anima l’attuale dibattito politico. Con la fine delle grandi ideologie si è avuta anche un’eclissi dei grandi ideali, per cui i discorsi di natura valoriale vengono spesso giudicati astratti e per lo più non premiano sul piano elettorale. La rappresentazione corrente dello statista di cui ci si vorrebbe fidare è sempre più simile a quella di un bravo amministratore di condominio, in grado di fare gli interessi dei condomini e non i propri, piuttosto che quella di chi progetta con ampi orizzonti, pensando – come diceva De Gasperi – alle prossime generazioni più che alle prossime elezioni. Ma un amministratore di condominio non ha pensieri dagli ampi orizzonti, essenziale è che sia credibile quando promette di far quadrare i conti senza troppo infierire e si impegni a riparare qualche breccia qua e là.

Vi è dunque un problema di identificazione del bene comune di una società di cui tutti vedono i bisogni di tipo materiale, che vanno dalle infrastrutture ai servizi, ivi compresi quelli che riguardano i campi delicatissimi della salute e dei servizi alla persona; ma anche di tipo immateriale, che in parte si possono tradurre in altri servizi (come ad esempio quelli relativi a educazione e istruzione), ma in parte si collocano ad un livello più raffinato, che vorremmo provare a descrivere con le parole di Jacques Maritain. «Il bene comune comprende tutte queste cose, ma anche qualcosa di più profondo, di più concreto e di più umano: perché racchiude anche ed anzitutto [...] la somma o l’integrazione sociologica di tutto ciò che v’è di coscienza civica, di virtù politiche e di senso di diritto e della libertà, e di tutto ciò che v’è di attività, di prosperità materiale e di ricchezze dello spirito, di sapienza ereditaria messa inconsciamente in opera, di rettitudine morale, di giustizia, d’amicizia, di felicità e di virtù, e di eroismo, nelle vite individuali dei membri della comunità, in quanto tutto questo sia, in certa misura, comunicabile, e si riversi in certa misura su ciascuno, ed aiuti così ciascuno a completare la sua vita e la sua libertà di persona»2 .

La riflessione maritainiana ci porta a due ordini di considerazioni, in rapporto ai nuovi populismi del tempo presente. La prima scaturisce quasi spontanea se si confronta la rappresentazione “alta” del bene comune che troviamo nel testo sopra citato, con la rappresentazione dello statista come amministratore di condominio, di cui si è detto. Se ci è consentito giocare con le parole, il fatto di puntare troppo sulla prospettiva di un ben-essere di tipo materiale porta a mettere tra parentesi le esigenze spirituali del bene comune, da cui dovrebbe scaturire anche un bene-agire che è premessa di un livello di ben-essere più alto, non solo di tipo materiale.

Vi è però un secondo livello di riflessione che riguarda il modus operandi dei nuovi populisti. Abbiamo detto che elemento comune è una forte enfasi sulla pars destruens, rispetto ad una realtà e ad una società di cui ci si presenta come rottamatori, moralizzatori, risanatori, ecc. Sembra che lo sport più diffuso, ormai, sia quello di gettare discredito sulla classe politica, ma anche su tutte le altre istituzioni dello Stato (dalla magistratura alle forze dell’ordine) e su non poche realtà della società civile. Tutti (a parte se stessi e gli amici del momento) vengono dipinti come corrotti, imbroglioni e malfattori, soggetti di cui diffidare e che – per questo – si vorrebbero congedare e sostituire. In questo modo, però, si aggredisce direttamente tutto quel patrimonio di ricchezze spirituali condivise, di cui parla Maritain, nel senso che si vanno ad intaccare le fondamenta di quel patrimonio di solidarietà e fiducia che rappresentano la base della coesione sociale ed il fondamento della possibilità di costruire un’autentica comunità sociale e civile. Aristotele parla di amicizia politica, per indicare il fatto che ciò che unisce i cittadini, nella costruzione del bene comune, non è semplicemente la ricerca del proprio interesse individuale, ma la volontà di costruire insieme qualcosa di più grande dei pur legittimi progetti dei singoli. Minare le basi della fiducia reciproca, a livello sociale, rende sempre più difficile la costruzione di autentiche amicizie politiche, perché ovunque si vedranno semplicemente alleati o avversari. Per rispondere attivamente a questo continuo lavorio che porta ad un logoramento crescente dei legami sociali è necessario muoversi in prospettiva educativa, identificando alcuni obiettivi strategici.

Educare alla sussidiarietà e valorizzare i corpi intermedi

Le riflessioni contemporanee sulla sussidiarietà ne mettono in luce aspetti che non erano così evidenti nelle prime formulazioni che abbiamo preso in esame, per cui distingueremo una sussidiarietà verticale (che riguarda le relazioni tra soggetti ordinati in una precisa gerarchia) da una sussidiarietà orizzontale (che riguarda relazioni che non hanno una natura gerarchica), ma anche una dimensione di tipo difensivo e protettivo, da una di tipo attivo e promozionale. Emergono di conseguenza quattro istanze o direzioni della logica della sussidiarietà che potremmo tentare di sintetizzare come segue: 1) sussidiarietà verticale - dimensione protettiva: non faccia il soggetto sovraordinato ciò che può fare prima e meglio il soggetto più vicino alla persona (concezione “classica” della sussidiarietà). 2) sussidiarietà verticale - dimensione promozionale: la comunità più potente deve promuovere attivamente l’autonomia degli altri attori sociali. 3) sussidiarietà orizzontale - dimensione difensiva: gli attori che interagiscono con altri attori sociali non devono “espropriare” gli altri di prerogative loro proprie. 4) sussidiarietà orizzontale - dimensione promozionale: gli attori che interagiscono con altri attori sono chiamati a “fare rete” per rafforzarsi a vicenda.

Il principio di sussidiarietà si pone dunque come fondamento per una ri-articolazione (e ridefinizione) dei diritti/doveri di cittadinanza, entro il codice simbolico del pluralismo societario, andando a costituire una sfera pubblica organizzata civilmente. È questa l’idea del principio di sussidiarietà come architrave di una welfare community a livello regionale, nazionale e globale. Esso si traduce in una struttura articolata, dotata di componenti specifiche e codici simbolici in cui giocano un ruolo importante alcune idee, come quelle di un’economia relazionale (e non solo basata su principi di tipo utilitaristico), di una reciprocità che si apre alla logica del dono, di una tendenza alla capacitazione (empowerment) di tutti i soggetti che interagiscono in una rete sussidiaria.

Si pone qui il problema di educare le persone a gestire dinamiche che si innestino in una logica sussidiaria: per vivere come “sudditi” di uno Stato centralistico è sufficiente obbedire alle sue leggi e - se del caso - fare ciò che ci viene ordinato, mentre per portare un contributo attivo in una società percorsa da legami reticolari di tipo sussidiario è necessario avere maturato un forte senso di partecipazione alla vita sociale e civile ed una certa creatività nell’essere “tessitori di reti”.

Si tratta di capire quali leve interiori muovere perché le persone maturino una disposizione alla civile convivenza di tipo sussidiario, ovvero una propensione alla cittadinanza orientata alla costruzione condivisa del bene comune. Il problema non è solo quello di far metabolizzare delle regole (che pure è opportuno che ci siano), ma soprattutto quello di generare le disposizioni interiori di cui si è detto. Le basi di una educazione sociale in genere stanno nella cultura della reciprocità che a sua volta si basa su quella che alcuni autori hanno chiamato etica del dono, che considera la società come uno spazio di interazioni condivise in cui ciascuno è chiamato a realizzare – per ciò che gli compete – il bene comune, ma contestualmente vede nel paradigma del dono il fondamento della stessa logica dello “scambio”. Caillé parla in tal senso di un principio di incondizionalità condizionale, che è presupposto allo stesso instaurarsi della logica dello scambio in cui vi possa essere un tornaconto. In altri termini possiamo dire che la solidarietà è la matrice etica alla base di qualsiasi rapporto sociale che, in una tensione costante tra libertà e obbligazione, genera rapporti sia di dono e di ricambio di doni, sia di scambio di prestazioni e di cose, nel riconoscimento e rispetto dell’identità comune, nella fiducia reciproca, nella condivisione delle responsabilità. La cultura del dono si rigenera attraverso circoli virtuosi che hanno il loro centro nella dinamica in cui si intrecciano fiducia, gratuità e riconoscenza (gratitudine): la fiducia, intesa nel senso di affidabilità, incentiva le relazioni sociali (che vengono inibite dalla diffidenza), genera aspettative e proietta verso un gioco a somma positiva, perché i beni relazionali – a differenza di quelli materiali – non si consumano ma si rigenerano. La gratuità, intesa come offerta senza condizioni di ciò che ciascuno può mettere a disposizione, genera la libertà del riconoscimento di un bene ricevuto, rispetto al quale ci si pone in un atteggiamento di attesa e non di pretesa, chiama a sua volta la riconoscenza, intesa come un “ritorno” di tipo relazionale che prende forma nel contesto di una collaborazione solidale.

I corpi intermedi, se valorizzati e promossi in tal senso, potrebbero essere i luoghi di una pedagogia della sussidiarietà, realizzata “sul campo” e negli ambienti in cui le persone trovino spontaneamente tanto gli spazi per condividere i propri talenti, quanto per realizzare se stessi, magari proprio attraverso tale condivisione. Limitare l’azione dei corpi intermedi, svuotarli delle loro potenzialità o limitarsi a servirsene quando istituzioni centrali e decentrate non sono in grado di assolvere i propri compiti, significa – in ultima analisi – uccidere quella cultura della sussidiarietà di cui vi sarebbe grande bisogno per uscire dalla trappola dell’individualismo e prevenire l’affermarsi di nuovi populismi.

Note

1 cfr. a. Porcarelli, Educazione e politica. Paradigmi pedagogici a confronto, franco angeli, milano 2012; L. corradini, a. Porcarelli, Nella nostra società. Cittadinanza e costituzione, SEi, torino 2014.

2 J. maritain, La persona e il bene comune (1947), tr. it. morcelliana, brescia 1995, p. 32. cfr. a. Porcarelli, Educazione e politica..., cit., p. 117 e sgg.