Diritti privati, doveri pubblici

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Il richiamo allo spirito di fratellanza contenuto nell’art.1 della Dichiarazione universale dei diritti umani è un invito ad andare oltre la stessa sfera dei diritti e dei doveri, o perlomeno a declinarli in un senso che va alla radice dell’autentica relazione umana e sociale. Tuttavia è inevitabile constatare che la distanza tra le dichiarazioni di principio e la realtà di fatto in questi settant’anni non è stata colmata.

Q uando ci interroghiamo nella tradizione che ci ha raggiunto nella modernità, quella romana, immaginiamo che quel che chiamiamo diritto i nostri progenitori lo indicassero come jus. In realtà il nesso tra jurisdictio e imperium, tra il pronunziare il diritto ed esercitare il supremo potere militare e civile, ci spinge a una diversa lettura del diritto. Jus è la pace sociale imposta da chi ha il comando sulla comunità. I componenti di questa hanno il dovere di obbedire. Altrimenti insorge il disordine e la comunità si dissolve. Jus è dunque il primordiale vincolo politico della comunità. Non a caso una diramazione di significato di questo termine vale a indicare il brodo di coltura, che si caratterizza per la mescolanza omogenea cui si riducono i singoli componenti. Assai prima di giungere a una organizzazione collettiva, con un capo dotato di imperium e in grado di dicere jus (pronunciare il diritto), l’archetipo della vita in comune è la famiglia originata dalla procreazione. Il padre generatore, pater parens, tiene insieme la moglie, i figli e le figlie, i nipoti, le nuore, gli schiavi, quando se ne avranno, gli animali, la terra, gli attrezzi da lavoro, i frutti, gli acquisti più pregiati, la casa. Su tutto questo microcosmo di persone e di cose, il padre non ha diritti, ma una potestas. Il mondo dei privati nasce da un potere assoluto, proprio e soltanto del padre, la patria potestas. Il padre è il sovrano di un piccolo regno, di cui ha il potere in base ad un evento, di cui più naturale non si potrebbe dare, qual è la procreazione. L’assolutezza di questo potere non ha origini politiche o giuridiche, ma religiose. Quando non si intendeva ancora la congiunzione sessuale come causa procreativa, questa appunto si riconosceva in un atto simile a quello della creazione divina, perciò di procreazione. I padri insegnano e trasmettono la loro esperienza nella coltivazione della terra, nell’allevamento del bestiame, nella costruzione degli edifici, nelle tecniche artigianali, nella preparazione dei cibi, nella regimazione delle acque, nella calendarizzazione delle stagioni, nell’osservazione degli astri. L’obbedienza ai padri si deve alla indispensabilità delle loro conoscenze, che nelle culture della sola oralità si concreta nella esecuzione di quanto da essi si ascolta.

La comparsa dei diritti

I padri possono raggiungere, in pochi individui biologicamente più validi, età elevate, come dimostra la tradizione che vuole il secolo misura del tempo storico suggerito dallo spatium vitae longevi hominis (la durata della vita di un uomo longevo), e dalla titolazione di ben tre gradi di ascendenti oltre quello paterno in avi, abavi, atavi, evidentemente nella suggestione della loro possibile e talora probabile convivenza. E ancora, testimonia la grandezza superumana della figura paterna il suo destino dopo la morte a divinità protettrice dei viventi, come dei Manes, Lares, Penates. Ogni famiglia ebbe la propria religione, i propri dèi e riti, i sacra familiaria, distinti dai sacra publica dello Stato e da quelli popularia, della popolazione. Il padre aveva costituito un universo domestico, e l’alleanza dei padri costituì un ordinamento statuale guidato da un collegio aristocratico di patres senatores. L’evoluzione, poi iniziata, del protagonismo individuale entro e oltre il conflitto di classe tra patriziato e plebe, nell’esercito e nei comizi, nel passaggio da una società contadina ad altra urbana e mercantile, continua a strutturarsi sull’ordinamento patrista. L’unico soggetto titolare di diritti è il pater. Dalla indistinta potestas originaria si individuano il potere del marito sulla moglie o sulla nuora, quello sui figli, il dominium sulla terra e sugli animali, poi anche sugli schiavi e via via i diritti sulle cose altrui, quelli dalle obbligazioni, dai testamenti. Ma i romani non giunsero mai ad un bill of rights, come apparve nella modernità europea. I patres avevano bisogno di recitare un’actio, stesso termine dell’azione teatrale, in un tribunale che aveva un’aula a forma di cubo senza una parete, proprio perché la recita avesse un pubblico in grado di vedere e udire. Presiedeva l’actio un magistrato cum imperio, prima un console, più tardi un pretore jure dicundo (per pronunciare il diritto). Torna qui la formula del jus dicere con il significato di richiamare alla pace sociale i contendenti, attore e convenuto. Ma l’azione teatral-giudiziaria non andava oltre la scelta dello judex privatus (giudice privato). Costui convocava nella sua casa le due parti e decideva la loro controversia con criteri a loro accetti. Ancora non si poteva individuare una tipologia astratta di diritti. Lo scenario giuridico del mondo dei privati muta quando comincia ad essere concessa la cittadinanza romana a famiglie straniere senza la patria potestas. Si vide allora che questa era l’involucro avvolgente l’intero insieme dei diritti dei privati. Rotto quello, questi crescevano in identità e autonomia indipendentemente dalla titolarità di pater. Dal 212 d.C., con la Constitutio Antoniniana, che concede la cittadinanza romana a tutti gli abitanti dell’impero (omnes qui in orbe romano sunt, cives romani effecti sunt), tutte le posizioni individuali tendono a riflettersi in diritti privati.

...e dei doveri sociali

L’imperatore rende giustizia a chiunque, la jurisdictio repubblicana in due fasi, nel tribunale del magistrato cum imperio e nella casa del giudice privato, scompare nella cognitio (procedimento) della onnipresente burocrazia imperiale, che lega come in una rete tutti gli abitanti dell’impero dai palazzi dei governi locali a quello sacro della capitale.

La consultazione creativa dei diritti, professione esercitata dai giuristi prima nelle proprie private abitazioni, poi in edifici pubblici a questo fine destinati, per essere i giuristi diventati portavoce della volontà imperiale, confluì in una gigantesca biblioteca di opere giurisprudenziali che Giustiniano raccolse in una compilazione, attribuendosela a sé, come unico giudice, legislatore ed interprete Deo auctore (per volontà divina).

Da allora, VI secolo d.C., fino all’età moderna, i diritti dei privati furono pascolo di dottori e di giudici, entro i vasti confini della proprietà, del matrimonio, dei testamenti, dei contratti. La società non era più quella escursione dai padri agli dèi domestici, come la immaginarono e vissero gli antichi romani. Nell’Alto Medioevo era nata una società di oratores, bellatores, laboratores, di ecclesiastici, guerrieri, contadini e artigiani, cui si aggiungeranno, prodromo di ulteriore grande evoluzione, i mercanti. Il mondo dei privati era scandito da mestieri e professioni. Potevano ancora bastare i diritti? O non piuttosto cominciavano a dominare i doveri, non più confinati, come un tempo, nella sfera della religione e della morale? Il cristianesimo aveva ereditato il decalogo mosaico, delle cui dieci parole otto sono di divieto, postulando dunque doveri negativi. E, riferendosi al contesto del popolo d’Israele, si tratta di doveri pubblici. Ma il Nuovo Testamento ha interiorizzato la relazione dell’Alleanza, sicché quei doveri, per uscire dall’ambito etico-religioso, si sono per necessità della loro pubblica osservanza secolarizzati. Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non rendere falsa testimonianza, non desiderare la donna altrui, né la roba altrui, sono doveri sociali.

Un passo doveva però ancora compiersi. Occorreva stabilire una corrispondenza tra diritti privati e doveri pubblici. Non si poteva lasciare che i diritti si realizzassero ad opera dei loro titolari. Sarebbe stata sempre necessaria la forza, che postula la violenza; oppure la giustizia, invocata dal privato al giudice, cioè al potere pubblico. Il dovere spontaneamente adempiuto soddisfa pacificamente il ventaglio dei diritti dei privati. In un circuito che resta creazione del mondo privato. Ma la nascita dello Stato dell’età moderna altera l’economia diritti-doveri ereditata dall’antichità romana e dal Medioevo europeo. Accanto e oltre la proprietà, diritto sacro dell’uomo antico, fondamento della sua primordiale costituzione patriarcale, nasce la libertà, che non è più quella del polites (cittadino) greco. È lo spazio conquistato con le rivoluzioni liberali, nel quale trovano tutela il corpo, il domicilio, la corrispondenza, la locomozione, la riunione, l’associazione, il culto, la manifestazione del pensiero, la stampa, il nome, la cittadinanza, la capacità giuridica. Ognuna di queste manifestazioni della libertà vive in quanto ne è dichiarata e rispettata la intangibilità da parte dello Stato costituzionale.

Solidarietà e fratellanza

Dopo le rivoluzioni per le libertà civili esplode il conflitto sociale. Ecco allora lo Stato piegarsi a riconoscere i diritti dei lavoratori, la retribuzione, la quantità e la modalità del lavoro, che garantiscano al lavoratore e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa, la parità uomo-donna, la protezione della maternità e dei minori, la prevenzione e assicurazione negli infortuni, invalidità, vecchiaia, disoccupazione involontaria, minorazione, libertà sindacale. Quanto alla libertà degli imprenditori, essa deve realizzare l’utilità sociale e non recar danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.

Abbiamo esemplificato sulla Costituzione italiana, potendosi tuttavia allargare l’orizzonte su molte costituzioni del Novecento. La nostra Costituzione ha però una ispirazione personalista che le consente di dominare con l’articolo 2 l’evento nuovo dell’avvento dei diritti umani: «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale».

Ecco qui stretti in un unico sintagma diritti dell’uomo e doveri inderogabili di solidarietà. La persona non sta nel soggetto giuridico formalizzato dalla scienza giuridica europea sette-ottocentesca, residuo astrattizzato del pater familias romano. La persona è lo human being, l’essere umano individuale, nato libero ed eguale a tutti gli altri uomini, così come lo definisce la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Nell’antichità greca, Aristotele aveva definito l’uomo «animale politico», perché naturalmente destinato a vivere con i suoi simili nella comunità della polis. La Dichiarazione universale, art. 1, così descrive e prescrive la naturale vocazione degli uomini: «Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza».

Quelli che nella nostra Costituzione sono i doveri inderogabili di solidarietà, sono nella Dichiarazione universale i comportamenti reciproci tra gli uomini «in spirito di fratellanza». Siccome è scritto «devono agire in spirito di fratellanza», se ne ricava che è entrata nel patrimonio della civiltà umana la consapevolezza della necessità di un dovere generale di fratellanza. E allora: non fu detto da Gesù Cristo «amatevi come io vi ho amato»? Alla radice del mondo moderno è forse venuto il momento di riconoscere la sopravvivenza e la vitalità del cristianesimo non solo come religione, ma anche come energia storica di una progrediente umanizzazione della convivenza tra gli uomini.

Nel caso particolare, come coscienza di un dovere di fratellanza. Nella comparazione tra la definizione costituzionale italiana «dovere inderogabile di solidarietà», e il dovere di agire in spirito di fraternità della Dichiarazione universale, non c’è da dubitare che solidarietà è un termine debole, fratellanza è invece forte. Solidarietà ha bisogno di specificarsi in politica, economica e sociale; ha dunque una portata concettuale tecnicizzata. Fratellanza è un sentimento, un legame emotivo che copre, deve coprire, ogni relazione propria della società umana. Colta in questa estensione e profondità, la fratellanza trascende le categorie dei diritti e dei doveri, privati o pubblici che siano.

Non si dica perciò che, sperimentata l’età dei diritti dei privati come tesa a realizzare uguaglianza e libertà, si è aperta quella dei doveri pubblici per raggiungere anche la giustizia. Siamo ancora sulla frontiera tra etica e diritto. Perfino i giuristi romani qui si fermavano, sui tre precetti «non far male a nessuno, dare a ciascuno il suo, vivere onestamente». Facciamoci coraggio e scavalchiamo il confine: usiamo l’un l’altro non diritti e doveri, ma spirito di fratellanza.