Il valore pubblico di un cammino assembleare

di 

L’esercizio del metodo democratico che l’Azione cattolica compie alla fine di ogni triennio e la sua prorompente attualità profetica.

Abbiamo appena celebrato i cinquant’anni del nuovo Statuto dell’Azione cattolica italiana, l’experimentum approvato da san Paolo VI nel 1969 inizialmente per un triennio e che invece ci ha consegnato l’associazione che conosciamo e che viviamo oggi, rinnovandone ogni giorno le scelte fondanti. Una di queste è senza dubbio la scelta democratica, che trova la sua massima espressione nella concatenazione di assemblee ed elezioni che in questi mesi sta coinvolgendo circa cinquemila parrocchie di oltre duecento diocesi.
L’esercizio del metodo democratico che l’associazione compie alla fine di ogni triennio non può essere ridotto a un rito da compiere ciclicamente, per tenere fede alla tradizione; chiede piuttosto di essere riscoperto nella sua prorompente attualità profetica. Quello che in gergo associativo chiamiamo «cammino assembleare» ha infatti un valore pubblico, non limitato all’Ac e ai suoi aderenti.
Una prima indicazione discende proprio dalla scelta lessicale e dall’espressione che si utilizza per delineare questo particolare momento vita dell’Ac: «cammino assembleare». Non dunque un mero appuntamento elettorale, non un evento isolato nel quale individuare vertici e dirigenti, ma un percorso articolato che parte dalle parrocchie e, passando per le diocesi e il collegamento regionale, giunge alla scelta dei responsabili nazionali e alla definizione delle linee programmatiche e degli orientamenti per la vita associativa. Questo esercizio complesso, che tiene insieme la fatica organizzativa e il coraggio di mettersi in gioco, è in sé metodo e contenuto, forma e sostanza: nello sforzo di corresponsabilità che ogni triennio chiama gli aderenti a partecipare delle scelte che riguardano il presente e il futuro dell’associazione, l’Azione cattolica evita la tentazione attualissima del personalismo, anteponendo alle qualità del singolo il carisma del “noi”.

Non capi, ma servi
Chi, all’esito dell’esercizio democratico, è chiamato a ricoprire un incarico associativo, non è un capo, ma un servo: «Lo Spirito di servizio [...] è una delle scelte non forse dichiarate, ma profonde, dell’Ac di sempre». Le parole pronunciate da Vittorio Bachelet nel suo ultimo discorso da presidente nazionale dell’Azione cattolica, nel 1973, suggeriscono ancora oggi uno stile, un habitus che l’associazione custodisce tenacemente nei vari passaggi della sua storia democratica. Il discernimento unitario negli organi elettivi, infatti, costituisce il principale antidoto nei confronti dell’autoritarismo e di derive leaderistiche non così eventuali. In un dibattito pubblico dominato dalle pulsioni anti-sistema, che a volte rischiano di delegittimare persino la forma democratica e di minare la tenuta delle istituzioni – secondo il 53° Rapporto sulla situazione sociale del Paese del Censis, il 48% degli italiani vorrebbe al potere un «uomo forte che non debba preoccuparsi di Parlamento ed elezioni» –, l’investimento in una struttura come quella associativa rappresenta un piccolo spazio di profezia e un monito per la società civile e per la Politica, quella con la “P” maiuscola.
Un’ulteriore considerazione, il cui valore trascende le strutture dell’associazione e può essere proiettata nello scenario pubblico di questo tempo quale indicazione di stile, riguarda l’orizzonte temporale che scandisce la vita democratica dell’Azione cattolica: il triennio. Un tempo sufficientemente breve per facilitare un sano avvicendamento negli incarichi di responsabilità, secondo il tradizionale limite dei due mandati consecutivi, ma anche sufficientemente lungo per provare a superare il contingente. La programmazione triennale dell’Ac conserva una potenzialità che la politica – con la “p” minuscola, stavolta – sembra avere ormai perso: la tensione verso il futuro, la visione. Il medio periodo dentro il quale si esercita la responsabilità associativa consente di avviare una progettualità, di porsi obiettivi e di programmare specifiche attenzioni per realizzarli, tappa dopo tappa, per poterli verificare alla fine. Chi vive l’associazione nel fedele susseguirsi dei periodi di responsabilità, sa bene che la fine di un triennio non è mai solo una conclusione: è sempre anche l’inizio di qualcosa che altri proseguiranno.
Così come l’avvio di una nuova responsabilità non è un colpo di spugna, ma l’inizio della cura di qualcosa che altri hanno affidato. La continuità della vita associativa che il cammino assembleare realizza è, dunque, la garanzia di un’associazione che non custodisce il passato come cenere, ma che valorizza la storia come seme buono da gettare nel presente, per costruire il futuro.

Un “tempo forte di sinodalità”
Una riflessione più specifica va riservata al valore pubblico di questo cammino assembleare. Il percorso verso la XVII Assemblea nazionale, in programma dal 30 aprile al 3 maggio 2020, è stato pensato come un «tempo forte di sinodalità» nel quale accompagnare le parrocchie e le diocesi, come si legge nel documento preparatorio, a «compiere un vero e proprio scrutinio, per confrontarsi con il territorio e con la Chiesa locale in cui vivono» (p. 2). La bozza diffusa in questi mesi apre al discernimento, stimolando ogni livello della vita associativa a interrogarsi sulle sfide per l’uomo e la donna di oggi, senza proporre facili soluzioni. La scelta di porre domande, piuttosto che calare risposte già pronte, è una scelta controcorrente in uno spazio impoverito dalle eccessive semplificazioni. Il documento preparatorio va nella direzione dell’approfondimento problematico, fedele all’esemplarità formativa che da sempre costituisce il tratto identitario dell’associazione. Il Progetto formativo consegnato agli aderenti nel 2004 si rivela ancora attuale quando afferma che «attenzione, informazione, interesse, conoscenza di fatti e fenomeni da interpretare e scrutare» (cap. 3) sono la chiave per leggere il tempo e coglierne i segni.

Nel solco del Progetto formativo, l’instrumentum laboris che condurrà l’associazione all’Assemblea nazionale invita a rileggere la realtà ecclesiale e civile nella quale siamo immersi non già attraverso la lente distorsiva degli slogan o delle fake news, ma con uno sguardo ri-conoscente, cioè disposto a letture nuove, libero da pregiudizi mortificanti, capace di aprire percorsi di ricerca del bene comune.

Nel solco dell’Evangelii gaudium
Una ulteriore sfida per questo tempo proviene anche dal titolo del documento programmatico appena richiamato, Ho un popolo numeroso in questa città, che indica l’orizzonte di un’associazione più popolare e che si pone nel solco dell’invito che papa Francesco ha rivolto ai partecipanti al Congresso del Forum internazionale di Azione cattolica il 27 aprile 2017. Quando, in quell’occasione, il Santo Padre suggeriva all’Ac un «bagno di popolo», non intendeva di certo tracciare il profilo di un’associazione che convoca la folla di fedelissimi per lasciarsi acclamare. Richiamava, piuttosto, la necessità di intercettare la parte di popolo lasciata ai margini, la più problematica: «Famiglie in cui i genitori non si sono sposati in Chiesa, uomini e donne con un passato o un presente difficile ma che lottano, giovani disorientati e feriti». La sfida di una «maternità ecclesiale» – è questa l’espressione utilizzata dal Pontefice – che accoglie e accompagna ogni persona, con il medesimo desiderio di cura, rappresenta oggi più che mai l’autentico spazio di profezia contro la retorica populista e le esaltazioni demagogiche collettive, incapaci di una reale inclusione della marginalità. Nel documento programmatico, l’Azione cattolica intende assumere su di sé il dinamismo missionario di cui parla l’Evangelii gaudium (n. 48), nella consapevolezza che in quel “numero” c’è sempre un posto libero per qualcuno che entra e un posto vuoto per qualcuno che manca.