L’eredità del vescovo rosminiano, prete dotto, liberale, austero, pio, non intransigente. Soprattutto, pastore del dialogo ecumenico e interreligioso. Figlio e interprete del Concilio. Da ausiliare di Roma, fece della mitezza una sua cifra, consapevole che è preferibile illuminare invece di combattere, costruire ponti invece di ergere mura, che al principio di autorità bisognava sostituire il principio di persuasione.
Se volessi compendiare in una sola frase la figura ed il vissuto di Clemente Riva, rosminiano, vescovo ausiliare della diocesi di Roma dal 1975 al 1998 (un anno prima della morte) ed uno dei maggiori protagonisti del dialogo ecumenico e interreligioso nella seconda metà del Novecento, non mi sovverrebbe nulla di meglio che la definizione di alcuni vocabolari italiani alla parola prete rosminiano: prete dotto, liberale, austero, pio, non intransigente. Tutte queste qualità, infatti, mi sembra si addicano a pennello alla sua azione di maestro e di testimone.
Proveniente da famiglia contadina bergamasca (era nato a Medolago, a quattro chilometri da Sotto il Monte, nel 1922), entrò tra i rosminiani (Istituto della Carità, fondato dal beato Antonio Rosmini) nel 1935, a 13 anni. Agli inizi, causa la scarsa istruzione ricevuta a casa (parlava solo il dialetto bergamasco), i superiori non seppero intuire le sue potenziali doti umane e intellettuali, né il suo anelito pastorale, e gli comunicarono che non sarebbe stato avviato al sacerdozio. Egli accettò la decisione docilmente, come espressione della volontà di Dio per lui: una condotta che lo accompagnerà tutta la vita e che lo porterà sempre a lasciarsi guidare dagli eventi nelle scelte circa la sua missione. Rosmini chiamava questa docilità principio di passività. Un amico e connovizio di Riva, Antonio Riboldi, futuro vescovo di Acerra, racconterà che lo consolava e incoraggiava, dicendogli: «Non ti preoccupare, Clemente: io sarò la mente e tu sarai il braccio!».
La Provvidenza, alla quale Clemente Riva ha sempre affidato tutto il corso della vita, dispose diversamente. Infatti presto cominciarono a venire a galla le sua qualità di giovane intelligente, mite e socievole. Fu avviato alle scuole magistrali di Rovereto, con l’intenzione di farne un maestro; quindi fu promosso agli studi filosofici e teologici a Roma, Pontificio Ateneo Lateranense, coronati con l’ordinazione sacerdotale (1951).
Fu in questa città che Riva trovò l’humus congeniale sul quale impostare e dare respiro a tutto ciò che gli cresceva dentro. Egli si era preparato soprattutto sulle opere del suo padre fondatore, Antonio Rosmini. Ebbe anche la fortuna di avere formatori eccellenti, quali il padre generale dei rosminiani e filosofo (lo chiamavano il Rosmini redivivo) Giuseppe Bozzetti e il rettore di Porta Latina Ugo Honan. Per la sua direzione spirituale si giovava anche dei consigli del padre rosminiano e poeta convertito Clemente Rebora, che Riva considerava suo maestro in santità. Un primo saggio pubblico del suo spessore intellettuale lo diede due anni dopo l’ordinazione, con la tesi Il problema dell’origine dell’anima intellettiva secondo A. Rosmini, discussa in Laterano col massimo dei voti: tesi audace, perché difendeva – nel cuore del cattolicesimo - l’ortodossia del pensiero di Rosmini in alcune proposizioni condannate dal Sant’Uffizio nel 1888. Egli, con questa tesi, intendeva anche rispondere ad una tesi analoga sostenuta qualche tempo prima dal futuro papa Giovanni Paolo I. Riva incontrerà papa Luciani più tardi, in qualità di vescovo ausiliare di Roma, e avrà la consolazione di sentirsi dire dalla voce del Papa che aveva cambiato parere su Rosmini.
A Roma intanto la sua persona veniva conosciuta ed apprezzata in tutto il settore della vita ecclesiastica. Venne nominato consulente ecclesiastico dei Giuristi cattolici e vice assistente ecclesiastico centrale del Movimento Laureati di Azione cattolica, si avvicinò ai giovani della Federazione italiana degli universitari cattolici. Piacevano il suo carattere socievole, la sua semplicità, la sensibilità verso i problemi che urgevano al momento, l’acume con cui sapeva leggere i segni dei tempi. Dopo qualche anno fuori Roma, l’obbedienza lo richiamò nella capitale e dal 1966 esercitò il compito di rettore della basilica dei Santi Ambrogio e Carlo, in San Carlo al Corso.
Una svolta notevole della sua vita si ebbe nel 1963 con la nomina, assieme all’allora direttore della «Civiltà cattolica» padre Roberto Tucci, di consulente per la stampa cattolica italiana presso il Concilio, che riapriva i battenti dopo la morte di Giovanni XXIII e l’elezione di Paolo VI. Qui egli assaporò la gioia di respirare a pieni polmoni l’aria nuova che circolava nella Chiesa. Con i suoi articoli da “portavoce” del Concilio, articoli che apparivano regolarmente sul quotidiano cattolico nazionale «Avvenire d’Italia», egli informava il vasto pubblico sui contenuti dei documenti del Vaticano II e sulle ragioni che li avevano concepiti. La sua precedente formazione intellettuale sulle opere di Rosmini, specialmente sui temi del diritto, della politica e dell’antropologia, davano a questi servizi giornalistici un profumo intellettuale che, al tempo stesso, appariva fresco e profetico.
Verranno poi raccolti in libri pubblicati dalla Morcelliana di Brescia, tra il 1964 e il 1966 (La Chiesa per il mondo, La Chiesa in dialogo, La Chiesa incontra gli uomini). Riva diventa così, per tanti giovani e adulti, un punto luminoso e autorevole di riferimento. La notorietà aumenta con l’organizzazione, a fianco del cardinale vicario Ugo Poletti, del convegno diocesano romano avente per oggetto quello che tutta la stampa chiamerà «i mali di Roma» (1974).
Fu proprio il vicario di Roma Poletti a segnalarlo a Paolo VI, che tra l’altro lo conosceva bene per il suo impegno nella Fuci, come suo vescovo ausiliare. Anche questa nomina costituiva un segno dei tempi: causa la condanna di Rosmini, infatti, i rosminiani colti non avevano accesso alle sedi episcopali. La consacrazione avvenne nella primavera del 1975. Da questo momento inizia per il neovescovo una intensa attività pastorale e intellettuale a respiro mondiale, surrogata dalla sua grande preparazione culturale sui libri di Rosmini e sullo spirito del Vaticano II. Il motivo ispiratore della Chiesa che stava per sorgere, Riva lo attingeva dalle rosminiane Cinque piaghe della Santa Chiesa, che Paolo VI tolse dall’Indice dei libri proibiti prima di abolire lo stesso Indice. La prima edizione di questo libro si ebbe nel 1968, a cura dello stesso Riva, e da allora esso divenne un best seller permanente, con numerose edizioni italiane e traduzioni in lingua straniera. Da questo libro Riva attingeva l’impulso per operare al rinnovamento della Chiesa, alla valorizzazione del laicato, a restituire ai sacerdoti la fierezza del loro stato, ed ai vescovi la dignità e l’autorevolezza pastorale dei Padri della Chiesa. Era convinto, come scriveva Rosmini, che «solo i grandi uomini possono formare altri grandi uomini».
Uno dei campi più congeniali a Riva era il dialogo ecumenico e interreligioso. Egli lo sentiva dentro, lo promuoveva in tutti i modi e lo testimoniava con semplicità nel vissuto. Nel 1986, con l’ausilio dei due suoi amici laici e confidenti Francesco Cossiga e Giuseppe De Rita, ispirò e preparò la visita di Giovanni Paolo II alla sinagoga di Roma (grande l’amicizia che ne è nata col rabbino capo della sinagoga Elio Toaff ). Intrecciò legami fraterni con la Chiesa valdese (partecipava ogni anno, in agosto, al Sinodo valdese), con i battisti, i metodisti, gli episcopaliani, gli evangelici, i musulmani. Presenziò all’inaugurazione della moschea di Roma.
Erano frequenti i suoi viaggi all’estero per portare avanti questo compito. Soprattutto spingeva affinché il dialogo non rimanesse vivo solo a livello accademico, ma coinvolgesse il popolo. Un lavoro che, se gli aumentava la popolarità, i consensi e l’autorevolezza, non gli risparmiava le inevitabili spine della resistenza. Più volte l’ho sentito accennare ai tentativi (già provati a suo tempo da Rosmini), di tenerlo lontano dal Papa e dall’«Osservatore romano». Un giorno mi raccontò che durante un’udienza pontificia Paolo VI si lamentò con lui perché non andava a trovarlo. Ed egli rispose candidamente: «Ho cercato più volte di avere un colloquio con Lei, ma non ci sono riuscito». Al che Paolo VI chiamò subito il suo segretario e gli impose di fissargli un’udienza.
Con l’elezione di Giovanni Paolo II, tra il nuovo pontefice e Clemente Riva si instaurò un crescente rapporto di sincera stima e fiducia reciproca. Fu Clemente Riva a introdurre il Papa alla conoscenza di Rosmini. Al punto che quando il Papa lo vedeva, lo indicava benevolmente agli astanti: «Rosmini!». E fu questa conoscenza che, in definitiva, portò Giovanni Paolo II a includere il nome di Rosmini, nell’enciclica Fides et ratio, fra i maestri del terzo millennio. Fu ancora questa conoscenza benevola a far iniziare l’iter di beatificazione di Rosmini ed a sbloccare la questione rosminiana delle Quaranta proposizioni, avvenuta poi nel 2001, soluzione che spianò la strada alla beatificazione del 2007, con papa Benedetto XVI.
Clemente Riva non fece in tempo a vedere né la soluzione della condanna di Rosmini, né tanto meno la beatificazione, che egli, abituato ai tempi lunghi del passato, prevedeva si sarebbe verificata in anni molto lontani. La sua vita si concluse presso la clinica romana “Pio XI” il 30 marzo 1999. Gli mancavano due mesi per compiere 77 anni. Due anni prima aveva rimesso nelle mani del Papa il suo mandato di vescovo ausiliare. Negli ultimi anni era stato aggredito da una severa malattia. Da uomo molto riservato, aveva tenuto nascosto il suo malessere a tutti, tranne che ai legittimi superiori: da una parte perché non voleva essere compianto nel disbrigo dei suoi compiti, dall’altra per lealtà verso chi gli aveva affidato quei compiti. Nei giorni dei suoi funerali, il cardinale Ruini comunicò al pubblico una notizia su di lui, di cui non erano al corrente neanche i confratelli, e che manifestò tangibilmente lo spirito di povertà di mons. Riva: egli, mensilmente, devolveva al seminario di Roma tutto il suo stipendio di vescovo. Obbediva in questo a quanto Rosmini raccomandava nelle Cinque piaghe: il prete che ha già del suo per vivere, fa bene a non usare del patrimonio della Chiesa.
Del resto, allo stile di vita di mons. Riva bastava proprio poco per vivere. Per tutto il tempo del suo episcopato rinunciò all’appartamento che gli spettava, scegliendo di mangiare e dormire nella comunità religiosa rosminiana di San Carlo al Corso. Per disobbligarsi dal peso economico della sua presenza in comunità, portava all’occorrenza i regali in natura che gli facevano i fedeli durante le cresime. Per spostarsi usava sempre i mezzi pubblici che adopera la gente comune. In comunità si prestava volentieri all’umile ufficio di rispondere lui stesso al telefono e di andare ad aprire la porta. Quando gli impegni glielo permettevano, faceva volentieri da cuoco (polenta e spaghetti con aglio, olio e peperoncino i suoi piatti preferiti). Il vestito era decente ma povero: girava in clergyman, come un semplice prete.
L’austerità mite che imponeva ai suoi confratelli e figli spirituali (numerosissimi ed eccellenti, questi ultimi) diventava autorevole perché egli stesso ne era testimone credibile. Ho scoperto solo dopo la sua morte che nella sua cameretta con studio il “celebre” mons. Riva, cui ricorrevano per consigli alti prelati e notevoli personalità del mondo della politica e della cultura, non aveva né un lavandino, né i servizi igienici: usava quelli della comunità.
La sua liberalità consisteva nell’apertura benevola ad ogni genere di dialogo che promettesse una qualche potenzialità di bene. Il suo essere dotto gli veniva dalle letture assidue e dall’aggiornamento quotidiano sulle vicende del mondo, che poi trasformava in libri, articoli, conferenze (preparava queste ultime con serietà, di norma scrivendole in tempo e poi leggendole in pubblico). La sua mitezza gli era dettata dalla intima consapevolezza che è preferibile illuminare invece di combattere, costruire ponti invece di ergere mura. La sua pietà era frutto di una intima fede rocciosa nel soprannaturale e nella grazia che accompagna dal di dentro ogni cristiano. La sua non intransigenza veniva dalla massima rosminiana che viviamo tempi in cui al principio di autorità bisognava sostituire il principio di persuasione.
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Antologia
Il tema del dialogo è entrato nella mentalità e nella letteratura contemporanea come esigenza essenziale e indispensabile. Si elaborano filosofie del dialogo, teologie, sociologie, politiche del dialogo. Non posso non ricordare qui i Discorsi di Giovanni Paolo II nel periodo del tragico evento della guerra del Golfo. Il Papa poneva in risalto la necessità del dialogo come soluzione ragionevole del dramma di un’avventura senza ritorno. Come aveva ragione! Nessun problema è stato risolto di quelli prospettati e sperati con la guerra. La stessa Onu così forte per la guerra è diventata poi più debole e impotente per i problemi del dopo-guerra. Come sarebbero auspicabili, viceversa, una civiltà del dialogo intesa come civiltà dell’amore! L’immigrazione da ogni parte del mondo con molteplici religioni esige il dialogo inter-religioso in modo urgente […]
Per dialogo ecumenico si intende l’impegno di promuovere, secondo la volontà del Signore e la docilità dello Spirito Santo, la reintegrazione e la comunione piena tra coloro che sono battezzati validamente, credono e confessano Cristo secondo la Parola di Dio. Il dialogo inter-religioso riguarda i rapporti teoretici o teologici e pratici, che possono intercorrere tra due persone, tra gruppi o comunità o esperienze delle diverse religioni esistenti.
Anche qui si tratta di dialogo di conoscenze reciproche, poi di confronti. Infine di ricerche comuni della verità, al fine di stabilire una convivenza pacifica nel mondo, volta ad evitare conflitti e guerre, ma anche ad accogliere eventuali verità o aspetti della verità presentati dall’interlocutore […]
Nonostante le inimicizie del passato il Concilio esorta tutti alla comprensione, «a difendere e promuovere insieme, per tutti gli uomini, la giustizia sociale, i valori morali, la pace e la libertà». Ma la religione a cui il Concilio si riferisce di più è la Religione Ebraica. I contenuti dei rapporti tra Ebraismo e Cristianesimo presenti nelle Sacre Scritture sono tanti e tanto importanti da essere conosciuti da tutti i cristiani, che considerano gli Ebrei “fratelli maggiori”.
Ricorda, la Dichiarazione Nostra Aetate, che, «essendo perciò tanto grande il patrimonio spirituale comune a Cristiani e ad Ebrei, questo sacro Concilio vuole promuovere e raccomandare tra loro la mutua conoscenza e stima, che si ottengono soprattutto dagli studi biblici e teologici e da un fraterno dialogo» (n. 4). Con gli Ebrei un dialogo rilevante è quello che riguarda gli studi biblici e teologici. La loro esperienza e la loro storia biblica possono essere di grande aiuto anche ai cristiani a comprendere meglio i testi sacri.
I rapporti ebraico-cristiani hanno avuto dei momenti drammatici, dovuti non solo ai fatti storici ma anche ad un’impostazione teologica di rottura, invece che ad una visione di continuità, evidentemente con le novità “cristiane”. «La Chiesa inoltre, che esecra tutte le persecuzioni contro qualsiasi uomo, memore del patrimonio che essa ha in comune con gli Ebrei, e spinta non da motivi politici, ma da religiosa carità evangelica, deplora gli odii, le persecuzioni e tutte le manifestazioni dell’antisemitismo dirette contro gli Ebrei in ogni tempo e da chiunque» (n. 4). Ci si attende un documento esplicito contro l’antisemitismo, come causa di conflitto coi fratelli ebrei e come superamento di una mentalità di antipatia e di conflittualità. La Chiesa nel documento Nostra Aetate impegna i suoi figli a studiare meglio le vicende della Passione e Morte di Gesù, dovute ai «peccati di tutti gli uomini» e non imputabili «indistintamente a tutti gli Ebrei allora viventi, né agli Ebrei del nostro tempo». Un importante rilievo al Dialogo inter-religioso è dedicato dall’Enciclica Salvatoris Missio, che arriva ad affermare che il «dialogo inter-religioso fa parte della missione evangelizzatrice della Chiesa». Ci sembra una contraddizione? Evangelizzare e dialogare non sembrano in contrasto? L’Enciclica chiarisce l’affermazione e approfondisce il significato del dialogo.
(C. Riva, Dialogo inter-religioso e il divino nell’uomo, in: Rosmini: Il
divino nell’uomo. Atti del XXV Corso della “Cattedra Rosmini”, Sodalitas
– Spes, Stresa – Milazzo, 1991, pp. 237-238; 241-242; 244-245)