Dall’ascolto alla conversione: il Sinodo per l’Amazzonia

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Il cammino sinodale prosegue. Dopo la fase dell’ascolto delle comunità locali e della realtà dell’Amazzonia e quella dell’incontro e del discernimento dei pastori riuniti a Roma, ora è il tempo della chiamata alla conversione personale e comunitaria. Assumendo con consapevolezza e profondità il paradigma dell’ecologia integrale, declinata nelle sue quattro dimensioni: pastorale, culturale, ecologica e sinodale.

Nel discorso di chiusura del Sinodo speciale per l’Amazzonia, papa Francesco invitava a non fermarsi sulle “piccole cose”, ma a guardare alla parte più consistente, in cui il Sinodo ha dato il meglio di sé: la diagnosi della realtà e l’indicazione dei nuovi cammini per affrontare la situazione. Con questo spirito desidero raccontare il Sinodo, seguendo il cammino suggerito dal Documento finale: dall’ascolto alla conversione.

Ascoltare
Al dramma che vive l’Amazzonia e all’emergenza socio-ambientale e climatica la Chiesa risponde con l’ascolto; non si tratta di un atteggiamento passivo, ma di una profezia di incontro, dialogo e alleanza con i più poveri, che questo modello economico criminalizza e uccide.
In particolare alleanza è una parola chiave: indica una Chiesa che si rende presente, che resta accanto alle vittime. Attraverso il Sinodo, le popolazioni dell’Amazzonia, in particolare i popoli indigeni, i più abusati e criminalizzati di tutti, hanno percepito proprio che la Chiesa si pone al loro fianco.
È il frutto della scelta di focalizzare il Sinodo su una regione peculiare, che dobbiamo continuare a rispettare, evitando di imporre prospettive estrinseche o temi rilevanti in altri contesti. Fin dal Documento preparatorio, il cammino sinodale ha valorizzato la specificità di una regione con una ricca biodiversità, multietnica, pluriculturale e plurireligiosa. Essa oggi sperimenta «una profonda crisi causata da una prolungata ingerenza umana, in cui predomina una “cultura dello scarto” e una mentalità estrattivista» e la sua difesa «esige cambiamenti strutturali e personali di tutti gli esseri umani, degli Stati e della Chiesa».
Ascoltare l’Amazzonia richiede di prendere consapevolezza della sua complessità. È un territorio enorme (circa 7,5 milioni di kmq, cioè 25 volte l’Italia), suddiviso tra 9 paesi (Bolivia, Brasile, Colombia, Ecuador, Guyana, Perù, Suriname, Venezuela, più la Guyana francese). Ma la maggioranza della popolazione di ciascuno di questi Paesi vive al di fuori dell’area amazzonica: per quanto vasta, l’Amazzonia si trova sempre in una condizione di minoranza. Tra gli abitanti di questo immenso territorio vi sono quasi 3 milioni di indigeni, appartenenti a circa 390 gruppi etnici differenti, oltre a più di un centinaio di popoli indigeni in condizione di isolamento volontario. Si esprimono in 330 lingue diverse, metà delle quali parlate da meno di 500 persone. Ben più numerosi sono gli abitanti di origine diversa, arrivati lungo i secoli, che parlano le lingue nazionali dei paesi di appartenenza (principalmente spagnolo e portoghese) e rappresentano la maggioranza della popolazione urbana.
In questa immensa varietà, che consente di parlare di una pluralità di Amazzonie, è l’acqua a configurarsi come elemento unificante, considerando come asse principale il Rio delle Amazzoni. Questo vale per l’ambiente naturale, e anche per la popolazione umana, in termini tanto economici quanto culturali e simbolici, visto che proprio i fiumi permettono di spostarsi in una regione coperta quasi per intero da una fittissima foresta. L’unità dell’Amazzonia trascende dunque i confini politici, amministrativi e anche ecclesiastici che la percorrono. Non bastano le ordinarie categorie politico-amministrative a descriverne la realtà né a dar conto dell’equilibrio che i popoli che la abitano hanno saputo costruire con l’ambiente lungo i secoli. Bisogna aumentare il numero delle prospettive con cui l’avviciniamo o provare a ricomporle in maniera
più adeguata. Altrimenti, come insegna l’enciclica Laudato si', è impossibile mettere a fuoco tutte le dimensioni dei problemi e soprattutto trovare soluzioni davvero efficaci.
La peculiarità e l’unità della regione non devono mettere in secondo piano i legami e le connessioni con il resto del pianeta, il contributo che essa offre in termini ambientali e di biodiversità, lo sfruttamento che patisce e che rappresenta una minaccia per il mondo intero. L’Amazzonia è la nostra principale riserva di biodiversità, ospitando tra il 30% e il 50% delle specie viventi (animali e vegetali) del pianeta. Contiene inoltre circa il 20% dell’acqua dolce non congelata di tutta la superficie terrestre, e svolge un ruolo di polmone climatico per l’intera America Latina e non solo. L’Amazzonia è un banco di prova per tutta l’umanità: piena di bellezza, quella dei paesaggi e quella delle culture, ma troppo spesso disprezzata e guardata con avidità predatoria. Accoglie una Chiesa ricca di martiri, ma che fatica ad assicurare una presenza in mezzo alle popolazioni che la abitano e svolge una funzione cruciale per l’equilibrio ecologico di tutta l’America Latina e dell’intero pianeta: quello che accade in Amazzonia ci fa toccare con mano che siamo tutti interconnessi. Proprio l’articolazione tra globale e locale è la chiave interpretativa principale per comprendere lo sviluppo del percorso sinodale e capire come parteciparvi autenticamente, anche per noi che dall’Amazzonia viviamo lontano.

Convertirsi
Ascoltando, la Chiesa riconosce che ha ancora molto da cambiare e da imparare. Lungo il cammino sinodale abbiamo sentito la chiamata a una conversione sempre più profonda al Signore e al suo Vangelo, a livello personale, ma soprattutto come comunità. Il Signore ci ha invitato a prendere il largo, a solcare acque profonde: non le acque infide delle ideologie, ma quelle in cui lo Spirito è all’opera e ci chiama. Navigare in mare aperto vuol dire non accontentarci di dare piccole risposte parziali, ma avere il coraggio di esprimere tutte le conseguenze dell’incontro con Cristo, in cui si devono radicare uno sguardo diverso, un pensiero, una politica, un programma educativo, uno stile di vita e una spiritualità (cfr. Laudato si’, n. 111).
Concretamente questo ha significato assumere con maggiore consapevolezza e profondità il paradigma dell’ecologia integrale, che conduce a riconoscere l’urgenza della conversione. Unica in radice, in quanto risposta integrale all’appello dello Spirito, essa si declina in quattro dimensioni: pastorale, culturale, ecologica e sinodale.
La conversione pastorale chiama tutti i battezzati a collaborare per costruire una Chiesa missionaria: una Chiesa con volto e cuore indigeno, contadino, afrodiscendente, ma anche dal volto migrante e giovane, capace di nuovi cammini nelle realtà urbane e nel confronto tra culture. Concretamente questa conversione chiede alla Chiesa di disimparare e riapprendere, per abbandonare modelli coloniali che in passato hanno causato danni.
Questo atteggiamento chiama in causa la dimensione culturale della conversione, che si concretizza in un’apertura sincera all’altro, senza cercare di omologarlo, ma riconoscendone e rispettandone i valori e praticando l’inculturazione e l’interculturalità anche nell’annuncio del Vangelo. Ne parliamo da decenni, ma dobbiamo riconoscere che non siamo ancora molto abituati a farlo: solo così si spiegano le tante difficoltà e resistenze di chi ha fatto opposizione al Sinodo, riducendo la spiritualità dei popoli indigeni a idolatria e tacciando di sincretismo le esperienze ecclesiali di dialogo con loro. Ma questo equivale a immaginare di dover difendere dalle contaminazioni una religione “pura”, senza rendersi conto che si tratta della sua forma occidentale, che peraltro si è sviluppata nei secoli proprio acquisendo e integrando anche elementi, simboli, gesti e tradizioni di altre culture, considerate pagane. E che è chiamata a continuare a farlo in un mondo sempre più aperto all’incontro tra culture. Proprio la spinta alla conversione ci chiama a renderci conto che dietro il sospetto e la paura dell’altro ci sono spesso progetti egemonici e interessi economici e politici, che li manipolano e se ne servono per attaccare processi, religiosi e politici, a loro contrari, che tentano di promuovere l’integrazione delle differenze, la riduzione dell’esclusione e una maggiore giustizia nella società e tra i popoli.
Appare chiaro il collegamento con la terza dimensione della conversione, che parte dal riconoscimento del peccato ecologico, cioè il danneggiamento o la distruzione dell’ecosistema di un territorio determinato, tale da pregiudicarne il godimento da parte dei suoi abitanti. Il Sinodo non inventa un nuovo peccato, ma esprime quanto l’ascolto della realtà ci costringe a riconoscere: anche nel rapporto con l’ambiente possiamo scegliere la morte anziché la via della vita. Tutti siamo chiamati in causa: se in alcuni casi i responsabili dei disastri ecologici sono facili da identificare, il più delle volte la catena delle responsabilità è lunga e ramificata: di generazione in generazione, i comportamenti individuali di attenzione o di disattenzione per l’ambiente – quelli dei manager e dei politici, quelli degli insegnanti e dei ricercatori, quelli dei normali cittadini e lavoratori, quelli degli attivisti e di coloro che lottano per cambiare le cose – si aggregano e si sedimentano, dando forma a una cultura della cura oppure dello scarto, e alle relative strutture e istituzioni.
È in questa attenzione alle dinamiche collettive che si colloca la conversione sinodale, che chiama a inserire in un orizzonte di comunione e partecipazione la ricerca dei nuovi cammini di una Chiesa dal volto amazzonico, soprattutto per quanto riguarda la dimensione ministeriale e sacramentale. In particolare è emersa l’urgenza della conversione dello sguardo nei confronti delle donne. Lo ha ribadito il Papa nel discorso finale: «Ancora non ci siamo resi conto di cosa significa la donna nella Chiesa e ci limitiamo solo alla parte funzionale, che è importante […]. Ma il ruolo della donna nella Chiesa va molto al di là della funzionalità.
È su questo che bisogna continuare a lavorare». In questo atteggiamento di conversione, la Chiesa apre spazi per nuovi ministeri, ispirata dalla forza creatrice dello Spirito e nutrita dall’Eucaristia, definita un «sacramento dell’amore cosmico», un incontro di tutte le creature nella celebrazione della Pasqua.

Al tema della difesa del Creato, del quale si è ampiamente discusso anche al recente Sinodo dei vescovi sull’Amazzonia, il trimestrale Segno nel mondo (n. 4/2019) dedica il suo Dossier.
Il climatologo Luca Mercalli spiega come invertire la rotta rispetto a uno sfruttamento irresponsabile del Pianeta, iniziando da noi stessi: la casa, i trasporti, il cibo, piccole azioni quotidiane per fermare il riscaldamento globale e proteggere l’ambiente. L’economia sostenibile e una nuova cultura della responsabilità sociale sono invece al centro dell’intervento di Giuseppe Notarstefano, economista e vicepresidente nazionale per il Settore Adulti di Azione cattolica. E mentre il teologo Simone Morandini indica come e perché occorre porsi sulla scia dell’enciclica Laudato si’, Pina De Simone, filosofa e direttore di questa rivista, mette in risalto, tra i molteplici temi emersi dal Sinodo, il valore della diversità nella vita della Chiesa
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Camminare insieme
La chiamata alla conversione deve ora suscitare passi concreti, che rappresentano la terza fase del percorso sinodale, dopo quella dell’ascolto delle comunità locali e della realtà dell’Amazzonia, e quella dell’incontro e del discernimento dei pastori riuniti a Roma.
C’è ancora molto lavoro da fare e l’esperienza dell’Assemblea sinodale ci sprona a metterci in movimento: abbiamo percepito la potenza dello Spirito Santo, che conferma i passi della Chiesa; siamo incoraggiati dalla forza della comunione ecclesiale che abbiamo vissuto; ci contagiano il vigore e la determinazione di papa Francesco. Ma soprattutto restano nei nostri cuori le voci delle donne e dei popoli indigeni, che sono risuonate in Vaticano con dignità e fermezza, avviando nuovi processi, irreversibili, all’interno della Chiesa.
A queste voci se ne aggiungono molte altre, quelle di pastori, scienziati, giovani, laiche e laici, che ci scongiurano di non restare indifferenti, ma di cogliere l’urgenza della situazione. Come ricordava il Papa il 27 ottobre nell’Angelus seguito alla Messa di chiusura del Sinodo: «Abbiamo sentito spesso la frase “più tardi è troppo tardi”: questa frase non può rimanere uno slogan»: è arrivato il momento di prenderla sul serio!