Tutto è connesso. L’urgenza di tempi nuovi

di 

Con il Sinodo dei vescovi sull’Amazzonia, papa Francesco ha aggiunto un altro importante capitolo al suo magistero che chiede una conversione degli attuali modelli di sviluppo nella direzione di una piena ecologia integrale, la sola capace di tenere insieme la salvaguardia della casa comune e le ragioni di giustizia sociale.

L'Amazzonia, terra tra le più vulnerabili del mondo e devastata ultimamente da un’ondata di incendi dolosi, è stata al centro delle riflessioni dell’ultimo Sinodo dei vescovi. Occasione importante, quest’ultima, per interrogarsi come Chiesa sulla promozione di percorsi di ecologia integrale e per risvegliare la coscienza dell’opinione pubblica sull’urgenza di una conversione dei modelli di sviluppo nella direzione della sostenibilità.
Il termine «sostenibilità» si impone inizialmente in reazione alla crisi ecologica che, a causa di un eccessivo sfruttamento delle risorse naturali, ha mostrato e continua a mostrare al mondo conseguenze ormai quasi irrimediabili per le generazioni future. Tuttavia il tema della sostenibilità non riguarda esclusivamente la questione ambientale, ma tocca inevitabilmente anche questioni economiche e sociali.
La crisi finanziaria del 2007, ad esempio, ha manifestato la non sostenibilità di un sistema economico in cui la finanza ha un ruolo predominante rispetto all’economia reale. Da un punto di vista sociale, in Europa le disuguaglianze tra aree differenti nello stesso paese, tra paesi diversi, tra classi sociali e tra generazioni, hanno messo in crisi la sostenibilità dei sistemi di welfare e conseguentemente la tenuta della pace sociale e della democrazia. Anche la nostra vita quotidiana rischia di essere non più sostenibile: si pensi alla velocità delle nostre giornate,alla continua spersonalizzazione delle nostre città come alle difficoltà relazionali pur in una società sempre più interconnessa, alla solitudine degli anziani e alla difficoltà delle comunità di creare reti di sostegno per i più fragili.
A sostegno di ciò vi sono i diciassette Obiettivi per lo sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, nei quali non emergono solo gli aspetti ambientali, ma anche, ad esempio, il fornire un’educazione di qualità, raggiungere l’uguaglianza di genere, promuovere il lavoro dignitoso, la costruzione di città sostenibili e l’adozione di modelli di consumo e produzione responsabili.

Riduzionismi e «antropocentrismo dispotico»
Il magistero sociale, e in ultimo Caritas in veritate e Laudato si’, ha da sempre posto l’accento sui grandi rischi che possono caratterizzare il sistema economico.
Il primo è quello dei riduzionismi. L’economia disegna tradizionalmente l’uomo secondo la prospettiva antropologica dell’homo oeconomicus, che ha un’utilità che dipende solo dal consumo e dal reddito, eliminando tutte le finalità non egoistiche. In realtà l’esperienza e molteplici studi mostrano che il comportamento dell’uomo è mosso anche dall’interesse e dalla passione per gli altri, dalle relazioni interpersonali, dalla carità, dal senso del dovere. Questa visione dell’uomo ha generato una visione riduzionista dell’impresa che avrebbe come unico obiettivo la massimizzazione del profitto volto a soddisfare gli azionisti senza preoccuparsi di accrescere il valore aggiunto a beneficio di tutti i portatori di interesse (consumatori, lavoratori, comunità, fornitori). Il profitto è ovviamente utile e necessario, ma non quando questo avviene a scapito di tutti gli altri stakeholder e della dignità dell’uomo. Infine vi è un riduzionismo nella misurazione del valore, che porta a equiparare la ricchezza delle nazioni al Pil, dimenticando i beni culturali, ambientali e relazionali che generano felicità. Ecco perché si è alimentata l’attenzione negli ultimi anni verso lo sviluppo di indici diversi e più ampi, tra cui il Benessere equo e sostenibile (Bes).

Il secondo rischio è quello di un «antropocentrismo dispotico» (LS, 68) che riduce tutte le altre creature all’utilità dell’uomo, accompagnato da un «paradigma tecnocratico» (LS, 101) che considera il mondo come «realtà informe totalmente disponibile alla sua manipolazione» (LS, 106). Infine, terzo e ultimo, il rischio di affrontare tali temi in modo ideologico e dunque riduzionista, limitando la sostenibilità a un ecologismo superficiale fatto di singole iniziative, ma senza la volontà di affrontare i problemi in modo sistemico e unitario.
L’enciclica Laudato si’ assume al suo centro la prospettiva dell’ecologia integrale ponendosi nel solco già tracciato della Dottrina sociale della Chiesa. Già Populorum progressio afferma che lo sviluppo autentico «deve essere integrale, [...] volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo» (PP, 14). Limitarsi a considerare esclusivamente elementi di ordine materiale, o anche politico e culturale, senza aprirsi alla dimensione spirituale e relazionale, non sarebbe sufficiente, così come non tenere conto di tutti gli uomini e di tutti i popoli. Perché non vi è autentico sviluppo integrale che non sia comunitario, senza cioè lo «sviluppo solidale dell’umanità» (PP, 43).

L’ecologia integrale: relazione tra il singolo e il tutto
L’ecologia integrale non è solo una preoccupazione “green”, ma un paradigma che mette in primo piano la relazione tra le singole parti e il tutto. L’ecologia integrale tiene insieme, nella logica del «tutto è connesso», la dimensione economica, ambientale, il rapporto con il proprio corpo e le dinamiche sociali e istituzionali.
Un vero approccio ecologico è sempre sociale, ovvero capace di «integrare la giustizia nelle discussioni sull’ambiente, per ascoltare tanto il grido della terra quanto il grido dei poveri» (LS, 49). Se tutto è connesso, infine, anche un cambiamento personale degli stili di vita può avere impatti significativi sul “tutto”.
Papa Francesco critica aspramente «un’economia dell’esclusione e dell’inequità» (EG, 53), invitando a lasciar spazio a un’economia capace di combattere la «cultura dello scarto». Lo scopo non è riformare direttamente l’attuale sistema dal punto di vista tecnico, compito degli attori economici e politici, ma porre delle fondamenta morali solide dalle quali far derivare più agevolmente le necessarie implicazioni pratiche. Non basta riformare la struttura del sistema economico e gli assetti istituzionali, ma occorre affiancare gli obiettivi economici e politici con quelli etici, che presuppongono una conversione del cuore.
La responsabilità sociale d’impresa, unita alla responsabilità sociale del cittadino consumatore e risparmiatore, può essere un’efficace risposta all’economia che «uccide» (EG, 53). La sostenibilità d’impresa, come capacità dell’impresa di soddisfare gli interessi degli stakeholder nel lungo periodo, si fonda su una «triple bottom line» (Elkington, 1997): la sostenibilità economica, ambientale e sociale.
D’altro canto, uno strumento a disposizione dei consumatori e risparmiatori è il cosiddetto «voto con il portafoglio» per spingere le imprese ad adottare comportamenti socialmente responsabili. A tal fine sempre più sono le aziende che investono in responsabilità sociale integrandola nelle ordinarie strategie di business. Nel 2018 in Italia l’85% delle imprese con più di ottanta dipendenti dichiara di impegnarsi in iniziative di responsabilità sociale (il 5 % in più rispetto al 2015), con un investimento totale di quasi un miliardo e mezzo di euro (il 25% in più rispetto al 2015).
La sempre maggiore consapevolezza dei cittadini, la regolamentazione più sensibile e severa e la necessità di ridurre i conflitti con gli stakeholder spingono sempre più aziende, non solo «imprenditori illuminati», a muoversi in tal senso. Anche la finanza non è da meno: il primo gestore di fondi d’investimento al mondo, Black Rock, ha dichiarato di voler investire solo in società con buon standard di sostenibilità, in quanto l’insostenibilità ambientale, sociale e di governance è una fonte di rischio rilevante per la loro sopravvivenza e dunque per gli investitori. Stanno di pari passo crescendo le società esperte di rating “etico”, che con i loro giudizi hanno effetti importanti sulla reputazione aziendale. Da tutti questi fattori emerge che più l’azienda investe in responsabilità sociale, maggiori sono le sue possibilità di crescita e di non esporsi a rischi negativi. Ma mancano ancora incentivi fiscali e un investimento significativo di risorse che stimolino le aziende, soprattutto le più piccole, ad essere socialmente virtuose e a mettersi in rete tra loro.

La necessità di agire globalmente
Per una nuova economia è dunque necessario un framework istituzionale e normativo che remi nella stessa direzione. Già Caritas in veritate sottolineava la necessità di una riforma del sistema finanziario che rovesci i rapporti di forza tra finanza e economia reale, facendo tornare la prima a supportare la produzione (cfr. CV, 65). Non ci si può illudere che la politica nazionale sia capace di perseguire da sola soluzioni efficaci. In un mondo globalizzato in cui le economie nazionali sono legate tra loro, l’invito di papa Francesco al multilateralismo è quanto mai attuale soprattutto perché la ricerca di soluzioni unilaterali è foriera di conflitti e povera di soluzioni durature.
Un’economia sostenibile si pone l’obiettivo ambizioso di sradicare le cause strutturali della povertà, superando le risposte provvisorie di piani solo assistenziali. Per una reale «inclusione sociale dei poveri» è necessario realizzare una democrazia sostanziale in cui anche i più poveri siano messi nelle condizioni di partecipare alla vita politica e rinnovare radicalmente le strutture sociali e politiche per garantire un’uguaglianza sostanziale e redistribuire le opportunità a favore dei più svantaggiati.
La prossima iniziativa The economy of Francesco, che coinvolge giovani imprenditori, economisti e innovatori sociali, è un’occasione preziosa per noi giovani per diventare protagonisti positivi di un’economia più giusta, più sostenibile, più fraterna.