Kayfabe, ciarlatanerie e ipodemocrazie: le sfide occulte nella risoluzione dei conflitti

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Il kayfabe, finzione consensuale del wrestling americano, spiega perché molti conflitti non si risolvono: dietro le trattative si nascondono interessi economici che traggono profitto dalla guerra perpetua. Il complesso militare-industriale e le “ipodemocrazie” mantengono questo sistema. Solo riconoscendo questi meccanismi sarà possibile una vera pace globale.

«I t smells kayfabe, Sandro». «C’è puzza di kayfabe, Sandro». Fu questa la risposta sorprendente che mi diede un diplomatico statunitense alla mia domanda «Ma perché non si riesce a concludere un accordo, data l’evidenza del consenso sulla soluzione di un conflitto che dura da oltre 40 anni?». Era il 21 settembre del 2006. Eravamo usciti per dieci minuti di pausa da un’estenuante consultazione a porte chiuse al Congresso degli Stati Uniti a Washington D.C., sulle innovazioni necessarie nel conflitto in Colombia. Il conflitto tra governo colombiano e due gruppi di narco-terroristi pesantemente armati e feroci, come le FARC (Fuerzas Armadas Revulucionarias de Colombia) di estrema sinistra e le AUC (Autodefensas de Colombia) dei proprietari terrieri di estrema destra, era cominciato nel 1964; generava ogni anno decine di migliaia di vittime ed era la principale causa del fallimento di ogni politica di controllo e riduzione della produzione di cocaina e del narcotraffico globale. Dentro il conflitto si ingrassavano immensi interessi finanziari illeciti in Colombia, in Messico, negli Stati Uniti e in ogni altro paese dove si compravano le armi e si vendeva la cocaina. Per questo, oltre a me, allora rappresentante delle Nazioni Unite in Colombia1, all’audizione era rappresentata anche l’Unione Europea e la Banca Mondiale. Un accordo di pace fu poi raggiunto dieci anni dopo a Cuba.

Avevo già partecipato a decine di altre consultazioni ugualmente difficili, ma mai le parti erano arrivate così vicine a un accordo, senza riuscire a concluderlo. Non capivo cosa bloccasse l’ultimo piccolo passo che poteva metter fine al pluridecennale e sanguinosissimo contenzioso. La rivelazione del collega diplomatico era assolutamente criptica per me. Non avevo idea di cosa fosse il kayfabe. Era forse una parola in codice per addetti ai lavori? Quella sera in hotel chiesi ad altri colleghi di spiegarmi il mistero.

Kayfabe è una parola del wrestling professionistico americano che descrive un patto segreto di finzione. Tutti sanno che gli scontri sono inscenati, ma lottatori, promotori e pubblico fingono che siano reali. I “nemici mortali” devono mantenere i loro ruoli anche fuori dal ring – non possono mai essere visti insieme come amici – e il pubblico accetta volontariamente l’inganno per godersi lo spettacolo. È un accordo tacito basato su enormi interessi economici: rompere questa convenzione distruggerebbe l’intera industria. La parola è intraducibile perché racchiude insieme finzione consapevole, segretezza commerciale e complicità collettiva.

Dunque, il mio collega diplomatico con la sua affermazione «c’è puzza di kayfabe» voleva avvisarmi che probabilmente dietro all’interminabile trattativa di pace che non si concludeva mai – usando ripetuti stratagemmi e giri di parole – ci poteva essere un complotto per non cambiare lo status quo che conveniva a tutti mantenere.

Nella ricerca storico-politica del complesso militare-industriale moderno e dell’impatto delle istituzioni finanziarie sulle guerre e sui conflitti interni sono emerse ripetutamente indizi e prove di numerose contraddizioni tra la realtà dei fatti e la narrazione creata ad arte – a volte davvero sceneggiata – per far credere a una storia completamente differente. Tra gli esempi più famosi c’è Colin Powell che nel 2003 presentò prove false sull’armamento iracheno per giustificarne l’invasione, e Ngo Dinh Diem (primo ministro cattolico del Sud Vietnam) che, negli anni precedenti al suo assassinio nel 1963, inventò la minaccia di un genocidio cristiano per trascinare gli Stati Uniti in Vietnam. In ambedue i casi e in molti altri, dietro alla finzione scenica delle cause del conflitto ci sono stati anche forti previsioni dei profitti della guerra che si sarebbe potuta scatenare se l’opinione pubblica avesse accettato e quasi goduto del partecipare a quella farsa.

Diversi studi hanno documentato simili kayfabe tradotti in politica estera. I produttori di armi non possono farsi pubblicità come se promuovessero corsi universitari o giocattoli per bambini. Per questo i “mercanti di morte” fanno un marketing alternativo, inventando scenari che rendono necessarie le loro produzioni. Le loro sceneggiature sarebbero facilmente svelabili se politici e media facessero un controllo delle fonti e del conflitto di interessi. Invece, in questo modo, sono accolte con passione dai cittadini.

Se l’opinione pubblica non si associasse supinamente (magari godendo) al ciarlatanismo intellettuale dei promotori di guerra, aiutandoli così a mantenere i loro segreti disonesti, l’industria dei conflitti e l’economia delle macerie2 andrebbe in bancarotta.

Per oltre un secolo, la mano invisibile della guerra si è andata rafforzando sempre più, grazie al «complesso militare-industriale», una definizione coniata dal presidente statunitense Dwight D. Eisenhower nel suo discorso d’addio nel 19613. Eisenhower, ex generale a cinque stelle, protagonista delle Seconda guerra mondiale, mise in guardia dall’«influenza ingiustificata» di un’industria bellica permanente e dai suoi stretti legami con l’establishment militare. Un «triangolo di ferro», presente in molti paesi industrializzati, che sono anche medie e grandi potenze militari, è composto da industria della difesa, governo e forze armate; insieme creano una potente lobby che spinge a incrementare la spesa militare e a adottare una politica estera più interventista. Il rapporto investigativo del 2023 della senatrice Elizabeth Warren, intitolato «Pentagon Alchemy»4, ha rivelato quasi 700 casi di ex alti ufficiali militari e funzionari della difesa che hanno assunto posizioni di lobbisti, consulenti o dirigenti in aziende del settore. Ciò crea un chiaro conflitto di interessi, in cui individui che un tempo prendevano decisioni in materia di appalti e strategie militari sfruttano in seguito le proprie conoscenze a vantaggio dei propri datori di lavoro. Inoltre, l’industria della difesa spende ingenti somme per fare lobbying sui politici e finanziare le loro campagne elettorali. Questa leva finanziaria può influenzare la legislazione relativa ai bilanci della difesa, alle politiche di esportazione di armi e alle decisioni di entrare in guerra. Rapporti di organizzazioni come il Center for Responsive Politics indicano i principali appaltatori della difesa come i principali donatori alle campagne politiche negli Stati Uniti e in altri paesi, assicurandosi accesso e influenza nei corridoi del potere5.

Un’indagine del Middle East Research and Information Project (MERIP)6 ha dettagliato come i contractor della difesa forniscano finanziamenti significativi a influenti think tank. Queste organizzazioni producono ricerche e commenti in linea con una politica estera più aggressiva e interventista, creando un ambiente intellettuale e di pubbliche relazioni più ricettivo alle soluzioni militari.

Infine, l’analisi del mercato azionario mostra che i prezzi delle azioni dei principali appaltatori della difesa registrano rendimenti positivi significativi nel periodo precedente e durante i conflitti armati. Questo beneficio finanziario diretto, derivante dalla guerra, crea un forte incentivo per queste aziende a promuovere politiche che aumentano la probabilità di conflitti e l’interesse a non concludere i conflitti in atto. Gran parte dell’influenza viene esercitata a porte chiuse, attraverso reti informali e discussioni riservate, il che rende difficile documentarla e denunciarla pubblicamente.

A contrastare queste forze che minacciano la pace restano solo pochi attori, assolutamente necessari e da promuovere: il giornalismo investigativo, i whistleblowers, la ricerca accademica e il libero pensiero di leader e scrittori pacifisti. Questi attori seguono i flussi finanziari, smascherano i conflitti di interesse, rivelano le pressioni di interessi occulti e analizzano le correlazioni tra potere, profitti e conflitti, portando alla luce decisioni prese senza dibattito pubblico7.

L’economista francese Jacques Attali, nella sua Breve storia del futuro8, che lessi durante i negoziati in Colombia, previde la traiettoria dei conflitti di potere economico, politico e sociale del XXI secolo. Per quanto riguarda i primi vent’anni fino al 2025, è chiaro che la previsione di Attali risultava corretta. L’autore sostiene che la storia sia guidata dall’incessante espansione del capitalismo, definito «ordine di mercato». Ne traccia l’evoluzione attraverso una successione di centri dominanti – dalle città-stato europee alle metropoli americane – ognuno superato dal successivo in seguito alle innovazioni nell’ambito tecnologico e della finanza.

Secondo Attali, l’era del predominio americano sta finendo e, per la prima volta, nessun nucleo o nazione successore sarebbe pronto a prenderne il posto. Ciò porta a un nuovo panorama globale decentralizzato.

Nella sua riflessione, l’economista prevede tre grandi “ondate” future dopo il declino americano. Prima l’iperimpero: il trionfo definitivo dell’ordine di mercato che erode gli stati nazionali, dividendo la società tra élite mobili (ipernomadi) e masse precarie (infranomadi), con tecnologie di controllo sociale e privatizzazione dei servizi pubblici. Poi l’iperconflitto: l’immensa disuguaglianza porterà a un caos globale frammentato, non una guerra tradizionale ma una lotta planetaria tra stati, terroristi, criminali transnazionali ed eserciti mercenari privati, caratterizzata da pandemie, disastri climatici e violenza che minaccerà il collasso della civiltà.

Mi pare evidente che la previsione di Attali per i primi due decenni si sia ampiamente avverata, in particolare per quanto riguarda l’avvento di fenomeni politici inusitati che chiamerei “ipodemocrazie”, cioè democrazie divenute asfittiche. Nelle ipodemocrazie si continua a votare, ma sono permessi colossali finanziamenti alle campagne elettorali da parte di interessi privati dominanti, si creano premi di maggioranza per dare longevità ai governi, si ridefiniscono le mappe elettorali in modo del tutto discrezionale, si depotenziano le libertà civili, la scienza, la magistratura, il giornalismo, le organizzazioni e le corti internazionali e altre acrobazie per controllare l’espressione genuina dei popoli.

Questa disruption o trasformazione dirompente è stata possibile grazie al forte indebolimento del diritto internazionale, all’ignavia di diversi leader politici e dell’ideologia dei nuovi estremismi; sono stati minimizzati i check and balance, quei sistemi di monitoraggio, controllo e garanzia che erano scolpiti nelle costituzioni moderne dei paesi occidentali, mentre magistratura indipendente, giornalismo e società civili sono state ridipinte come seccature inutili o contrarie al progresso liberista.

Secondo Attali, il mondo riconoscerà le ragioni del caos che si è generato. Infatti, il libro ipotizza una terza ondata promettente, sebbene non garantita, che emergerà dalle ceneri dell’iperconflitto: una nuova iperdemocrazia. Per sopravvivere, l’umanità sarà costretta a creare una nuova forma di governo planetario. Questo nuovo ordine si fonderebbe sui principi di intelligenza collettiva: utilizzare la tecnologia per la cooperazione anziché per il controllo; economia sostenibile: spostare l’attenzione dal profitto individuale al bene comune e alla salvaguardia dell’ambiente; altruismo: riconoscere che i problemi globali richiedono soluzioni condivise ed empatia proattiva.

Come richiamato ripetutamente nelle recenti encicliche papali, una società globale più equa e cooperativa è possibile già oggi9, proprio a partire dal fare chiarezza sulle cause delle distopie sconvolgenti che viviamo. In questo modo esse diventano un’opportunità e non solo una minaccia. Riconoscere il kayfabe nei conflitti, scoprire la cialtroneria delle chiacchiere di chi è contro le responsabilità collettive per la pace e la giustizia globale e fermare la decadenza delle ipodemocrazie sono componenti ineludibili di una vera pacificazione mondiale dove nessuno verrà lasciato indietro.

Note

1 «Need for European Assistance to Colombia, For the fight against illicit drugs», Joint hearing before the Subcommittee on crime, terrorism, and homeland security of the Committee on the judiciary and the Subcommittee on the Western Hemisphere of the Committee on International Relations, Unites States House of Representatives, 109th Congress, 2nd session September 21, 2006, Serial no. 109-148, (Committee on the Judiciary), Serial no. 109-228 (Committee on International Relations), judiciary.house.gov.

2 Cfr. S. Calvani, Liberarsi dalla sfiduceria e dalla relittonomia, Dialoghi, 3(2024), pp. 9-14.

3 Cfr. Farewell address by President Dwight D. Eisenhower, January 17, 1961; Final TV Talk 1/17/61 (1), Box 38, Speech Series, Papers of Dwight D. Eisenhower as President, 1953-61, Eisenhower Library; National Archives and Records Administration.

4 E. Warren, Pentagon Alchemy: How Defense Officials Pass through the Revolving Door and Peddle Brass for Gold, U.S. Senate, 2023.

5 Cfr. Open Secrets, Defense Sector Summary, 2024, www.opensecrets.org/industries/indus?Ind=D.

6 Cfr. S. Marshall, The Defense Industry’s Role in Militarizing US Foreign Policy, 2020, merip.org/2020/06/the-defense-industrys-role-in-militarizing-us-foreign-policy/.

7 Per strumenti educativi su questi temi si veda: S. Calvani, Impegno politico e ricerca della pace: le sfide e le speranze, in «Lezioni di Laikos: Ordinare le cose del mondo secondo Dio, strade di santità laicale», 2011, share.google/52vz3TtMQ2CpQgx05.

8 Cfr. J. Attali, Breve storia del futuro, Fazi Editore, Roma 2016.

9 Per un approfondimento con strumenti grafici, si veda: S. Calvani, L’umanesimo cristiano e il diritto internazionale, in «I martedì alla Gregoriana», 2017, youtu.be/2l1N3KhLHOw?feature=shared.