Vittorio Bachelet e lo stile del dialogo

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Vittorio Bachelet è stato uomo dalla esemplare capacità di ascolto e di ricucitura.
A quarant’anni dal “martirio laico”, il ricordo degli anni al Csm, insieme alle parole da lui pronunciate al momento della elezione a vicepresidente dell’organo di autogoverno della magistratura. Il quadro di un’esperienza assai complessa, ma vissuta cercando sempre motivi di condivisione, di unità e di speranza.

A quarant’anni dal “martirio laico” di Vittorio Bachelet, docente universitario e vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura, ucciso dalle Brigate rosse sulle scale della facoltà di Scienze politiche al termine della lezione nell’aula «Aldo Moro», l’annuale convegno promosso dall’Istituto dell’Azione cattolica a lui dedicato si è incentrato il 7 e 8 febbraio scorso sul suo profilo di uomo della riconciliazione. Un tratto essenziale, questo, della figura di Bachelet, uomo del dialogo, con una esemplare capacità di ascolto e di ricucitura testimoniata negli anni non facili in cui ha avuto grandi responsabilità sia in ambito civile che ecclesiale, oltre che accademico, da ultimo tenendo le fila del Csm, dopo essere stato per molti anni al vertice dell’Azione cattolica italiana nella stagione postconciliare.
La sua straordinaria propensione – rivelata già dai suoi numerosissimi scritti giovanili – a cercare con pazienza e fiducia punti di incontro e di mediazione alta, in grado di tener conto e valorizzare gli apporti e le posizioni dei diversi interlocutori (il «metodo Bachelet», come ebbe a qua- Giovanni Conso, con lui componente del Csm), è il segno esemplare di uno stile di servizio mite e responsabile, ma non debole o remissivo, bensì finalizzato al bene comune possibile. Uno stile che va riproposto anche oggi, in un tempo in cui si manifestano pericolose fratture e divisioni nel paese, con evidenti problemi di relazioni culturali e politiche e rischi per la tenuta unitaria e la coesione sociale, limentati di frequente da linguaggi populistici e rancorosi e da contrapposizioni muscolari.
In tal senso si è sviluppata tutta la riflessione del convegno introdotto da Gian Candido De Martin, con apporti significativi di studiosi (Guido Formigoni, Michele Nicoletti, Marco Ivaldo, Ignazio Sanna) e di testimoni e protagonisti qualificati (Rosy Bindi, Luciana Lamorgese, Gianfranco Maggi e Luigi Scotti) e le conclusioni di Matteo Truffelli.
Di specifico rilievo è stato, tra l’altro, l’intervento di Luigi Scotti, già presidente del Tribunale di Roma, che ha ricostruito il suo rapporto con Bachelet al Csm, inizialmente venato da qualche diffidenza ma poi progressivamente trasformatosi in vera e propria ammirazione per lo stile di dialogo, la solidità del pensiero e le capacità di guida di Vittorio Bachelet. Riproponiamo qui le sue parole, insieme a quelle pronunciate da Bachelet al momento della sua elezione a vicepresidente dell’organo di autogoverno della magistratura, che danno il quadro di un’esperienza certo assai complessa, ma vissuta cercando sempre motivi di condivisione, di unità e di speranza.

Governare l’ordine giudiziario non è mai stato un compito facile per il Consiglio superiore della magistratura, e questo compito con le elezioni del 1976, svoltesi dopo riforme strutturali attese da tempo, apparve ancora più complesso; infatti, a differenza del precedente Consiglio ove la compagine togata risultava eletta con un rigido sistema maggioritario, l’ampliamento del numero complessivo dei componenti e il sistema proporzionale per la scelta dei togati avrebbero accentuato l’autonomia di indirizzo e maggiormente diversificato posizioni ideologiche e orientamenti propositivi, con ulteriori difficoltà di gestione. Nel contempo, all’esterno del Consiglio, ma con una innegabile influenza sulla sua attività, si andava addensando un clima di tensioni e di scontri politici che ci avrebbe determinato pesanti ricadute sull’amministrazione della giustizia ben presto costretta, e in una posizione di prima linea, al drammatico compito di reprimere il terrorismo.
Nel periodo anteriore all’insediamento del nuovo Consiglio – che avvenne dopo diversi mesi per le difficoltà di elezione della quota parlamentare – feci parte di un gruppo di colleghi che, d’intesa con membri laici di sinistra, ebbero numerosi scambi di idee sulle iniziative da prendere circa le modalità operative dell’attività del Consiglio, sulla organizzazione degli uffici e del servizio giudiziario, sulla tutela dell’indipendenza dei magistrati. Lo stesso gruppo aveva individuato nel professor Giovanni Conso la persona cui affidare la vice presidenza.
Il 18 dicembre, quando il plenum fu convocato per l’elezione del vicepresidente, seppi dal collega ed amico Piero Casadei Monti che nel gruppo c’era stato un ripensamento e che alcuni si erano orientati a votare il professor Vittorio Bachelet. Ne fui profondamente sorpreso. Avevo conosciuto Bachelet un mese prima, durante un convegno a Lecce, sapevo ch’era docente di Diritto amministrativo e che era stato presidente dell’Azione cattolica; mi sembrò una persona molto gentile e un po’ timida, non mi parve un protagonista né provai interesse a conoscerlo meglio. Dopo una breve ma accesa discussione con Casadei Monti, chiesi ufficialmente la parola per ottenere una sospensione della seduta, ma il presidente Leone chiarì che la seduta era in realtà un seggio elettorale e che non si poteva prendere la parola né rendere dichiarazioni.
Si votò. Votai per Conso. Fu eletto Bachelet. Applaudii anch’io ma con l’amaro in bocca.

Il «metodo Bachelet» e il governo del Csm
Il giorno dopo il vicepresidente Bachelet ci riunì nel suo studio, ci salutò con molta cordialità e subito dopo rese un quadro delle prospettive concernenti il suo compito: parlò delle modalità operativeper la gestione delle commissioni e del plenum, dei rapporti con il presidente della Repubblica, con il ministro, con il Parlamento per le proposte e i disegni ai quali era necessario il parere consiliare da rendere alle Camere; anticipò in qual modo e con quali cautele intendeva realizzare gli interventi sugli uffici e sottolineò l’esigenza di riforma dell’ordinamento giudiziario, ma anche del processo civile e di quello penale. Non mi sfuggì la serenità con cui disse queste cose, come se si trattasse di contenuti e metodi naturalmente pensati perché sarebbe stato strano non pensarli.
Concluse dichiarandosi sempre disponibile al confronto ed aggiunse che sarebbe stata opportuna l’indicazione, per ogni gruppo, di un rappresentante con cui tenere un rapporto costante. Casadei Monti, d’intesa con gli altri e forse per un criterio di compensazione – francamente lo pensai – indicò me come rappresentante del gruppo di Impegno Costituzionale. Da qui, e con una buona dose di iniziale incredulità, si avviò quel percorso di collaborazion con il vicepresidente Bachelet, via via di stima e poi di amicizia che andò avanti in parallelo con l’intensa e sempre autonoma mia attività nell’ambito della vita consiliare.
Fu una vita difficile per tutti noi del Consiglio. Con alle porte la stagione del terrorismo, in un paese incerto e tormentato, ben presto la sua funzione si rivelò stringente e impegnativa. Un po’ organo di amministrazione, un po’ entità rappresentativa dei giudici, un po’ organismo capace di spazio perché di rilevanza costituzionale, il Consiglio doveva gestire la magistratura utilizzando un tessuto normativo rimasto estraneo alla VII disposizione transitoria della Costituzione, e doveva governare un corpo giudiziario spesso chiamato ad una funzione di supplenza verso esigenze della società; un corpo giudiziario irrequieto perché non sempre dotato di efficienti supporti strumentali, ben presto coinvolto dall’esplosione di una violenza terroristica assolutamente fuori dagli schemi del “fare giustizia”. Tante difficoltà avrebbero potuto determinare striscianti fenomeni di disimpegno, relegando il Consiglio ad un organo di amministrazione corrente privo di spessore, o alimentare continue logoranti contrapposizioni senza prospettive strategiche. Invece Vittorio Bachelet, abituato come studioso del diritto amministrativo ad analizzare ogni aspetto dell’amministrazione pubblica e dotato di una profonda capacità di analisi politica, tenne duro nel suo compito perché sapeva sin dall’inizio quanto fosse importante in quel periodo governare il Consiglio e con esso la magistratura.

Stato di diritto, centralità della giustizia, difesa della democrazia
In realtà Bachelet aveva ben chiare tre esigenze assolutamente indiscutibili: la difesa dei principi dello Stato di diritto, la centralità della giustizia nell’assetto istituzionale e nella difesa della democrazia, l’indipendenza della magistratura. Perciò fu una guida sicura in occasione del parere sulle misure antiterrorismo, cioè quando il Consiglio espresse rilievi fortemente critici sulle misure contenute nella legge di conversione del decreto legge. Le osservazioni furono accolte dal Parlamento quasi come una indebita interferenza, nonostante l’obbligo del parere e la richiesta del guardasigilli al riguardo; ebbene il professor Bachelet, nel corso di una successiva intervista, si richiamò a quel parere e disse con chiarezza che non riteneva necessarie leggi eccezionali per combattere il terrorismo, perché neppure nella drammatica situazione successiva all’uccisione di Aldo Moro potevano accettarsi violazioni dei principi dello Stato di diritto, principi dei quali aveva una concezione non formalistica bensì profondamente legata allo sviluppo della democrazia. Quanto al ruolo della giustizia, in varie occasioni Bachelet confermò l’importanza della sua centralità anche a difesa della democrazia: lo confermò nelle numerose esortazioni al governo e al guardasigilli affinché un costante ricorso all’art. 110 della Costituzione offrisse alla magistratura la possibilità di difendere appieno lo Stato e i cittadini dal terrorismo e dalla criminalità; lo sostenne nei ripetuti interventi presso gli uffici giudiziari a sostegno dell’azione dei magistrati; persino le disposizioni per riorganizzare le cerimonie inaugurali dell’anno giudiziario prospettarono la centralità della magistratura nel pubblico dibattito sul servizio di giustizia.
Quanto al profilo dell’indipendenza, il Consiglio di Bachelet avviò quella procedura di formazione delle tabelle degli uffici in modo da garantire una più rigorosa tutela dei principi di naturalità e indipendenza del giudice; Bachelet vi aggiunse di volta in volta il richiamo ai dirigenti circa il rispetto dell’autonomia come metodo di lavoro. Nella stessa prospettiva si collocano sia la difesa dell’ordine giudiziario da attacchi esterni, persino se derivanti da organismi o strutture istituzionali, sia le sollecitazioni rivolte al potere legislativo di adeguare l’ordinamento giudiziario ai principi della Costituzione e le cautele introdotte in tema di trasferimenti – anche quelli di ufficio per incompatibilità – tanto in sede amministrativa quanto in sede disciplinare.
A proposito della materia disciplinare va sottolineato che per circa tre anni Bachelet assunse anche la presidenza della relativa sezione. Una volta, facendovi anche io parte, affettuosamente gli ricordai ch’era un compito troppo gravoso per i tanti che già gli gravavano come vicepresidente; mi disse che riteneva la funzione disciplinare il contrappeso della indipendenza del magistrato e che perciò valutare l’equilibrio fra questi due valori non poteva non rientrare nei compiti del vicepresidente.

L’infaticabile «costruttore di unità»
Ogni giorno Bachelet riversava nel Consiglio pazienza, dialogo, capacità d’incontro e di ascolto. Diceva spesso ai rappresentanti dei gruppi consiliari: «Siamo tutti persone di buona volontà, e guai se le persone di buona volontà si mettono a litigare fra loro. Più le contraddizioni sono numerose, acute e scompaginanti, più esigua è la difesa della convivenza umana. Il terrorismo punta proprio alle contraddizioni all’interno delle strutture istituzionali». La ricerca di aggregazione dei consensi, tipica dell’intera gestione Bachelet, talvolta esasperata ma sempre leale e coraggiosa, contribuì in modo decisivo a tener compatta la magistratura, pur senza recidere dialettiche e fermenti. Ricordo le corse insieme a Torino, a Milano, in altre città dopo l’uccisione di un magistrato, di un avvocato, di un rappresentante delle istituzioni, e ricordo come la fermezza da lui espressa a rimanere saldi ed uniti nel lavoro e nella risposta riuscisse a superare sbandamenti, esitazioni, incertezze. «Bachelet è un costruttore di unità» scrisse, dopo averlo accompagnato in uno di questi viaggi, Vincenzo Summa, membro laico designato dal Partito comunista.
Insomma Vittorio Bachelet recava con le sue parole umana fiducia nella democrazia, cioè una democrazia fatta per gli uomini che naturalmente si parlano e discutono e insieme ricercano la verità e le prospettive di azione. Bachelet nel Consiglio stava a rappresentare la società civile più che uno schieramento politico o un settore culturale, e da questo traeva la sua capacità di dialogo. Ricordo che qualche volta, dopo stressanti riunioni, lo invitavamo ad essere più deciso a fermare logoranti dibattiti. Ci rispondeva, sorridente e sereno come sempre, che ogni intervento contiene sempre un pezzetto di verità. Bachelet non era un mediatore, nel senso che non si limitava ad accostare gli uni agli altri i punti vista per ridurre le divergenze; era un infaticabile partecipe e dava generosamente la sua parte. Non andava alla ricerca di unanimismi, ma sintetizzava la dialettica del Consiglio, rappresentandolo per intero e così rappresentando, verso gli altri poteri e le forze politiche, l’intera magistratura. Forse lo uccisero anche per questo, per la sua fiducia di trovarsi insieme.
Amico Bachelet, caro Vittorio, grazie per quanto hai dato al paese, alla magistratura e a tutti quelli che del tuo Consiglio fecero parte. Grazie per la speranza che mi hai lasciato dentro.

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Antologia

Concordi per servire la giustizia
Signor Presidente, illustri colleghi,
desidero prima di tutto ringraziare per l’auspicio del Presidente e per la fiducia che mi è stata dimostrata e che, anche se si è realizzata su una scelta, credo che possa contare sullo spirito di quel largo incontro che tutte le persone qui presenti hanno dichiarato di voler realizzare nella conduzione del comune impegno nel Consiglio Superiore della Magistratura. E vorrei dire che questa sintonia è sottolineata dal fatto che i voti non venuti a me sono andati al prof. Conso a cui sono legato da comunanza di ideali e da tale antica amicizia, da potersi quasi assumere a emblematico significato del desiderio di incontro dell’intero Consiglio Superiore della Magistratura. Io desidero raccogliere, penso anche a nome vostro, l’invito del Presidente. Il Vice Presidente del Consiglio infatti si trova nella delicata posizione di essere collaboratore deferente del Presidente, suo vicario e insieme espressione elettiva del Consiglio Superiore della Magistratura: e cercherò di svolgere queste funzioni come meglio saprò, con tutto il mio impegno e con piena lealtà. Dicevo che dobbiamo raccogliere l’invito del Presidente a considerare il momento drammatico della vita della giustizia nel nostro Paese per affrontare il quale noi dobbiamo dare tutto il nostro contributo. Sappiamo che le cause di questo momento drammatico, le cause del malessere, delle disfunzioni della giustizia non sono solo le cause relative a procedure o a carenze di strutture giudiziarie ma sono cause anche assai più generali, delle quali ciascuno di noi non può non tener conto; ma sappiamo anche che il nostro compito principale in questa sede è di venire incontro per la nostra parte a questa situazione: garantendo l’autonomia e l’indipendenza della magistratura e dei singoli giudici in un momento in cui l’amministrazione della giustizia è diventato un compito di prima linea, e creando, nonostante tutto, in questa situazione, le condizioni per un buon andamento della Giustizia. Mi pare che questo ci richieda di pensare a rimedi assai concreti con i quali le disfunzioni esistenti possono essere sanate, ma ci richieda anche di essere capaci di dare il doveroso impulso a quell’«adeguamento dell’ordinamento giudiziario, ai principi costituzionali e alle esigenze della società» che è il titolo programmatico della relazione del precedente Consiglio, che ci viene consegnato come testimonianza da portare avanti perché quell’obiettivo sia attuato in concreto nella realtà. E a questo punto, se il Presidente consente, vorrei dare un saluto cordiale ai embri del Consiglio uscenti, che hanno salutato ufficialmente la scorsa volta, ma cui non abbiamo in quell’occasione potuto rispondere.
Vorrei sottolineare che questo Consiglio, Signor Presidente, inizia una vita nuova non solo per il fatto che esso è rinnovato per essersi tenute nuove elezioni; ma anche perché si tratta di un Consiglio, che è stato eletto in base ad una nuova legge elettorale, che ha favorito una presenza più variata di posizioni e di intenti per garantire in esso una larga rappresentanza di tutti gli orientamenti, le forze, i contributi presenti nella Magistratura. Da questo punto di vista ritengo che questo Consiglio – proprio nello spirito della nuova legge – richiederà anche una larga partecipazione di tutti alla gestione del Consiglio. Questa realtà composita, oltre che l’aumento del numero dei consiglieri, sembra richiedere anche al Comitato di Presidenza di sperimentare quelle forme organiche di consultazione – attraverso formule che sono state in variomodo ipotizzate e che andranno vagliate – per poter portare avanti con speditezza i lavori del Consiglio e insieme per ottenere la corresponsabilità di tutti.
Io so, Signor Presidente, che tutti i colleghi sono ansiosi di dare questo contributo al comune lavoro. Forse anche l’attesa che abbiamo avuto in questo periodo, in cui si è completato il collegio per giungere alla costituzione definitiva, ha aumentato la volontà di lavorare, la volontà di essere presenti, la volontà di collaborare. Quindi io credo davvero che Ella troverà nei consiglieri che stanno iniziando il loro mandato degli operatori estremamente attenti he si sforzeranno di dare tutto il loro apporto e – io spero – di trovare le più larghe convergenze; su di essi, Signor Presidente, potrà contare la Magistratura italiana in questo momento drammatico.

(Discorso letto in occasione del suo insediamento quale vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura, 21 dicembre 1976. Da Il Consiglio Superiore di Vittorio Bachelet, a cura di G. Conso, Consiglio Superiore della Magistratura, Roma 2000, pp. 19-20 (ora anche in V. Bachelet, Scritti civili, a cura di M. Truffelli, Ave, Roma 2005, pp. 995-997).