La libertà della Chiesa nella società democratica

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Nelle moderne democrazie la libertà di magistero è il punto di frizione nei rapporti tra Chiesa e Stato, ma la Chiesa non può rinunciare a dare il suo giudizio morale su questioni di carattere politico; d’altra parte i fedeli, singoli o associati, hanno il diritto di proporre programmi cristianamente ispirati, su cui aggregare consensi. Ma c’è sempre uno stile evangelico da osservare.

All’indomani della pubblicazione, nel 1995, dell’enciclica di Giovanni Paolo II sul valore e l’inviolabilità della vita umana Evangelium vitae, in un editoriale pubblicato su un autorevole e tra i più diffusi quotidiani italiani, un noto opinionista invitava con molta forza il Governo a denunciare il Concordato.

L’articolo partiva da un dato: nel documento pontificio era detto senza mezzi termini che leggi come quelle sull’aborto e l’eutanasia sono «crimini che nessuna legge umana può pretendere di legittimare», sicché «leggi di questo tipo non solo non creano nessun obbligo per la coscienza, ma sollevano piuttosto un grave e preciso obbligo di opporsi ad esse mediante obiezione di coscienza» (n. 73, il corsivo è nel testo ufficiale). In sostanza la richiesta di denuncia dell’accordo internazionale che regola la condizione giuridica della Chiesa in Italia avrebbe costituito, secondo il pensiero dello scrivente, una giusta e doverosa reazione nei confronti di un illecito dalle molte facce: l’invito alla disobbedienza civile dinnanzi a leggi – nel caso italiano quella sull’aborto – legittimamente poste in un sistema democratico; la violazione del principio costituzionale, richiamato dal Concordato, secondo cui lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani (art. 7, primo comma, Costituzione); in sostanza l’indebita intromissione della Chiesa nel campo della politica, in violazione di quel principio di laicità che pochi anni prima, nella sentenza n. 203 del 1989, la Corte costituzionale aveva dichiarato tra i princìpi supremi dell’ordinamento costituzionale italiano.

Nuove frontiere

Non interessa in questa sede entrare nel merito della fondatezza giuridica delle tesi dell’articolista, sviluppate con uno spirito ed un linguaggio nettamente laicisti. Qui interessa, invece, richiamare l’attenzione sul fatto che la vicenda metteva in evidenza il punto di crisi che si pone oggi, nelle moderne democrazie, nei rapporti tra Stato e Chiesa.

In passato molteplici sono stati i punti di crisi, ma diversi ed altri: la nomina dei titolari degli uffici ecclesiastici, il matrimonio religioso, i beni della Chiesa, più in generale la libertà religiosa individuale e collettiva, la stessa libertas Ecclesiae. Nelle odierne democrazie queste materie non sono più, in genere, occasione di contrasto e di conflitto. I princìpi di libertà e le garanzie dirette ad evitare ogni forma di discriminazione, unitamente alla fine di pretese giurisdizionalistiche che segue l’affermarsi dell’idea di laicità, fanno sì che molte delle antiche querelle siano divenute solo una memoria storica. Lo riconosce esplicitamente la Chiesa del Vaticano II, quando afferma che «se vige la libertà religiosa non solo proclamata a parole né solo sancita nelle leggi, ma con sincerità tradotta realmente nella vita, in tal caso la Chiesa, di diritto e di fatto, usufruisce di una condizione stabile per l’indipendenza necessaria all’adempimento della sua divina missione» (Dich. Dignitatis humanae, n. 13).

Oggi, in una società democratica, il contrasto possibile si è trasferito altrove, si direbbe su un piano superiore, che tocca direttamente il cuore di quella missione: il magistero.

È di comune osservazione come sempre più frequentemente, in una società caratterizzata da una pluralità di valori morali e da un orientamento relativistico, interventi pontifici e dell’episcopato riguardanti provvedimenti legislativi, atti amministrativi o pronunciamenti giurisdizionali, divengano occasione di contrapposizione e di scontro. Sempre più spesso sembra di sentir riecheggiare l’antica apostrofe di Alberico Gentili (1552-1608): «Silete theologi in munere alieno».

Frontiere calde e difficili equilibri

Canonisticamente parlando, dunque, il punto delicato nei rapporti fra Chiesa e Stato non tocca più il munus regendi, cioè il governo della società ecclesiastica nelle sue diverse esplicitazioni, né tantomeno il munus sanctificandi, vale a dire l’esercizio della funzione di santificare, in particolare attraverso l’amministrazione dei sacramenti. Nelle democrazie il possibile conflitto si è ridotto ed è arretrato ad un punto più intimo, se si vuole, ma del tutto fondamentale: il munus docendi, la funzione di insegnare. Al riguardo due cose sono da notare.

Innanzitutto che il fenomeno non tocca l’intero ventaglio di questa funzione ecclesiastica, che spazia dall’annuncio della parola di Dio all’istruzione catechistica, dall’azione missionaria all’educazione cristiana, dalle scuole cattoliche alle Università e Facoltà ecclesiastiche. In secondo luogo, che il problema non sorge, almeno ordinariamente, in rapporto alle attività magisteriali e di insegnamento che si svolgono all’interno della comunità ecclesiale, ma in riferimento a quelle che sono dirette all’esterno di questa.

In sostanza la “frontiera calda” dei rapporti fra la istituzione ecclesiastica e le moderne democrazie tocca la questione, divenuta punto rovente del dibattito negli ultimi tempi sia in Europa che nelle Americhe, della pretesa del cristianesimo di avere spazio e rilevanza pubblica, di contro alla tendenza secolaristica nel riconoscergli sì la più ampia libertà, ma nel mero privato (e, naturalmente, fintanto che diritti e libertà fondamentali dell’uomo non vengano lesi o compromessi in seno alla società ecclesiastica). Più precisamente in contestazione è la pretesa della Chiesa che il Vaticano II, nella costituzione pastorale Gaudium et spes, ha precisato affermando che sempre e dovunque, essa ha il diritto di «dare il suo giudizio morale, anche su cose che riguardano l’ordine politico, quando ciò sia richiesto dai diritti fondamentali della persona o dalla salvezza delle anime» (§ 76).

È facile intuire come si tratti di pretesa destinata inesorabilmente a scontrarsi là dove la vita di una comunità politica venga attraversata da un forte ideologismo di stampo laicista, posto che il laicismo – a differenza della laicità – si connota per l’avversità al fatto religioso e per l’impegno alla sua scomparsa dalla scena pubblica, quando non addirittura per la lotta all’emancipazione delle coscienze dalla pretesa superstizione religiosa. Così pure è facile intuire come, viceversa, tale rivendicazione possa suscitare le comprensibili e legittime reazioni da parte politica, quando diventi espressione di una concezione integralistica che, dimentica del vero insegnamento cristiano sull’autonomia delle realtà terrene, pretenda una immediata e compiuta traduzione dei princìpi cristiani nella vita politica, economica e sociale.

Non è il caso di addentrarsi nell’esame delle due diverse opposte posizioni, ognuna delle quali è passibile di critica. Qui è piuttosto da osservare che la questione della libertà del magistero ecclesiastico, con riferimento anche all’ordine politico, oggettivamente si pone su di un crinale delicato e dai difficili equilibri, qual è quello della summa divisio che il cristianesimo ha introdotto nella storia umana, distinguendo ciò che è di Cesare da ciò che è di Dio.

Libertà del magistero, libertà dei fedeli

La Chiesa non può rinunciare a pronunciarsi su questioni di carattere politico, quando queste abbiano una rilevanza etica e sollevino problemi morali.

Come ebbe ad affermare nel 2006 Benedetto XVI, parlando ai giuristi cattolici, «non è segno di sana laicità il rifiuto alla comunità cristiana, e a coloro che legittimamente la rappresentano, del diritto di pronunziarsi sui problemi morali che oggi interpellano la coscienza di tutti gli esseri umani, in particolare dei legislatori e dei giuristi», aggiungendo che «non si tratta, infatti, di indebita ingerenza della Chiesa nell’attività legislativa, propria ed esclusiva dello Stato, ma dell’affermazione e della difesa dei grandi valori che danno senso alla vita della persona e ne salvaguardano la dignità. Questi valori, prima di essere cristiani, sono umani, tali perciò da non lasciare indifferente e silenziosa la Chiesa, la quale ha il suo dovere di proclamare con fermezza la verità sull’uomo e sul suo destino».

Da queste parole si desumono due diversi aspetti. Uno riguarda la necessaria distinzione da fare tra l’intervento in materia politica della gerarchia ecclesiastica e l’intervento, sempre in materia politica, dei fedeli cattolici.

Il primo, che esprime il magistero ecclesiastico, è un dovere-diritto della Chiesa, da collegare non ad una funzione politica, che non le appartiene, ma – per usare le bellissime espressioni di Giovanni XXIII – in quanto «madre e maestra» che annuncia, insegna, richiama. Si tratta, come bene dice il Vaticano II, di un «giudizio morale» su questioni che riguardano l’ordine temporale, quindi di una valutazione alla luce della legge morale, che cioè interpella le coscienze ma non è giuridicamente vincolante. Il secondo concerne l’agire dei fedeli, singoli o associati, nella sfera pubblica e politica, chiamati all’animazione cristiana dell’ordine temporale. Il che si traduce nella proposizione di riforme e programmi cristianamente ispirati, che vengono proposti alla generalità con il fine di aggregare consensi e quindi, secondo le regole democratiche, potersi eventualmente tradurre concretamente. Dunque la Chiesa-istituzione interviene per il mandato ricevuto dal Fondatore (libertas Ecclesiae); il popolo di Dio interviene esercitando quei diritti di libertà che debbono essere riconosciuti a tutti e che, nelle società democratiche, sono comunemente riconosciuti a tutti (libertà di manifestazione del pensiero; libertà religiosa).

Altro aspetto implicato dalle parole di papa Ratzinger attiene ai contenuti dell’intervento magisteriale, quando tocchi l’ordine politico. Perché in questo caso, in una società pluralista, il paradigma di riferimento del giudizio non è la morale cristiana, ma la morale naturale. Rivolgendosi a tutti, e non solo ai propri fedeli, la Chiesa richiama i valori morali che sono ontologicamente legati alla persona umana e, quindi, che sono universali: validi sempre, per tutti, dappertutto.

È interessante notare che in questa prospettiva l’intervento magisteriale non diviene una sorta di “sconfinamento” nell’ambito di ciò che è proprio di Cesare e ad esso riservato, e quindi non configura una violazione del precetto evangelico; esso si configura piuttosto come il contributo che la Chiesa, rimanendo nell’ambito di ciò “che è di Dio”, può offrire a Cesare, perché le scelte che solo a lui competono siano il più nettamente libere da condizionamenti di vario genere e rispondenti al meglio a quanto è conforme alla natura dell’uomo ed alla sua inalienabile dignità. In questa prospettiva si coglie tutto il senso dell’espressione con la quale, nel famoso discorso del 1965, Paolo VI giustificava il primo intervento di un papa all’Assemblea delle Nazioni Unite. Il Romano Pontefice, precisava in premessa al suo intervento, «non ha alcuna potenza temporale, né alcuna ambizione di competere con voi; non abbiamo infatti alcuna cosa da chiedere, nessuna questione da sollevare; se mai un desiderio da esprimere e un permesso da chiedere, quello di potervi servire in ciò che a Noi è dato di fare, con interesse, con umiltà e amore», in quanto – aggiungeva – «esperti in umanità».

Stili di comunicazione

Problema diverso, ma connesso, è quello degli stili di comunicazione. Si tratta di una questione dalla doppia faccia, che tocca l’una e l’altra parte.

All’inizio dell’anno passato i tragici fatti che hanno colpito la redazione del periodico francese «Charlie Hebdo» hanno fatto scorrere fiumi di inchiostro – e giustamente – a proposito della libertà di manifestazione del pensiero; di un pensiero anche critico, duro, aggressivo, che si serve come mezzo della satira. Meno inchiostro è stato speso per lumeggiare l’altro aspetto della vicenda: se cioè sia possibile usare l’arma del vilipendio, sia pure foderata dalla satira, per colpire il sentire religioso. Ciò tocca la libertà religiosa, ma tocca anche la libertà di manifestazione del pensiero. Ed al riguardo si deve dire che l’antico e nobile genere della satira non può essere utilizzato come strumento di offesa e di emarginazione; non può, da mezzo di critica agli abusi dei potenti, ai vizi individuali, a fatti specifici, a individui o gruppi determinati, degenerare a strumento per colpire in forma caricaturale intere categorie di persone per il mero fatto della loro appartenenza, religiosa o etnica. Si tratta di un fenomeno che porta a tradire il ruolo critico, quindi positivo, della satira, anche rispetto a ritornanti forme di fondamentalismo religioso, facendo pericolosamente pendere questa verso forme di provocazione gratuite, senza finalità costruttive.

Fuori dell’esempio, si vuol dire che la Chiesa – come istituzione e come popolo di Dio – rivendica il diritto di non essere discriminata; ha la legittima pretesa al rispetto da parte degli altri, anche di coloro che non ne condividono il messaggio.

Ma la questione investe, specularmente, anche la Chiesa nella sua duplice dimensione, istituzionale e di popolo. È necessario uno stile di comunicazione, uno stile di proposizione all’esterno del proprio giudizio e delle proprie proposte.

Nel contesto attuale, di una società pluralista e secolarizzata, non sarebbero più ammissibili espressioni pur consuete nel passato. Si pensi all’appellativo di «concubini» dato ai battezzati uniti solo in matrimonio civile; alla qualificazione dei non battezzati come «infedeli»; alla sanzione canonica della «infamia»; fino alla famosa, equivoca e quindi in definitiva infelice locuzione latina della preghiera – nella liturgia del Venerdì santo – «pro perfidis Judaeis», soppressa da Giovanni XXIII nel 1959. Sono solo esempi, ma non è un caso che si tratti di un lessico ormai riposto negli archivi della storia.

Si impongono modalità di manifestazione del pensiero che siano rispettose; che distinguano sempre le idee altrui dalle persone che le professano; che siano propositive piuttosto che soltanto critiche; che siano animate innanzitutto dalla volontà di comprendere appieno le ragioni degli altri, le scaturigini profonde di certe affermazioni, le cause generatrici di determinate rivendicazioni. Il canone della misericordia, così caro a papa Francesco, deve essere la regola che la Chiesa segue nel parlare al mondo.

Per quanto riguarda in particolare il magistero, occorre richiamare ancora quel § 76 della cost. Gaudium et spes perché, dopo l’affermazione del diritto della Chiesa a dare il proprio giudizio morale anche su questioni che attengono all’ordine politico, precisa che «questo farà, utilizzando tutti e soli quei mezzi che sono conformi al Vangelo e al bene di tutti, secondo la diversità dei tempi e delle situazioni». C’è dunque la doverosità di un annuncio, unita ad una certa discrezionalità che richiede discernimento, ma fermo il vincolo dello stile evangelico di intervento, da osservarsi sempre e dovunque.

Al di là della forma, rimane poi il problema delle modalità.
In una società pluralistica, secolarizzata, scettica, disincantata, non sarà conveniente, né tantomeno utile, un parlare al mondo sulle questioni mondane con argomenti religiosi e dogmatici. Occorre piuttosto impegnarsi per proporre la visione cristiana dell’uomo e del mondo in termini di ragione, cosa che davvero può comportare un enorme sforzo intellettuale e grande abilità comunicativa. Ma, come ebbe ad osservare Benedetto XVI nel discorso al Reichstag di Berlino il 22 settembre 2011, «contrariamente ad altre grandi religioni, il cristianesimo non ha mai imposto allo Stato ed alla società un diritto rivelato, mai un ordinamento giuridico derivante da una rivelazione. Ha invece rimandato alla natura e alla ragione quali vere fonti del diritto – ha rimandato all’armonia tra ragione oggettiva e ragione soggettiva».

Resta, naturalmente, che altro è il puro annuncio evangelico, la proposizione fedele e netta della Buona Novella, la trasmissione della fede su un Dio incarnato, crocifisso, morto e risorto. Col rischio, che storicamente è certezza, di sentirsi ripetere con Paolo: «Ti sentiremo un’altra volta su questo argomento» (Atti 17, 32).