La cura della vita democratica e la partecipazione

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La dimensione democratica è una qualità intrinseca della esperienza che l’Azione cattolica intende realizzare. Oggi però la situazione di “crisi” della democrazia interpella fortemente l’associazione e per continuare a prendersi cura della democrazia si possono rileggere i “quattro principi della convivenza sociale” che l’esortazione Evangelii gaudium enuclea: il tempo è superiore allo spazio, l’unità prevale sul conflitto, la realtà è più importante dell’idea, il tutto è superiore alla parte.

L’Azione cattolica italiana ha un interesse strutturale a promuovere la «cura della vita democratica e la partecipazione». Ciò nasce dalla sua stessa missione. Nell’art. 11 dello Statuto leggiamo a questo proposito che l’Azione cattolica italiana «intende realizzare, nella comunità cristiana e nella società civile, una specifica esperienza, ecclesiale e laicale, comunitaria e organica, popolare e democratica». La dimensione democratica viene qui determinata come una qualità intrinseca della esperienza che l’Azione cattolica intende realizzare sia nella comunità cristiana che nella società civile. Si può sostenere che l’interesse alla democrazia come forma della vita politica, in particolare l’interesse a una democrazia che sottolinei e valorizzi il momento e il movimento del “prendere parte” dei cittadini alla “cosa comune” (alla res publica) – cioè che enfatizzi la partecipazione – rappresenta un carattere fondante della pratica educativa che l’Azione cattolica mette in opera. In corrispondenza con questo punto di vista proverò nel seguito a illustrare alcuni aspetti o problemi della democrazia oggi che mi sembrano interpellare l’Azione cattolica come “agenzia educativa” per la cura della vita democratica e della partecipazione. Non posso assolutamente fornire un quadro esaustivo, e potrò solo richiamare, dopo il momento descrittivo e interpretativo, alcune prospettive di impegno.

Le (nuove) sfide alla democrazia

È diffusa la coscienza che la democrazia si trova oggi di fronte a sfide nuove, rispetto alle quali fatica a trovare non soltanto risposte, ma già anche approcci adeguati. Si parla di “disagio”, o di “crisi”, o di “fragilità” della democrazia. L’idea che la democrazia, unita al libero mercato, si sarebbe necessariamente affermata come forma globale della vita politica dopo la auto-dissoluzione dei regimi del cosiddetto socialismo reale è stata contraddetta dai fatti. Non esiste un determinismo storico che garantisca un esito luminoso della storia universale. Disastrosa si è poi rivelata l’idea che la democrazia sia quello che Hegel chiamerebbe un (mero) prodotto dell’intelletto, precisamente che essa rappresenti un modello di società esportabile, che possa venire applicato senza mediazioni su regimi autoritari o totalitari, magari facendo precedere o accompagnando la sua realizzazione dall’impiego della forza militare. La democrazia suppone e richiede certamente alcuni principi, come richiamerò anche nel seguito, ma questi principi non danno vita a un modello astratto di convivenza, bensì devono venire ritrovati e realizzati a partire dalla concreta e plurale esperienza storica. La vita democratica è in realtà una complessa formazione storica, che può dispiegarsi solo nascendo dall’esperienza e grazie alla autodeterminazione del popolo interessato; essa postula inoltre un certo dinamismo a livello economico e sociale. Come aveva già intuito Kant, una costituzione repubblicana può diffondersi da uno Stato ad altri Stati solo in grazia dell’attrazione che essa riesce a esercitare sui cittadini di questi ultimi; ciò richiede pratiche inclusive, che si avvalgano di scambi e comunicazioni, più che di esclusioni, chiusure e aggressività.

Aspetti di difficoltà, anzi di sofferenza della democrazia si palesano anche nelle aree di più solida tradizione democratica quale è, o dovrebbe essere, l’Unione europea, quell’Unione che – vorrei affermarlo subito – rappresenta l’orizzonte entro il quale soltanto può venire sensatamente ri-pensata e ri-formulata la nozione politicamente essenziale della sovranità del popolo. In settori della pubblica opinione e delle élites si affaccia ambiguamente l’idea che la democrazia – per fronteggiare fenomeni complessi come le migrazioni e le ripercussioni che queste avrebbero sulla sicurezza e il tenore di vita dei cittadini di uno Stato – dovrebbe ricevere iniezioni di autoritarismo e addirittura ammettere restrizioni dello stato di diritto. Regimi autoritari e nazionalisti si rivelerebbero più efficaci dei regimi democratici-liberali per rispondere in maniera efficiente alle sfide della globalizzazione. La democrazia si trova qui messa in questione per la sua efficacia a proteggere i contraenti del patto sociale di fronte a fenomeni causati dalle dinamiche globali, e rispetto ai quali una chiusura sembra ad alcuni più vantaggiosa di una apertura, che si coniughi con la complessa ricerca di modi per governare tali fenomeni stessi. In verità la democrazia, il governo del démos – come è suggerito per via contraria anche dall’esperienza delle cosiddette democrazie popolari – non è separabile dalla esistenza e dalla custodia dello stato di diritto e della costituzione repubblicana. Di una educazione alla democrazia fa perciò parte essenziale – con buona pace delle tendenze neoautoritarie – l’idea che la vita della democrazia in senso moderno è strettamente legata alla difesa dello Stato di diritto e della Costituzione repubblicana.

La sfiducia dei cittadini

Il disagio della democrazia si palesa anche per un’altra circostanza: la fiducia che i cittadini nutrono verso la democrazia rappresentativa e le sue istituzioni è – come sappiamo – sempre più bassa. Orbene, questa crisi di fiducia è espressione di un’effettiva situazione critica della democrazia contemporanea rappresentativa. Alcuni studiosi mettono in luce che la sfiducia dei cittadini è conseguenza, e sintomo insieme, di un processo di «regressione oligarchica della democrazia», ovvero di un processo di «de-democratizzazione», innestato dallo spostamento verso l’alto dei centri direzionali rilevanti, per cui le decisioni politiche emigrano dalle sedi più ampie e partecipate e si ritirano in luoghi meno accessibili, per lo più riservati a ristretti gruppi oligarchici1 . Sono tendenze che sembrano andare in questa direzione lo svuotamento – o comunque la restrizione – della competenza e del ruolo dei parlamenti a favore degli esecutivi, e l’imporsi di una versione leaderistica e personalistica dei poteri di governo; lo sganciamento degli eletti dagli elettori, con la conseguente formazione di una “casta” politica separata; lo svuotamento del dibattito interno dei partiti, che da luoghi di analisi collettiva della realtà e di formazione dell’opinione politica relativa alla “cosa comune”, cioè alla res publica, divengono (quando ancora esistono) comitati elettorali a servizio del gruppo dirigente e del leader.

Naturalmente in questa enfatizzazione del ruolo dell’esecutivo esiste una verità interna che va custodita, richiama cioè la necessità che la democrazia si realizzi come “democrazia governante”, capace di assumere decisioni effettive e di porle in pratica – cosa che è condizione indispensabile per fronteggiare le sfide globali prima richiamate, e per scongiurare che cresca nella pubblica opinione il credito accordato a soluzioni autoritarie e populiste delle crisi in atto. Si tratta in realtà di separare democrazia e oligarchia, ovvero di democratizzare il potere (che è il modo più idoneo per rafforzarlo, come ha colto Hannah Arendt) favorendo le modalità di partecipazione orizzontale dei cittadini alla discussione delle questioni comuni, ma allo stesso tempo dotando i parlamenti e i governi degli strumenti per dibattere e assumere decisioni in tempi ragionevoli e in modi efficaci. È interesse essenziale della democrazia l’esistenza di un governo ragionevole e ponderato di fenomeni complessi come l’accoglienza dei diversi, l’inclusione dell’altro, la realizzazione della convivenza solidale fra culture e religioni diverse in uno stesso spazio territoriale e politico. Per questo è necessario realizzare “buone mescolanze” tra il momento orizzontale della partecipazione e quello verticale del governo e delle istituzioni della rappresentanza, “mescolanze” che naturalmente non sono affatto bell’e pronte, ma sono ardue da inventare e che richiederebbero una cultura politica forte, non appiattita sul “fatto quotidiano”, e capace di un approccio olistico, globale, che oggi manca.

Il ruolo dei partiti

A questo proposito è necessario aprire una riflessione seria, cioè dialettica e non soltanto storico-sociologica, sul ruolo dei partiti: tra il partito espressione dell’ideologia (come si ama rappresentare i partiti tradizionali della cosiddetta “prima repubblica”) e il partito come comitato elettorale a servizio del ceto politico (o addirittura come partito “proprietario”) sono pensabili altre versioni del ruolo dei partiti, che enfatizzino la dimensione popolare e la funzione conoscitiva della realtà che può e deve venire esercitata dai partiti stessi. I partiti sono associazioni di popolo, sono luoghi in cui dovrebbe formarsi una conoscenza reale della realtà sociale, economica e culturale di un determinato territorio, oltre che la selezione e la formazione del personale politico. Inoltre: la forma di partecipazione e di comunicazione che è resa possibile da partiti che si pongano come strutture aperte di soggettivazione politica non mi sembra sostituibile dalla partecipazione e comunicazione attraverso la Rete. Il web può in effetti facilitare la partecipazione politica perché rende più agevole la creazione di collegamenti e reti fra soggetti che condividono determinate problematiche o che vogliono impegnarsi sugli stessi fronti; ma allo stesso tempo il web può suscitare, anzi suscita, l’illusione che la partecipazione virtuale sostituisca quella reale: esiste invece una fisicità della partecipazione politica e dei processi di discussione e di soggettivazione politica che non può venire abolita senza perdere la natura stessa della politica, che è l’essere-in-comune di concreti individui, che si realizza attraverso processi di argomentazione e di reciproca pattuizione (accordi) rispetto alla “cosa comune” (res publica) da parte di individui che sono portatori di concreti bisogni, interessi e pretese. Punto di partenza dell’orientamento democratico è infatti, seguendo Habermas, l’idea che ciascuno ha diritto a che le sue pretese e i suoi interessi vengano trattati in modo paritario e siano resi compatibili con quelli degli altri attraverso un processo di deliberazione pubblica razionale e imparziale. Ora, questo processo discorsivo richiede di mediarsi attraverso modalità di comunicazione reale, face to face, e non soltanto virtuali. L’educazione alla vita democratica deve realizzarsi perciò come formazione del cittadino alla partecipazione al discorso politico pubblico. Lo spazio politico e le istituzioni della democrazia andrebbero intesi come attualizzazioni moderne dell’antica agorà, come lo spazio del conflitto e della discussione in vista della ricerca di buone mediazioni che ottimizzino i valori umani condivisi, pur rimanendo diverse le antropologie di partenza degli agenti.

Tra populismo e tecnocrazia

Desidero richiamare un’altra linea di tendenza che sembra sollecitare di fatto la disaffezione alla politica. Si tratta della percezione della crescente inadeguatezza delle arene democratiche nazionali per affrontare i problemi che trascendono la capacità di incidenza dei singoli Stati. Questa percezione va di pari passo con la circostanza che il governo delle dinamiche globali è stato e viene in misura non piccola assunto di fatto da istanze e agenzie sovranazionali che dettano agli Stati le regole “virtuose”, dalla cui osservanza dipende il finanziamento del loro debito pubblico da parte di chi controlla i flussi finanziari globali. Questo comporta che su molti temi decisivi la dialettica democratica appaia come “sospesa” e ai governi nazionali (qualunque sia il loro colore) venga lasciato un ridotto margine di manovra. D’altro lato, anche quando non sono esautorate, le democrazie nazionali devono confrontarsi con problemi che sfuggono alla loro capacità di controllo e di gestione, dai movimenti migratori ai flussi della comunicazione globale, dai problemi dell’approvvigionamento energetico agli spostamenti di capitali in senso reale. Di fronte a questa impasse la politica democratica si trova schiacciata fra due (false) alternative: il populismo (intendo questo termine nella sua accezione europea) e la tecnocrazia. Il populismo è una prospettiva politica che vuole scavalcare la dialettica democratica destra/sinistra – e la mediazione delle istituzioni della rappresentanza – sulla base di una proposta che può avere una molteplicità di versioni, ma che deve essere in grado di intercettare e di strumentalizzare lo scontento, la rabbia e il risentimento di ampi strati della popolazione, prospettando a fini di (facile) consenso pseudosoluzioni come ad esempio la cacciata dei migranti, l’uscita dall’euro, il non pagamento del debito, l’abolizione di leggi o misure supposte impopolari, ecc... Al populismo si oppone la tecnocrazia, che pretenderebbe di scavalcare anch’essa la dialettica destra/sinistra spacciando per scelte tecniche inevitabili quelle che sono linee politiche e ideologiche ben determinate (e stabilite in definitiva al di fuori dei confini nazionali). Di fronte a questa (falsa) alternativa la politica democratica è chiamata a ritrovare se stessa, agendo nella direzione di una democratizzazione della democrazia, che vada in senso contrario alla chiusura oligarchica, al populismo, alla tecnocrazia.

L’insufficienza del livello politico “domestico” (o nazionale) di fronte ai problemi globali non può affatto venire compensata da pulsioni nazionaliste e cosiddette “sovraniste”, che puntano sulla auto-chiusura degli Stati e dei loro confini come pratica di (illusoria) immunizzazione rispetto alle crisi globali. Il punto decisivo – il punto oggi discriminante – è quello di fare l’Unione europea (che costituisce il più significativo progetto politico globale dopo la Seconda guerra mondiale), e di farla sia democratizzandola, in vista di una Europa dei cittadini europei, e non di astratte burocrazie, sia dotandola del potere e della competenza necessari, e questo attraverso la cessione di gradi di sovranità da parte degli Stati membri in vista di creare un vero governo europeo. A tale scopo è richiesta la capacità di rischiare per un’idea necessaria, quella capacità che soltanto fa la “grandezza politica”. L’enciclica Laudato si’, al numero 178, stigmatizza «il dramma di una politica focalizzata sui risultati immediati». Rispondendo a interessi elettorali, spiega il testo, i governi non si azzardano facilmente a irritare i cittadini con misure che possano intaccare il livello di consumo o mettere a rischio investimenti esteri. Questa miope costruzione del potere frena ad esempio l’inserimento di una agenda ambientale lungimirante all’interno dell’agenda pubblica dei governi. Si dimentica così – incalza l’enciclica – che «il tempo è superiore allo spazio», che siamo sempre più fecondi quando ci preoccupiamo di generare processi, piuttosto che di dominare spazi di potere. Quella che l’enciclica chiama la «grandezza politica» si mostra quando, in momenti difficili, si agisce sulla base di grandi princìpi e pensando al bene comune a lungo termine. L’Europa e naturalmente anche l’Italia hanno estremo bisogno di «grandezza politica».

Formare alla democrazia

La democrazia postula la formazione di cittadini che vivano sotto buone leggi. Questa formazione del cittadino è compito della famiglia e della scuola, ma è oggetto anche dei mezzi di comunicazione e di esperienze associative quale è l’Azione cattolica. Punto decisivo su cui dovrebbe insistere la cura per la democrazia – per l’essere in comune dei cittadini sotto buone leggi – riguarda i princìpi. Il fine della associazione politica, di quella che i greci chiamavano polis, è lo sviluppo e la fioritura della persona umana, con il seguito di diritti (e di corrispondenti doveri) che questa fioritura comporta. Questo sviluppo della personalità non è separabile dalla corresponsabilità di tutti i popoli nei confronti dei problemi planetari e dalla responsabilità della generazione presente verso le generazioni future, come ha richiamato Hans Jonas. La fioritura della persona è allora qualcosa di diverso dalla autoaffermazione degli interessi materiali individuali, alla cui tutela dovrebbe limitarsi l’azione dello Stato, come è nella concezione liberale tradizionale. La fioritura della persona è possibile solo in un contesto relazionale, che la dottrina sociale della Chiesa, ma non solo essa, chiama «bene comune»: l’insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono tanto ai gruppi quanto ai singoli membri della società di tendere alla propria perfezione, cioè alla propria vera realtà, in modo effettivo. Fra queste condizioni deve essere considerato anche un rapporto armonico con la natura, alla luce del principio maggiore per il quale tutto è in relazione e gli esseri umani sono parte della natura stessa, anche se ne eccedono grazie alla libertà e all’intelligenza. Occorre concepire la democrazia come un ordinamento politico nel quale si stringono insieme le procedure e le finalità, la partecipazione paritaria di tutti alle decisioni politiche e i fini di sviluppo umano e di cooperazione solidale per la soluzione degli “affari comuni”, comuni in definitiva non solo ai con-cittadini ma all’intero genere umano. Alla sfera dei princìpi della democrazia appartiene perciò anche una dimensione finalistica, e non soltanto procedurale (le regole) o sostanziale (i diritti). La politica democratica ha quale scopo la relazione che ho chiamato bene comune, e deve porsi il problema di eliminare gli ostacoli o le limitazioni che rendono impossibile l’effettuarsi reale della relazione. L’articolo 3 della nostra Costituzione sostiene a questo proposito – come è noto – che è compito della Repubblica «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale» che limitano di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini. Da questo deriva che non si comprende la democrazia se non la si intende come quella forma di ordinamento politico che porta in sé lo scarto fra ideale e fattuale, e la tensione a mettere in questione quelle fissazioni o cristallizzazioni del potere e dei poteri che spezzano la relazione e che producono in definitiva uno svantaggio per i meno favoriti.

Di una pratica formativa democratica fa però parte non soltanto il tema dei princìpi, ma anche il tema dei mezzi della democrazia, ovvero delle forme e delle istituzioni della vita democratica. Sappiamo che i mezzi non sono mai a parte rispetto ai fini, non sono mai “meri” mezzi, ma sono i fini stessi in condizione di realizzazione, ovvero sono strutture dinamiche di approssimazione ai fini. Penso che di un’educazione alla vita democratica e alla partecipazione faccia allora parte integrante il tema che ho chiamato dei mezzi della democrazia, e perciò anche della loro possibile e/o necessaria adeguazione e ri-adeguazione ai fini della democrazia stessa, ovvero la loro modificazione/trasformazione alla luce dello scarto fra ideale e fattuale che ho adesso richiamato.

I «quattro princìpi della convivenza sociale»

In coerenza con la sua tradizione di associazione educativa, e tenendo fermo il principio della distinzione dei piani, l’Azione cattolica già opera e può sempre meglio operare come luogo di educazione alla vita democratica e alla partecipazione. Aggiungerò che in questa cura formativa possiamo trarre ispirazione da, e valorizzare adeguatamente, i «quattro princìpi della convivenza sociale» che l’esortazione Evangelii gaudium enuclea come princìpi della costruzione di un popolo: il tempo è superiore allo spazio, l’unità prevale sul conflitto, la realtà è più importante dell’idea, il tutto è superiore alla parte (cfr. nn. 221-233).

Non posso adesso offrire una spiegazione adeguata di questi princìpi nella loro portata filosofica. Mi limito a osservare che si tratta di princìpi ermeneutici e performativi “relazionati a tensioni bipolari”; si tratta cioè di princìpi che offrono schemi di interpretazione e di intervento sulla realtà, prima che norme generali o descrizioni particolari di fatti empirici. In particolare essi delineano un approccio aperto alla storicità, nella tensione fra pienezza e limite, un approccio che assume il conflitto senza subirlo o cristallizzarlo, che valorizza la tensione bipolare che esiste in atto fra idea e realtà, fra le nostre rappresentazioni e il mondo, che tiene aperta la prospettiva della totalità assumendo e superando, senza annullarle, le parti e le differenze. Con questi quattro princìpi viene in definitiva proposto un approccio “dialettico” al mondo, fondato su «opposizioni polari» (Guardini) che costituiscono il nostro rapporto con la realtà, e che non si risolvono in una sintesi speculativa, ma offrono un orientamento per interpretare e modificare il mondo, un orientamento del pensare e dell’agire che si presenta particolarmente idoneo per assumere produttivamente quello scarto e quella tensione fra ideale e fattuale che – come ho sottolineato – qualifica la natura stessa della democrazia, opera umana sempre imperfetta e sempre perfettibile.

Nota

1 Mi sono ispirato, in alcuni passaggi della mia elaborazione, al libro di S. Petrucciani, Democrazia, Einaudi, Torino 2014.