Nel discorso tenuto il 30 aprile 2017, in occasione della celebrazione di apertura del centocinquantesimo anniversario della fondazione dell’Azione cattolica, papa Francesco, dopo aver ricordato la «storia bella e importante» che l’ha contraddistinta, ha esortato l’associazione a non rinchiudersi nell’«autoconservazione», ma a «fare memoria» autentica attraverso la rinnovata responsabilità di «gettare il seme buono del Vangelo nella vita del mondo». Tra gli ambiti di impegno delineati, oltre al «servizio della carità», la «passione educativa» e la «partecipazione al confronto culturale», Bergoglio indicava vibrantemente l’«impegno politico», chiosando inaspettatamente: «Mettetevi in politica, ma per favore nella grande politica, nella Politica con la maiuscola!» (il testo è stato pubblicato in https://w2.vatican.va/content/francesco/it/).
Il richiamo, pur con la precisazione introdotta, ha conosciuto un forte impatto sull’opinione pubblica, che è scivolata in un’interpretazione corrente ritagliata sull’attualità più stringente, come se suonasse a monito di una situazione non più sostenibile. Senza voler iscriversi al partito degli esegeti accreditati del genuino pensiero bergogliano, non si può, tuttavia, liquidare sbrigativamente il contesto nel quale il discorso è stato pronunciato, che aveva sullo sfondo la ricorrenza anniversaria della nascita nel 1867 della Società della gioventù cattolica, prima espressione dell’Azione cattolica italiana. In una temperie culturale afflitta da eterno “presentismo”, è serpeggiante la tentazione di piegare strumentalmente ogni discorso pubblico, a prescindere dalla fonte e dal contesto, alle logiche (spesso avviluppate) dell’oggi.
Almeno per non incorrere in questo rischio mistificatorio, il XXXVIII Convegno Bachelet, che si è tenuto nell’anno lungo delle celebrazioni del centocinquantesimo della fondazione dell’Azione cattolica, ha inteso dare profondità storica alla riflessione sulle sfide che interpellano hic et nunc l’associazione, dischiudendo un futuro meno nebuloso. Solamente, infatti, affondando nelle radici di una tradizione che si è alimentata nella ricerca costante della costruzione di una società che non si potrebbe altrimenti definire che «più umana», come ricorda anche il presidente Matteo Truffelli, è possibile squarciare l’orizzonte dentro il quale oggi l’associazione è chiamata a offrire nuove risposte.
In questa ottica, allora, il Convegno si è articolato in una prima sessione di ricostruzione storiografica del lungo percorso del rapporto tra «Azione cattolica e azione politica». Il titolo evocava un articolo scritto da Giuseppe Lazzati su «Cronache sociali» all’indomani delle prime elezioni per il Parlamento della Repubblica italiana, che si tennero il 18 aprile 1948, palesando una compattezza del mondo cattolico che in passato non era mai emersa. Lo scritto suscitò un vivace dibattito che coinvolse anche esponenti dell’Azione cattolica, impattando fragorosamente sull’opinione pubblica. Al di là dei risvolti, le argomentazioni proposte per spiegare la clamorosa affermazione del partito di ispirazione cristiana evidenziavano, invece, la compresenza di sensibilità e culture politiche differenti all’interno dello stesso tessuto ecclesiale. La suggestione, dunque, ha costituito lo spunto per indagare la complessità del rapporto dell’associazione con la politica, che ha conosciuto modalità, strumenti e ricadute anche significativamente diversi nella sua declinazione. Nella ricostruzione proposta, si è toccata – verrebbe da dire – tanto la politica con la maiuscola, quanto con la minuscola. Sotto il primo cono di luce, rientrano sicuramente l’impegno profuso dall’Azione cattolica per il consolidamento dell’associazionismo professionale e per la maturazione di una coscienza internazionale, che non è stato possibile approfondire.
Non è questa la sede per riprendere diffusamente la parabola storica tracciata dai contributi presentati nella prima parte del Convegno. Preme, piuttosto, richiamare la nota dominante che è emersa a uno sguardo meno rapsodico gettato sul cammino di questi centocinquant’anni: è stato solamente nell’immersione piena nella storia che l’associazione ha ritrovato, si può dire, se stessa. L’Azione cattolica, infatti, ha dovuto continuamente misurarsi con la tensione a concorrere alla costruzione di una comunità “abitabile” per tutta la nazione, senza snaturare la propria vocazione originaria di associazione ecclesiale. È stato un processo sicuramente non lineare, che, tuttavia, nella ricerca sempre aperta, è approdato alla «scelta religiosa», attraverso la quale il rapporto con la politica ha ritrovato il grado di maturazione più compiuto.
Alla luce di questo lascito, nella seconda sessione del Convegno, sono stati messi a fuoco cinque ambiti attraverso i quali il rapporto tra Azione cattolica e politica si declina nel nostro tempo. La convinzione che sottende e perciò lega i contributi proposti al Convegno e ospitati in questo Dossier muove dal presupposto che la politica non costituisce – verrebbe voglia di dire semplicemente, ma se così fosse sarebbe una conquista irrinunciabile – il perseguimento del bene comune, ma rappresenta l’apertura alla storia, senza la quale il perno attorno a cui ruota il rapporto si incepperebbe prima ancora di potersi muovere.
La riflessione di Giuseppe Elia arriva a individuare nell’apertura, anche come antidoto alla tentazione serpeggiante di «rifugiarsi fra le mura rassicuranti delle nostre comunità ecclesiali», la risposta più adeguata, in una sorta di equivalente semantico, al progetto missionario di «uscita» invocato da papa Francesco. Per sostenerla – e non può dirsi un caso nella ricerca delle «cose nuove e cose vecchie» del «tesoro» associativo – occorre uno «stile» improntato alla «cultura del dialogo», la costruzione di una rete di relazioni non virtuali, l’edificazione di comunità solidali attraverso l’«interazione culturale» con le diverse espressioni della società, la tessitura di una nuova «cultura politica» che sappia rianimare un tessuto democratico sotto il segno dell’affermazione di una cittadinanza piena.
Per parte sua, Paolo Nepi si è soffermato sulla categoria del «territorio» con le sue estensioni alla «territorialità» e alla «territorializzazione», sfuggendo al gioco lessicale che accompagna spesso il dibattito pubblico sul tema, per affrontarlo nelle molteplici implicazioni che il cambiamento portato dall’immigrazione, la globalizzazione e la rivoluzione digitale ha prodotto. L’effetto combinato di questi processi, se da un lato costituisce un «problema», dall’altro lato rappresenta una risorsa ineludibile per ripensare il territorio in chiave di «comunità, accoglienza, integrazione». Al fondo, la conclusione a cui arriva la messa a fuoco, nel richiamo ai valori fondanti della «buona politica», non si discosta ma anzi integra la suggestiva riflessione di Elia.
Marco Ivaldo traccia un quadro penetrante dello stato della democrazia, che necessita di essere alimentata continuamente dalla partecipazione. Seppure la sintomatologia arrivi a manifestare un «disagio», una «sofferenza», se non una vera e propria «crisi», che è lucidamente diagnosticata, andando oltre le vulgate mediatiche, la cura suggerita non si arrende alla rassegnazione, invocando come anticorpo la «democratizzazione della democrazia». Non si tratta, tuttavia, di un appello accorato che scivola nella retorica di maniera, ma della richiesta di un supplemento di responsabilità alle «agenzie educative», tra le quali, alla luce della sua storia, non può che essere annoverata anche l’Azione cattolica, affinché diventi sempre più e sempre più incisivamente «luogo di educazione alla vita democratica e alla partecipazione». Appoggiandosi ai quattro assi della «convivenza sociale» richiamati in Evangelii gaudium, come principi della «costruzione di un popolo» (la superiorità del «tempo», dell’«unità», della «realtà», del «tutto» rispettivamente sullo «spazio», sul «conflitto», sull’«idea», sulla «parte»), Ivaldo postula che, per la cura della crisi, serva un orientamento, sia del pensiero che dell’azione, che sappia assumere fecondamente lo scarto fra ideale e fattuale che qualifica la natura stessa della democrazia, «opera umana sempre imperfetta e sempre perfettibile».
La conclusione sembra avvalorata da Beatrice Draghetti, la quale, in forma di testimonianza più che di dissertazione, ha rievocato il ruolo di promozione delle donne svolto dall’Azione cattolica a partire dal proprio vissuto esperienziale. Nella condivisione dell’itinerario associativo percorso, il punto di non ritorno è stata la percezione netta «di essere parte e di essere curate e coinvolte». Tra i molti richiami sollevati, Draghetti ha insistito particolarmente sulla formazione ricevuta, che le ha «insegnato», oltre al significato di essere «capo», nel senso della responsabilità assunta, anche la convinzione che la competenza, la dedizione, il disinteresse prevalgono anche nell’impegno politico, inibendo altre scorciatoie per «emergere come donna». Nell’intervento non sono mancate le sottolineature alle sfide che rimangono aperte per l’associazione, riconducibili alla capacità di «disseppellire» la «resistenza di vita» delle donne e di trasmettere le «ragioni di vita e di speranza» alle nuove generazioni. Si tratta di un contributo «dal basso» per alimentare modalità nuove di cittadinanza e di appartenenza alla comunità.
Su questa suggestione si è innestato idealmente Matteo Truffelli, il quale, nella ricerca delle condizioni per l’Azione cattolica per ritrovare la politica con la maiuscola, ha rovesciato la concezione predominante sulla necessità di avere «buoni politici» in favore della prospettiva di formare «buoni cittadini». In questo senso, l’associazione, per essere «all’altezza della sua storia», come soggetto capillarmente diffuso anche nei territori più periferici, deve operare per «ricucire il paese». L’Azione cattolica, inoltre, può concorrere fattivamente ad alimentare la «passione politica per tornare a pensare il futuro», in un paese che sembra sempre più rinchiuso nel presente, attraverso un investimento fruttuoso nel mutamento di una mentalità improntata alla sfiducia, la disillusione, la rassegnazione, l’indifferenza. Il presidente nazionale ha anche richiamato l’esigenza di continuare, se non rafforzare, l’attenzione alla formazione e all’accompagnamento di quanti scelgono di vivere un impegno più strettamente politico.
L’ultimo richiamo è stato speso sulle modalità attraverso le quali l’associazione può “fare politica” in modo più “diretto”, attraverso proposte «buone per la vita del paese», in grado di raccogliere ampio consenso. In questa tensione, non si può che rovesciare la logica di chi vuole stare forzatamente al di «sopra delle parti», per collocarsi, invece, al di «sotto delle parti», assumendo la prospettiva visuale di chi si trova ai margini.