«Ci sono dei momenti nei quali si resta soli con Dio e colla propria coscienza. Allora tutto quello che si è e si è stati affiora alla superficie, vi prende alla gola, vi stampa in fronte uno stigma indelebile, vi afferra la volontà e ve la incammina per il sentiero, che è magari aspro o tortuoso, ma che è il vostro»1. Siamo nel bel mezzo degli anni del consenso degli italiani al fascismo. Alcide De Gasperi sta vivendo uno dei periodi più oscuri della sua parabola biografica. La sua fede nella libertà e nella democrazia non vacilla, ma presenta un conto molto caro. Dopo diciassette mesi di carcere tra 1927 e 1928, il futuro statista si trova per la prima volta ai margini della storia, espulso da quell’arena pubblica in cui era entrato giovanissimo, quando appena trentenne aveva varcato le soglie del Reichsrat, il Parlamento austriaco, dove era stato chiamato a rappresentare la sua terra trentina. Eppure è proprio contemplando questo scenario di umiliante sconfitta che De Gasperi, mosso dalla ricorrenza del trentennale dell’ordinazione episcopale di Celestino Endrici, dell’eroe eponimo della sua formazione, trova la determinazione per alzare lo sguardo oltre le ingiustizie subite e distillare un nuovo inizio dalle delusioni di un decennio.
Sono tante le parole che di lì innanzi avrebbero lastricato il sentiero che Alcide De Gasperi avrebbe sentito suo. Alcune già da tempo risuonavano nei suoi pensieri: democrazia, giustizia, pace. Altre sarebbero comparse più avanti lungo il cammino, saldandosi alle altre come tasselli irrinunciabili. Non è facile stabilire quando «Europa» divenga una di esse, ma certo è che è nel turbinio del dopoguerra che De Gasperi troverà in questa parola lo strumento che poteva fare della sua strada quella di molti, dando compimento alla missione di una vita. Per dirla con le sue parole, «l’occasione che passa e che non tornerà più»2.
Vi è dunque davvero poco di casuale nel modo in cui De Gasperi concepì, costruì e difese l’avventura europea: l’ultima battaglia di un uomo che aveva vissuto molto, attraversando tre epoche, sedendo in tre diversi Parlamenti, servendo con pari dedizione un grande impero dinastico, una piccola monarchia lanciata sul binario totalitario e una giovane repubblica democratica, gravata dal peso dell’eredità fascista3.
Eppure sta proprio nell’incontro tra il bisogno di lasciarsi alle spalle il passato e, allo stesso tempo, nell’esigenza di non dimenticarlo, che nel progetto europeo si sprigiona una forza creativa, un denso amalgama di idealità e vita, che ci conduce direttamente alle pieghe più vissute della stessa biografia degasperiana.
Solidarismo cristiano
In primis la lezione del solidarismo cristiano, che ci riporta agli anni lontani del Trentino asburgico, quando il futuro statista muoveva i primi passi in una scena pubblica dominata da un profondo senso comunitario, irrobustito dal trionfo della sensibilità sociale promossa dal grande pontificato leonino e da una capacità organizzativa che si rivelava nel successo senza eguali del movimento cooperativistico trentino. De Gasperi era nato il 3 aprile del 1881 a Pieve Tesino, un villaggio di confine incastonato tra montagne impervie e boschi rigogliosi, figlio di una famiglia di modeste origini. In quella terra di contadini di montagna che all’alba del nuovo secolo vedeva addensarsi in lontananza le nubi del primo conflitto mondiale, egli aveva intessuto una rigorosa educazione familiare con una serie di incontri fortunati, che lo avevano introdotto nei gangli vitali del movimento cattolico trentino: leader dell’Associazione degli studenti cattolici trentini, dopo la laurea conseguita a Vienna sarà chiamato a dirigere, a soli ventiquattro anni, «La Voce cattolica», il giornale più letto nel Tirolo italiano, per approdare nel torno di pochi anni prima nel Consiglio comunale di Trento e poi, il 17 luglio 1911, al Parlamento imperiale di Vienna. L’epoca dell’impegno battagliero volto a difendere un senso di giustizia e di attenzione agli ultimi, che non si arrestava di fronte ai profili frastagliati dei monti trentini, allargandosi ad abbracciare l’intero consorzio umano, al di sopra di recinti ideologici e confini politici. La lezione di quegli anni, come ricorderà De Gasperi, «era un appello che scuoteva la coscienza, richiamava la responsabilità personale, diceva al giovane: “orsù, punta i piedi, concentra le forze, nuota controcorrente. Dio ti ha fatto persona libera e responsabile, non seguire pecorilmente il gregge dei più: sii tu, tutto d’un pezzo, e battiti come puoi e con tutte le forze per la causa del bene”»4.
Un approccio che sopravvivrà ai tornanti della storia successiva, divenendo perno portante di una nuova concezione delle relazioni internazionali. Parlando di Europa, agli inizi degli anni Cinquanta egli sottolineerà che «una cosa sola è essenziale. Questa sola esige tutti i sacrifici, questa sola esige i compromessi, esige compromessi personali, familiari, nazionali. Questa cosa è il senso unitario del consorzio umano, questo senso di fratellanza universale, al di sopra delle nazioni e della politica, che è l’eredità e il patrimonio del cristianesimo»5.
Su questo piano si realizzò la singolare convergenza di idee e di formazione religiosa di De Gasperi con Adenauer e Schuman, entrambi cattolici ed entrambi con esperienza formativa vicina a quella di De Gasperi.
Identità multiple
Un secondo tema che balza all’occhio è quello delle identità multiple, che condurrà De Gasperi ad accogliere l’idea del federalismo pragmatico come obiettivo europeo. Dal 1881 al 1918 corrono trentasette anni: la metà esatta della vita dello statista. Anni vissuti da suddito asburgico, appartenente alla minoranza degli italiani d’Austria. Trentino, italiano e suddito imperiale: per De Gasperi già allora diversi livelli identitari possono convivere, come piani distinti del medesimo edificio. Ma solo a un patto: che il piano superiore non collassi su quello inferiore, soffocandolo. Per De Gasperi “nazionalità” e “Stato” restano concetti non necessariamente sovrapponibili. Si capisce quindi che ogni irredentismo non poteva rientrare nelle sue prospettive. Rifiutando la polemica tra nazionalismi contrapposti, egli esaltava piuttosto il valore delle autonomie locali come strumento di difesa dallo Stato centralistico e come stimolo ad una responsabilità diffusa che facesse delle masse popolari le protagoniste e non strumenti della storia. «Trentino, italiano, suddito imperiale»: parole che si compongono all’alba del nuovo secolo, ma riecheggiano molti anni dopo nella formula «trentino, italiano, europeo». Poteva scordare il valore della libertà e della diversità chi era nato parte di una minoranza nazionale, aveva assistito alla bufera nazionalista e nel Ventennio fascista aveva pagato la coerenza con le proprie idee, dissonanti da quelle della maggioranza, con il carcere e l’emarginazione?
Miti positivi
Un terzo ed ultimo punto è infine l’idea che, pur muovendosi spesso tra le strettoie e le avversità della storia, le comunità debbano tendere verso miti positivi. De Gasperi, che pure aveva visto per due volte gli Stati europei volgere le armi l’uno contro l’altro in guerre fratricide, ci ricorda che nonostante tutto «non abbiamo il diritto di disperare dell’uomo, né dell’uomo individuale, né dell’uomo collettivo; non abbiamo il diritto di disperare della storia, poiché Dio è al lavoro non solamente nelle coscienze individuali, ma anche nella vita dei popoli»6. L’Europa di De Gasperi era allora un appuntamento con la storia, un nuovo paradigma: «Se volete che un mito ci sia ditemi un po’ quale mito dobbiamo dare alla nostra gioventù per quanto riguarda i rapporti tra Stato e Stato, l’avvenire della nostra Europa, l’avvenire del mondo, la sicurezza, la pace, se non questo sforzo verso l’Unione? Volete il mito della dittatura, il mito della forza, il mito della propria bandiera, sia pure accompagnato dall’eroismo? Ma noi allora creeremo di nuovo quel conflitto che porta fatalmente alla guerra. Io vi dico che questo mito è mito di pace, questa è la pace»7.
Ecco perché quando nel secondo dopoguerra il processo d’integrazione europea mosse i primi passi, De Gasperi c’era. Acclamato alla guida del suo Paese, egli non trascurava certo l’interesse nazionale, tanto più che nelle istituzioni comunitarie l’Italia avrebbe trovato un freno prudenziale allo strapotere politico delle altre potenze europee. Ma non si trattava solo di oculato calcolo diplomatico. La prima mossa fu la creazione della Comunità europea del Carbone e dell’Acciaio. L’idea era semplice: mettere in comune tra gli Stati alcuni interessi economici fondamentali, così da evitare che le competizioni nazionali potessero tornare a dividere il continente. Ma appena tenuta a battesimo la Ceca nel luglio del 1952, De Gasperi già si trovava a ripetere con insistenza che «se noi non costruiremo altro che delle amministrazioni comuni senza che vi sia stata una volontà politica superiore, vivificata da un organismo centrale, nel quale le volontà nazionali s’incontrano, si precisano e si animano in una sintesi superiore, noi rischiamo che questa attività europea compaia al confronto delle vitalità nazionali particolari senza colore, senza vita ideale; potrebbe anche apparire ad un certo momento una sovrastruttura superflua e fors’anche oppressiva»8.
Dal funzionalismo al costituzionalismo
Dal funzionalismo si doveva passare al costituzionalismo, dall’interesse economico a quello politico. L’occasione parve presentarsi quando la minaccia della guerra fredda stimolò il presidente del Consiglio francese René Pleven a proporre la costituzione di un esercito comune europeo. Una necessità dettata da drammatiche esigenze esterne poteva tramutarsi nell’innesco di un autentico progetto di unità politica: la Comunità europea di difesa (Ced). Non un mega-Stato che prendesse il posto degli Stati esistenti, il che avrebbe vanificato la convinzione degasperiana che solo nella piccola dimensione batte il cuore della partecipazione pubblica. «Unità nella diversità»: era piuttosto questo il motto che compare negli scritti dello statista, ben prima che nel 2000 venisse adottato ufficialmente dall’Unione europea.
Grandi speranze e grandi amarezze. Il progetto della Ced, che aveva acceso le visioni di De Gasperi, si sarebbe infatti arenato il 30 agosto 1954 di fronte alla bocciatura dell’Assemblea nazionale francese. Allo statista, che il 19 agosto precedente raggiungeva il termine della sua intensa parabola terrena tra le montagne di casa, a Sella Valsugana, era risparmiata la beffa, non la tristezza di vivere i suoi ultimi giorni dall’ombra dell’imminente fallimento. Iniziava così il divorzio tra la dimensione politico-ideale e quella economica dell’integrazione europea, che costituisce ancora un grave vulnus nella legittimazione delle istituzioni comunitarie.
Sia come sia, al cospetto del presente quella di De Gasperi resta la testimonianza di un uomo capace di mettersi al servizio di un progetto comune con lo slancio e la determinazione che ancora risuonano nelle sue parole: «Parliamo, scriviamo, insistiamo, non lasciamo un istante di respiro; che l’Europa rimanga l’argomento del giorno»9.
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Antologia
Roma, 4 novembre 1950
Discorso agli europeisti10
Ho accolto volentieri e con un senso di intimo convincimento l’invito rivoltomi a partecipare a questa riunione e di aderire con la mia firma alla campagna per l’Europa unita e per la pace che con tanto slancio avete condotta e state ora per concludere. È con profondo convincimento che io, come privato cittadino e come italiano, vengo qui tra voi per esternare in forma concreta l’aspirazione che io, noi tutti e tanti italiani sentiamo, sia pure in forme diverse, all’unione o alla federazione dell’Europa; il bisogno che noi sentiamo in modo così perentorio di giungere ad una forma unitaria di questa nostra Europa per consolidarne le conquiste sociali e le forme democratiche per le quali lavoriamo così duramente e per assicurarne così la pace.
C’è anzitutto un bilancio da fare. Ciò che fu il sogno di grandi statisti e pensatori nel passato è divenuto in breve scorcio di anni una realtà – sia pure in embrione, sia pure in una forma assai imperfetta, ma sempre una realtà. Ed è qui a poche centinaia di metri da noi, dove in seno agli organi del Consiglio d’Europa gli esponenti più autorevoli delle nazioni europee proseguono in forma ufficiale e formale i loro lavori per attuare questa esigenza così profondamente sentita in ciascuno dei loro paesi. Noi qui invece rappresentiamo l’opinione pubblica, rappresentiamo la volontà dei popoli, che agisce e continua, non mai soddisfatta, ad agire sui governi e sui parlamenti e impone loro la discussione dei problemi e l’attuazione, nelle forme possibili, dei nostri progetti.
Ed è qui la questione: ho detto all’inizio che noi e tutti gli europeisti sentiamo in forme diverse l’esigenza e il modo dell’unione. Ed è bene che vi sia questa diversità di opinione, di metodo, di programma strutturale, poiché attraverso la discussione e l’esame delle varie possibilità, potremo anzitutto affinare noi stessi e potremo con l’esperienza fissare quanto vi è di essenziale per lo scopo comune. Bene vengano quindi le diverse concezioni dell’Europa unita, che si esprimono nei vari movimenti; ma guardiamoci, se vogliamo essere uomini e europeisti responsabili, dall’irrigidirci sul raggiungimento immediato di determinate formule o strutture. Collaboriamo insieme tutti per risolvere l’innegabile difficoltà e fissare le migliori formule (anche perché non ci si dica che quando già l’Europa sarà unita, gli europeisti non lo saranno ancora). […] Per unirsi occorre, è evidente, che ciascuno faccia concessioni e rinunce, ma ognuno ha posizioni da difendere, alcune forse che con più chiaro discernimento del comune pericolo non sarebbe tanto difficile da abbandonare, altre invece che sono la risultante di situazioni geografiche e politiche effettivamente non sempre modificabili a breve termine. Ed allora occorre aggirare questi ostacoli. […] Il contatto con le difficoltà rende realisti; è il nostro compito affiancare e stimolare l’opinione pubblica che a sua volta agisce sui Parlamenti e sui Governi. Ma guardiamo in faccia e studiamo bene gli ostacoli e le difficoltà; siamo tattici; se necessario, evitiamo qualche volta di insistere sul raggiungimento, come meta immediata, di ideali giudicati o dimostratisi per il momento irraggiungibili e in cui l’opinione pubblica, e quindi anche i Governi, non ci seguirebbero. Studiamo invece altre possibilità e proponiamole; sennò rischieremmo noi stessi, non già di promuovere, ma di contribuire all’insabbiamento dei nostri progetti, creandovi o incoraggiandovi le opposizioni.
Il nostro compito e le nostre responsabilità sono immani.
Noi vogliamo veramente la pace e, mentre diciamo di volerla, lavoriamo per unire l’Europa; altri, mentre dicono anch’essi di raccogliere firme per l’abolizione della bomba atomica e per assicurare la pace, lavorano per dividere il mondo.
Essi lavorano contro la pace nel modo più esplicito ed efficace, cioè facendo la guerra; guerra interna con le agitazioni politiche e il sabotaggio della produzione e della ricostruzione, guerra esterna che è guerra guerreggiata di aggressione armata.
Questa campagna si chiude, queste firme verranno presentate al Parlamento, ma ciascuno di noi ha il dovere di continuare a promuovere il fine che ci anima, e per il quale ormai governi e popoli lavorano. Continui ciascuno di noi, lo spirito teso alla forma di Europa che più lo ispira, ma la mente intenta invece a studiare la migliore, la più pratica e la più immediata attuazione di quel suo ideale, a proclamare e sempre ripetere lo slogan che ci ha animati sin dall’inizio: pace nell’Europa unita.
Note
1 G. Fortis, La figura e l’opera di Sua Altezza nei ricordi di un discepolo, in «Vita Trentina», VIII (15 marzo 1934), p. 11; lo pseudonimo cela chiaramente la penna di De Gasperi. L’articolo si trova edito in A. De Gasperi, Scritti e discorsi politici, vol. II, tomo 2, Il Mulino, Bologna 2007, pp. 1865-1870.
2 Discorso tenuto a Strasburgo all’Assemblea del Consiglio d’Europa il 10 dicembre 1951, edito in A. De Gasperi, Scritti e discorsi politici, vol. IV, tomo 3, Il Mulino, Bologna 2009, pp. 2471-2474.
3 La bibliografia degasperiana è varia e ampia. Per quanto concerne il tema europeo imprescindibile è il contributo di D. Preda, Alcide De Gasperi federalista europeo, Il Mulino, Bologna 2004. Per una panoramica complessiva sulla figura dello Statista si rimanda invece all’utilissimo G. Tognon (a cura di), Su De Gasperi. Dieci lezioni di storia e di politica, FBK Press, Trento, 2013.
4 G. Fortis, La figura e l’opera di Sua Altezza nei ricordi di un discepolo, op. cit., p. 10.
5 Discorso pronunciato a Sorrento al Convegno delle Nuovelles Equipes Internationales il 14 aprile 1950, edito in A. De Gasperi, Scritti e discorsi politici, vol. IV, tomo 3, cit., pp. 2265-2268.
6 Discorso tenuto a Bruxelles nell’ambito delle Grandes conférences catholiques il 20 novembre 1948, edito in A. De Gasperi, Scritti e discorsi politici, vol. IV, tomo 2, Il Mulino, Bologna 2009, pp. 1146-1156.
7 Intervento al Senato della Repubblica, 15 novembre 1950, edito in A. De Gasperi, Scritti e discorsi politici, vol. IV, tomo 1, Il Mulino, Bologna 2009, pp. 659-667.
8 Discorso tenuto a Strasburgo all’Assemblea del Consiglio d’Europa il 10 dicembre 1951, edito in A. De Gasperi, Scritti e discorsi politici, op. cit.
9 Discorso tenuto alla Tavola rotonda d’Europa, il 13 ottobre 1953 a Roma, edito in A. De Gasperi, Scritti e discorsi politici, vol. IV, tomo 3, op. cit., pp. 2709-2720.
10 Edito in A. De Gasperi, Scritti e discorsi politici, vol. IV, tomo 3, op. cit., pp. 2285-2286.