Territorio, territorialità e territorializzazione

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Il territorio è una realtà materiale e immateriale, con alto valore sociale, economico, ma anche simbolico. Esso è, poi, anche una civitas, ovvero un tessuto dinamico di relazioni tra cittadini. Quello che oggi sembra urgente è la conoscenza del proprio territorio, cioè delle questioni sociali, della povertà crescente, delle diseguaglianze a cui purtroppo ci stiamo assuefacendo.

Sui concetti di territorio, territorialità, territorializzazione, in questi ultimi venti anni troviamo una crescente attenzione degli analisti e dei cultori di scienze sociali, ma anche degli studiosi attenti ai mutamenti della politica. Il primo termine indica uno spazio geografico definito da precisi confini, mentre gli altri due indicano piuttosto i processi e le dinamiche di carattere sociale e culturale che in quello spazio si verificano. Tra i tanti studiosi segnalo Aldo Bonomi, che al tema ha dedicato gran parte delle sue ricerche1 .

Il territorio come valore simbolico

Partiamo da una premessa forte, di carattere fondativo. Il territorio, come spazio comune in cui vive la comunità degli esseri umani, è dunque una realtà materiale e immateriale, con alto valore non solo sociale ed economico ma anche simbolico. La letteratura più recente ha rivolto la sua attenzione a questo aspetto della condizione umana. Penso a due romanzi di grande successo degli ultimi due anni: L’arminuta di Donatella Di Pietrantonio e Patria dello spagnolo Fernando Aramburu affrontano tematiche con forti implicazioni territoriali. Nel primo caso il territorio rappresenta il luogo del ritorno alle origini di un’adolescente, cresciuta in una famiglia diversa dalla sua famiglia naturale, che si trova a confrontare l’ambiente benestante della famiglia adottiva con la miseria materiale e ambientale di quella che le ha dato la vita. Nel romanzo di Aramburu è invece il contesto socio-politico dei Paesi Baschi, con la tragica presenza del terrorismo indipendentista, a fare da sfondo a una storia in cui il privato si intreccia continuamente con il pubblico.

Ma è soprattutto nella cultura classica – non dimentichiamo mai una delle radici dell’umanesimo europeo che, attraverso il mito, aveva descritto aspetti fondamentali della vita – che troviamo spiegato il significato profondo dell’appartenenza a un territorio: il mito di Anteo, che ha avuto tante raffigurazioni nella pittura e nella scultura, e che Dante ricorda nel XXXI canto dell’Inferno. Anteo è un gigante invincibile, che solo Ercole riesce a sconfiggere con uno stratagemma. Anteo, figlio della madre Terra, infatti risulta imbattibile finché riesce a tenere il contatto con la madre. Quando Ercole lo solleva da terra, Anteo perde ogni vigore e viene facilmente soffocato da Ercole.

Flussi e luoghi

Alla luce di questi concetti richiamerò solo alcuni fenomeni con cui la politica dei nostri giorni è chiamata a fare i conti. Il primo è la globalizzazione, con la connessa delocalizzazione delle attività produttive, che ha introdotto pesanti conseguenze nel mercato del lavoro. La globalizzazione ha infatti prodotto un’economia senza territorio (la Fiat era a Torino), mettendo in crisi i distretti industriali che erano stati pensati, a partire dagli anni Settanta, come risposta alla crisi delle grandi industrie di carattere nazionale. Un altro è l’immigrazione, che sottopone i territori a un processo di ridefinizione delle loro identità sociali, culturali e religiose. L’immigrazione produce un vero e proprio terremoto rispetto alle situazioni economiche e alle identità sociali, culturali e religiose degli spazi territoriali. Si tratta di due movimenti opposti, uno centrifugo ed uno centripeto, che avrebbero dunque bisogno di una politica capace di farli diventare complementari e sinergici come la sistole e la diastole del cuore. La sociologia descrive questa complementarità attraverso la dialettica flussi-luoghi2 . Infine c’è da considerare la nuova sfida, per i territori, rappresentata dall’incombente rivoluzione industriale 4.0. Anche questa sarà, come le altre rivoluzioni, un’opportunità e un rischio. E sarà un’opportunità solo se sarà politicamente guidata nel rispetto del valore della persona e del primato del bene comune3 .

Da notare poi, anche solo per accenni, il cambiamento storico verificatosi a partire dagli ultimi decenni del secolo scorso. Con qualche evidente semplificazione, si può dire che si è passati dal “territorio felice” degli anni Sessanta (lavoro per tutti, miglioramento delle condizioni economiche per tutti, con ricadute positive sulla famiglia e sulla sua stabilità...) a quello delle “tensioni territoriali” (perdita di lavoro, diseguaglianze crescenti, fragilità e instabilità della comunità familiare...). Mentre dunque nel periodo che ho definito del “territorio felice” la famiglia costituiva un potente elemento di coesione della comunità che viveva in quel territorio, oggi la famiglia rappresenta invece un soggetto che contribuisce al suo disgregamento e alla sua instabilità.

Occorre dunque partire da una visione del territorio che rifugga da ogni forma retorica e idilliaca. L’Italia è un paese con caratteri di forte differenziazione: pensiamo solo alla difformità Nord/Sud, con grandi diseguaglianze di ogni genere (economiche, culturali...). Ho trovato sul sito web dell’Azione cattolica questa lucida descrizione: «L’Ac in Umbria si inserisce in un tessuto sociale e culturale dislocato su un territorio articolato e discontinuo: se si escludono il capoluogo Perugia e Terni, i centri di maggiori dimensioni, la popolazione risiede in un numero limitato di piccole città, numerosi borghi e castelli sparsi di antica formazione, spesso isolati perché edificati in posizioni facilmente difendibili, ospitanti ancora oggi piccole comunità, con forti connotazioni territoriali e storiche, legate alla tradizione»4 .

Il territorio risorsa e problema

Occorre pertanto parlare del territorio rifuggendo da ogni enfasi ottimistica, come se fosse il toccasana di tutti i problemi. Il territorio è anche il luogo primario degli intrecci tra affari e politica, e quindi lo spazio in cui si afferma la criminalità organizzata. Esistono certo anche a livello macrosistemico tali intrecci, ma la cultura dell’illegalità trova soprattutto nel territorio la prima e più estesa forma di organizzazione, come si può ricavare dalle ricerche di Ercole Parini5 . Se navighiamo su Internet, alla voce Criminalità e territorio si possono trovare molte iniziative di enti locali al riguardo, che evidenziano tuttavia una lettura interessatamente miope del fenomeno. Si interpreta tutto in funzione della difesa da infiltrazioni mafiose, e non si tiene conto che esse sono possibili dove esiste un terreno fertile. Anche in fisica un’infiltrazione è possibile se esiste una qualche fessura. E quindi non sono assolutamente sufficienti le misure di carattere repressivo e poliziesco. Occorre pertanto, e qui dobbiamo sentirci chiamati in causa direttamente, contrastare modi di pensare e pratiche che possano favorire la penetrazione malavitosa su un territorio. I territori hanno conosciuto pesanti casi di cattivi rapporti tra politica e affari. Basti pensare alle inique gestioni delle banche locali (anche Monte dei Paschi di Siena è in un certo senso un istituto locale).

Il problema oggi più avvertito, e del quale si nutrono le speculazioni elettorali, è certamente la questione della sicurezza nel territorio. Nelle zone del mondo pericolose si può non andare, e le agenzie di viaggio hanno un elenco dei posti con una graduatoria che va dai sicuri agli insicuri, ma da qualche parte bisogna posare il capo.

In ogni caso, soprattutto nell’epoca della globalizzazione, il territorio costituisce lo spazio dove le filiere corte delle relazioni sociali, da quelle familiari a quelle del vicinato e della comunità locale, da quelle politico-amministrative a quelle del mondo del lavoro e delle relazioni industriali, riescono a sconfiggere i molti lati impersonali della società moderna e trovano consistenza nelle persone legate da rapporti significativi. Pertanto anche la frase molto usata e abusata di papa Francesco, secondo cui «il tempo è superiore allo spazio», va bene interpretata, altrimenti ci porta a idealizzare la dimensione totalizzante di un processo che finirebbe per annullare tutte le differenze.

Politica e territorio: quale impegno per l’Ac?

Darei per acquisito tutto ciò che diciamo oramai da quasi cinquant’anni sulla formazione della coscienza. Non perché non sia importante, ma perché non c’è niente che non sia già stato detto, e io non saprei dirlo meglio. Pongo solo due questioni, che sono però di tale importanza che meriterebbero, ciascuna, un intero convegno.

La prima rimanda alla conoscenza del proprio territorio, che è uno dei capisaldi della tradizione educativa cattolica (basti pensare al trinomio «vedere, giudicare, agire»). Rischiamo tutti di sentirci dispensati da questo lavoro di conoscenza. Se è vero, in un certo senso, che «la realtà è superiore all’idea», dobbiamo però essere convinti che il modo umano di conoscere la realtà matura attraverso le idee, e che pertanto possono esserci anche modalità errate di rapportarci ad essa. Nel mondo della post-verità si registra un crescente distacco tra la realtà e i modi in cui viene percepita. Una ricerca internazionale ha messo in evidenza come in Italia, anche in seguito alla permanente crisi della politica, la demagogia finisca per imporre strumentalmente idee distorte su alcuni fenomeni sociali. Si pensa, ad esempio, che gli stranieri presenti siano il 30% (contro il 7%), i musulmani il 20% (contro il 4%), i disoccupati il 48% (contro il 12%), ecc.6 .

Anche i politici preferiscono sparare qualche facile slogan contro l’immigrazione, oppure gridare sulla necessità di abbassare le tasse, ovviamente senza dirci come gestire la spesa e il debito pubblico che abbiamo sulle spalle, piuttosto che misurarsi con i problemi dei luoghi da cui provengono, e che spesso conoscono a malapena. Anche perché, con la legge elettorale attuale, molti candidati, anziché espressione del territorio, sono stati catapultati nei collegi dalle segreterie di partito per le ragioni più diverse, a partire dal grado di fedeltà al capo, che però non sono quelle di renderli rappresentativi delle comunità locali.

Conoscere il territorio significa anzitutto prendere coscienza delle questioni sociali della povertà crescente, delle diseguaglianze tra garantiti e non garantiti, a cui purtroppo ci stiamo assuefacendo. Si rischia a questo riguardo di cedere a quella che papa Francesco, nel suo linguaggio aspro e incisivamente provocatorio, ha chiamato la «globalizzazione dell’indifferenza»7 . Dovremmo promuovere osservatori in grado di “coscientizzare” – qualcuno ricorderà Paulo Freire – le comunità locali su questi problemi. E inoltre, e direi soprattutto, occorrerebbe rafforzare quelle reti che già esistono nell’ambito dell’associazionismo cattolico, passando dal confronto competitivo al confronto cooperativo, e aiutare così anche i gruppi di Ac a dare al verbo “uscire” una qualche consistenza operativa.

Oltre a questo compito primario, non dimentichiamo che abitare un territorio significa anche conoscere e custodire la memoria delle sue ricchezze artistiche, dato che in Italia non esiste borgo o cittadina, per non parlare delle grandi città, che non abbiano incomparabili tesori di bellezza.

A questo proposito segnalo qualche incongruenza nel legittimo desiderio di conoscere le bellezze presenti a tutte le latitudini del nostro pianeta, da cui non è escluso neanche il nostro mondo. A una ragazzina di terza media, figlia di una famiglia passata troppo velocemente dalla austera civiltà contadina alla ricca borghesia orafa, che con orgoglio esibiva le sue conoscenze delle isole caraibiche e di altre pregevoli mete turistiche, mia moglie chiese se avesse mai visitato Firenze. E la sventurata, Manzoni mi perdonerà per questa indebita appropriazione, non rispose. Questa sorta di bulimia turistica da collezionisti dei luoghi visitati, rappresenta – a mio parere – una forma di assurdo provincialismo da combattere con ogni mezzo.

La seconda questione presuppone il territorio come spazio comunitario. Riaffermiamo il principio che il territorio, oltre a essere uno spazio geografico, è anche una civitas, ovvero un tessuto dinamico di relazioni tra cittadini con eguali diritti e doveri. A questo proposito ricordiamoci sempre che l’Azione cattolica, in quanto realtà associativa, non esprime solo la natura comunionale della Chiesa, ma manifesta anche la vera e autentica dimensione antropologica. Essa deve servire innanzitutto a entrare nel mistero della salvezza donataci da Cristo, ma può alimentare tale tensione solo attivando tutte le potenzialità insite nell’essere umano, o meglio nella persona umana. Da questo punto di vista si tratta di invertire la rotta che ha assunto la cultura moderna, che ha esaltato l’individuo, e quando ha enfatizzato la comunità lo ha fatto spesso in modo errato, rovesciando l’individualismo nel totalitarismo. Ma un errore rovesciato, come ci ha insegnato Maritain, resta un errore.

Il valore della relazione

Tra queste due figure dell’errore commesso dalla modernità prevale oggi certamente il primo, ovvero l’individualismo: «Il grande rischio del mondo attuale, con la sua molteplice ed opprimente offerta di consumo, è – ha sottolineato il papa in Evangelii gaudium, 2 – una tristezza individualista che scaturisce dal cuore comodo e avaro, dalla ricerca malata di piaceri superficiali, dalla coscienza isolata». Con largo anticipo David Riesmann, in un testo ormai classico della sociologia, aveva parlato di «folla solitaria» già a partire dai primi anni Cinquanta8 .

Secondo recenti dati Istat, stiamo diventando un paese di single: a volte per necessità, sempre più spesso per scelta. Sta addirittura espandendosi un business di iniziative e proposte per persone singole: cene, spettacoli, intrattenimenti di vario genere... Sembra che sempre più persone preferiscano una malinconica solitudine alla fatica ma anche alla gioia della compagnia.

L’Italia «ha bisogno di sentirsi comunità, senza diffidenza. La mancanza di senso di comunità porta a diffidenza, intolleranza e a volte alla violenza». Lo ha detto il presidente della Repubblica il 5 febbraio 2018, parlando al Quirinale in occasione del conferimento delle onorificenze al merito, con un chiaro riferimento alle drammatiche vicende di Macerata, dove la follia razzista è esplosa risuscitando improprie, strumentali e fuorvianti recriminazioni su fascismo-antifascismo. E prima dei tragici fatti di Macerata, il cardinale Bassetti in apertura del Consiglio permanente della Cei ha detto: «C’è poi un’urgenza spirituale di ricucire ciò che è sfilacciato. Ricucire la comunità ecclesiale italiana, esortandola a interpretarsi nell’orizzonte della Chiesa universale. Ricucire la società italiana, aiutandola a vivere come corpo vivo che cammina assieme. Occorre riprendere la trama dei fili che si dipana per tutto il Paese con l’attenzione a valorizzarne le tradizioni, le sensibilità e i talenti. Ricucire significa, quindi, unire. Unire la comunità ecclesiale, unire il Paese: da Lampedusa ad Aosta, da Trieste a Santa Maria di Leuca»9 .

La quarta rivoluzione industriale sta aggiungendo, a quella già presente e connessa al consumismo, una nuova forma del processo: l’individualismo reticolare in cui la comunità è virtuale, ovvero in ultima istanza irreale. Anche a questo riguardo abitare un territorio significa recuperare il valore delle relazioni corte dell’amicizia e della condivisione, di un’amicizia non solo privata ma anche a forte valore civico, che significa prendersi cura, assieme a tutti gli uomini di buona volontà, dei problemi di quella comunità che, come ci ha insegnato la dottrina sociale della Chiesa, è la sola depositaria del bene comune. In questa prospettiva, anche i beni privati sono tali, cioè beni, solo se orientati intenzionalmente a un consumo non esclusivamente individuale.

Solo ricucendo le reti territoriali della comunità locale sapremo anche affrontare l’emergenza dell’immigrazione e dell’integrazione. Comunità, accoglienza, integrazione: vedo particolarmente adatte a innescare questo processo virtuoso le realtà più piccole, dove i rapporti personali sono più intensi, dal momento che le grandi città tendono sempre più alla spersonalizzazione.

Concludo, a proposito di questo impellente bisogno di comunità, con un pensiero che ho trovato nel racconto di un raffinato scrittore napoletano, Erri De Luca, che in Montedidio sintetizza una profonda verità antropologica, di alto valore filosofico e direi anche teologico: «Chi sta solo è meno di uno».

Note

1 Tra i tanti studi, vedi Territorio e politica, Einaudi, Torino 2013.

2 Ved. A. Bonomi, Territorio e politica, cit., e le suggestive riflessioni di P. De Simone, Non perdere mai la voglia di camminare, in «Dialoghi», 17 (2017),3, pp. 2-5.

3 Ved. G. Gabrielli, Una rivoluzione che possiamo piegare al bene comune, in «Dialoghi», 17 (2017), 3, pp. 93-98.

4 M. Stella, Ac Umbria. Tra storia e territorio, in http://azionecattolica.it/ac-umbriastoria-e-territorio.

5 Come, ad esempio, in Mafia, politica e società civile. Due casi in Calabria, Rubbettino, Soveria Mannelli 1990.

6 N. Pagnoncelli, Ma gli italiani votano di testa o di pancia?, in «Vita e pensiero», 100 (2017), 6, pp. 100-104.

7 Francesco, Vinci l’indifferenza e conquista la pace, 1° gennaio 2016, in http://w2.vatican.va/content/francesco/it/messages/peace/documents/papa-... messaggio-xlix-giornata-mondiale-pace-2016.html.

8 La folla solitaria, il Mulino, Bologna 1956.

9 Il testo, pronunciato il 22 gennaio 2018, in http://www.chiesacattolica.it/wp-content/ uploads/sites/31/2018/02/22/Prolusione-del-Cardinale-Presidente.pdf.