Il futuro: tra promesse e illusioni

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Viviamo Tra promesse e illusioni, orfani di un passato che sembrava preludere a sviluppi diversi. Il punto sulla caduta delle certezze che avevano risollevato le sorti dell’Occidente nella seconda metà del Novecento, e che pensavamo avrebbero fatto da bussola per tanto tempo ancora.
 

Riflettevamo sul n. 4 del 2018 di «Dialoghi» intorno alla tentazione prometeica di Farsi Dio, di superare la fragilità intrinseca dell’umano, scomporlo e ricomporlo per adulterarlo, ripensarlo in forme diverse da quelle dateci da Dio, allargare il perimetro del nostro limite «umano, troppo umano». Ma proprio Nietzsche, probabilmente l’interprete più emblematico della crisi spirituale del Novecento, ci ricorda che Dio è morto e che l’abbiamo ucciso noi. Viene da chiedersi allora se tutta questa grottesca opera di cosmesi non sia solo la parodia di un rito esequiale o magari un goffo tentativo d’esorcismo.

Il primo Dossier del 2019 indaga sulle cause che ci hanno spinto oggi alla costruzione di questa nuova torre di Babele che, con la sfida al cielo, ha portato alla confusione delle lingue. Viviamo Tra promesse e illusioni, orfani di un passato che sembrava preludere a sviluppi diversi: «Quando sovviemmi di cotanta speme,/ un affetto mi preme/ acerbo e sconsolato,/ e tornami a doler di mia sventura». Epigoni del romanticismo, viviamo una nuova stagione di decadenza, Gli ultimi giorni dell’umanità raccontati nella ciclopica e labirintica «tragedia» di Karl Kraus, anche noi spettatori di una guerra mondiale, seppure «a pezzi», come ha osservato il Papa. Nella Premessa alla sua opera il giornalista austriaco avvertiva: «I contemporanei, i quali hanno permesso che le cose qui descritte accadessero, pospongano il diritto di ridere al dovere di piangere. I più inverosimili discorsi qui tenuti sono stati pronunciati parola per parola; le più crude invenzioni sono citazioni». Tutta la sua opera si presentava come uno sterminato collage di frasi tratte dai giornali, ascoltate per la strada, lette nei bollettini di guerra. Abbiamo noi tutti in mente tante altre frasi lette e sentite – al bar, sull’autobus, ma anche in parrocchia – che potremmo riprodurre a testimonianza dello spirito dei nostri tempi. Per altro, ironia della sorte, l’edizione originale del libro, nel 1922, recava in frontespizio la celebre fotografia del corpo di Cesare Battisti esibito dopo l’impiccagione come un macabro trofeo dal suo boia sghignazzante. Coincidenza delle omonimie.

Ebbene, in questa stagione della storia dell’umanità, siamo amaramente a dover fare i conti con la terribile perdita – non solo come somma della cancellazione individuale – della memoria. Per riprendere le categorie di Reinhart Koselleck, è come se si fosse determinato un cortocircuito tra l’esperienza, che è un «passato presente», rivivificato nella memoria, e l’aspettativa, che è un «futuro presentificato»: così sembra che viviamo immersi in un “eterno presentismo”.

A cent’anni dal 1919, anno contraddittorio e violento rimasto antonomastico di una politica in bilico, su «Dialoghi» facciamo il punto sulla caduta delle certezze che avevano risollevato le sorti dell’Occidente nella seconda metà del Novecento e che pensavamo avrebbero fatto da bussola per tanto tempo ancora.

Da Nietzsche e dal nichilismo parte anche Giovanni Grandi nel primo articolo di questo Dossier, mostrando come tra la nostra situazione attuale di paese incattivito e deluso registrata dal Rapporto annuale del Censis (ma che per la verità si può ampiamente dedurre semplicemente ascoltando, come Kraus, gli umori delle nostre città) e la diffusa frustrazione degli anni Trenta, dopo il crollo di Wall Street e la fine dei roaring Twenties, ci siano delle preoccupanti coincidenze. Oggi come allora, nella fase discendente di un ciclo economico esaurito, ci sentiamo vittime incolpevoli di una grande e imponderabile ingiustizia che ci nega di poter godere dello stesso tenore di vita delle generazioni precedenti, protagoniste invece di una fase di rapida ascesa; e, oggi come allora, le risposte prevalenti si consolano nell’irrazionale, nel complottismo, fino al rifiuto del dato scientifico. Fulminante è la citazione che Grandi propone da Rivoluzione personalista e comunitaria di Emmanuel Mounier, risalente al 1932, impietosa fotografia in bianco e nero di incrostazioni stratificate d’invidia e rabbia, d’insoddisfazione e sotterranea brama di riscatto. La sciagurata risposta che fu data a tale fenomeno in quegli anni, la sappiamo. E intravediamo ripresentarsi sintomi analoghi, un certo qual desiderio di “ritorno all’ordine”, che pervase le arti e la letteratura, e ovviamente la politica, cercando rifugio nel rigore delle forme e degli stilemi del passato.

Pierpaolo Triani parla proprio di «fatica di futuro». Lo fa a proposito della rottura del cosiddetto “patto intergenerazionale”, che porta le persone che lo hanno spezzato a chiudersi in se stesse per cercare «un alibi per rimpiangere il passato, per prendersela con presunti nemici, per restare indifferenti agli altri, per pensare solo a sé». C’è, al fondo della decisione di mettere al mondo dei figli, un’implicita speranza nell’avvenire, il desiderio di perpetuare una storia, un atto gratuito di generosità, che però l’odierno dilagante narcisismo mette in dubbio e scoraggia, per soddisfare piuttosto la ricerca del benessere individuale; ciò sembra però un rifiuto delle responsabilità dell’età adulta, una fuga in un’eterna adolescenza. Possiamo leggere questa rinuncia a essere padri (e madri) anche in prospettiva politica, come sembra in qualche modo proporre Giorgio Campanini, il quale fa risalire la ricerca di un “uomo forte”, che decida per noi senza mediazioni, oltre che all’obiettiva lentezza delle procedure parlamentari e democratiche e alla farraginosità della nostra burocrazia, a una sostanziale immaturità dell’opinione pubblica, incapace di animare il dibattito, d’innervare la discussione in quelli che una volta il pensiero sociale cattolico chiamava i “corpi intermedi”, quegli aggregati che rendono la società non un’astrazione, ma una realtà da partecipare. Tornare a quel tipo di discussione, che investa la “città”, la “piazza” e la “scuola” ci farebbe riscoprire, dice Campanini, implicitamente rispondendo alle aporie evidenziate da Triani, la fraternità. Gli ultimi tre articoli prendono in esame queste realtà: la politica, l’economia e l’istruzione.

A due mesi dalle elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo, «Dialoghi» fa proprie le parole di Giuliano Amato, il quale ricorre ad argomenti razionali per illustrare i meriti dell’Unione europea, posto che quelli emotivi, validi quando ancora era vivo il ricordo amaro della guerra, oggi sembrano non funzionare più; o, meglio, funzionano in senso inverso, per screditare un progetto che, pur con le sue difficoltà (le stesse segnalate da Campanini in riferimento alla Costituzione italiana), ha fatto molto e molto continua a fare a sostegno del progresso politico, sociale ed economico.

La riflessione di Luigino Bruni e Alessandra Smerilli si articola su due fronti: da una parte la constatazione che le motivazioni nobili che ci hanno consentito di trasformare un paese agricolo in una potenza industriale, vanno esaurendosi: non si parla solo dell’Italia delle piccole imprese a conduzione familiare, ma di quello spirito di abnegazione e sacrificio, fondato in non poca parte sulla pietà cristiana, che ha reso grande l’Occidente, non solo dal punto di vista economico. Per cui tutte le nuove teorie che chiedono, con buone ragioni, di mutare il nostro sistema di sviluppo, sono tenute a fare i conti con questa tradizione, vero patrimonio spirituale ed etico. Non ci può essere crescita a prescindere, ma nemmeno decrescita: c’è invece un’economia civile di beni relazionali, spirituali, ambientali da sostenere e alimentare.

L’ultimo contributo è quello di Luciano Caimi, che ricorda come il processo di democratizzazione del sistema d’istruzione è ancora lontano dal dirsi concluso, sopravvivendo tra le scuole una gerarchizzazione non dichiarata che, di fatto, discrimina gli studenti sulla base dell’origine familiare. Dalla scuola, riallacciandosi non solo idealmente alle conclusioni di Campanini, Caimi aggiunge che non dobbiamo solo aspettarci che fornisca competenze, ma che stimoli lo spirito critico e educhi a una cittadinanza consapevole.

Che sappia rinnovare le promesse e dissipare tante illusioni.