Sono tre le chiavi di lettura che oggi si possono usare per interpretare il nesso tra crisi dell’informazione e crisi della democrazia: 1) l’abbondanza della quantità di informazioni circolanti che non si associa ad un corrispondente aumento della qualità, con un effetto a cascata sulla generale validazione dei processi cognitivi e sulla conseguente perdita di autorevolezza dei gestori delle competenze acquisite (gli esperti); 2) la mancata trasparenza di sistemi complessi che agiscono secondo le logiche di imperscrutabili calcoli con – ancor più – imperscrutabili effetti consequenziali (vedi gli algoritmi); 3) gli effetti della comunicazione, ossia la capacità che una corretta informazione sia determinante per una corretta e libera scelta delle decisioni da prendere in politica, ma anche in economia, nel mercato culturale, eccetera.
Fattori concomitanti, che incidono in diversa misura e con diverse conseguenze che dipendono da variabili non sempre definibili a tavolino. Proviamo a esaminarle, sebbene in sintesi, e, successivamente, proviamo a capire se ci sono strade che possano impedire l’inevitabilità del piano inclinato.
Oggi parlare di h/24 e 7/7, significa in forma semplice e iconica parlare di un flusso di informazioni senza soluzione di continuità. Nessuna pausa, minuto dopo minuto, su tutti i giorni e senza barriere di luogo o di strumenti. Anzi: negli ultimi tempi la portabilità estrema dei device (smartphone e tablet su tutti) ha consentito una connessione continua alle fonti di informazioni (anche quelle tradizionali, radio e tv) in modo assolutamente imprevedibile solo alcuni anni fa.
L’illusione della connessione e gli “algoritmi” delle notizie
Il moltiplicarsi dei canali tv e soprattutto il diffondersi capillare del web, anche grazie alla portabilità degli strumenti, ha reso totalizzante l’opportunità di informarsi diffondendo, innanzitutto, una mentalità, un’idea di approccio, una sorta di predisposizione che è identificabile con una semplice espressione: «Tutto si può conoscere, basta connettersi e fare una semplice ricerca». Ma è davvero così facile? No, per nulla, e chi conosce la fatica dei veri percorsi di ricerca, anche solo per accostarsi alla verità (giornalista, scrittore, ricercatore, scienziato o altro), lo sa bene. Scrive Tom Nichols, docente all’U.S. Naval War College e all’Harvard Extension School, nel suo recente La conoscenza e i suoi nemici. L’era dell’incompetenza e i rischi per la democrazia: «Oggi, a copirmi non è tanto il fatto che la gente rifiuti la competenza, ma che lo faccia con tanta frequenza e su così tante questioni, e con una tale rabbia. [...] Forse gli attacchi alla competenza sono più evidenti per via dell’onnipotenza di internet, dell’indisciplina che governa le conversazioni sui social media o delle sollecitazioni poste dal ciclo di notizie ventiquattro ore su ventiquattro»1. E con maggior severità aggiunge: «Ma l’arroganza e la ferocia di questo nuovo rifiuto della competenza indicano, almeno per me, che il punto non è più fidarsi di qualcosa, metterla in discussione o cercare alternative: è una miscela di narcisismo e disprezzo per il sapere specialistico, come se quest’ultimo fosse una specie di esercizio di autorealizzazione».
E in questo “sapere specialistico”, condannato e rifiutato (si pensi alla polemica sulle élite sui giornali a inizio d’anno), non possono che rientrare anche o soprattutto i giornalisti delle testate qualificate e il ceto politico di vecchio stampo. Da tempo entrambe le categorie sono ai posti più bassi dei sondaggi nelle graduatorie sulla fiducia.
Secondo fenomeno, ma strettamente connesso al primo: ma chi governa e con quali criteri i meccanismi di acquisizione, classificazione e (ancor più) di gerarchizzazione della notiziabilità di fatti e opinioni? Nei veicoli tradizionali d’informazione (stampa e tv su tutti), sebbene non sempre negli anni le risposte alle due domande siano state sicure (vedasi la polemica sull’editore “di riferimento” che echeggiava ogniqualvolta ci fosse un cambio di direzione nei Tg Rai), ebbene nonostante un tasso fisiologico di incertezza, un tempo era più chiara la linea politica, culturale, sociale che – in modi e momenti diversi – segnava la selezione delle notizie e la “convocazione” di esperti per dotarle di commenti e opinioni. E oggi? Oggi vige un meccanismo di calcolo, il fantomatico “algoritmo”, che con precisi sistemi automatizzati rende una notizia o un commento più evidente di altri, più ricercato, più rilanciato sui social, più esposto al successo (o, viceversa, all’insuccesso) di altri tasselli omologhi della stessa informazione. Meccanismo sconosciuto ai più. Ma ben noto a chi lo origina, ovviamente, a fini di guadagno economico o di ricerca del consenso.
Per questo Michele Mezza, uno dei massimi esperti dell’intreccio tra democrazia e potenza dei calcoli e della profilazione (politica e non solo) del cittadino elettore, lancia un allarme secco nel suo Algoritmi di libertà: «Il punto è come rendere esplicite e trasparenti la logica e la modalità di funzionamento dell’algoritmo che media e performa le nostre azioni in rete, più che accompagnare nuovi clienti nel mercato digitale. La rete è certamente una frontiera avanzata, della quale bisogna diffondere logica e linguaggio, ma in maniera consapevole e critica, non in virtù di un determinismo tecnologico per cui l’accesso è comunque un valore in sé»2.
Il dibattito tra apocalittici e integrati
Un determinismo esaltato ed esaltante a cui spesso fa da controcanto una pregiudiziale accusa di catastrofismo tecnologico (che richiama, neppure troppo velatamente, l’antica questione dibattuta brillantemente da Umberto Eco tra apocalittici e integrati). Specialmente circa le conseguenze degli algoritmi e/o delle false notizie che circolano in grandi quantità, soprattutto in occasione di appuntamenti elettorali. I membri della prima fazione, gli apocalittici, vedono, infatti, uno stretto legame tra diffusione della cattiva informazione e le scelte di voto a favore di questo o di quel partito che se n’è avvantaggiato. Le analisi fatte in proposito non danno risultati scientificamente plausibili in questo senso. Soprattutto se si considera che i social network e internet in toto sono considerati affidabili da meno del 24% di chi li consulta per reperirvi informazioni (e che comunque sono, diciamo così, il 54% degli informati a considerarli fonti)3.
Il che non vuol dire che i discorsi d’odio, gli hate speech, le false notizie, i dibattiti sguaiati, le bolle e i filtri di giudizio non abbiamo conseguenze nefaste: ma domandiamoci se sono il frutto o la causa di un imbarbarimento del discorso pubblico. E sono di recente conio o vengono da lontano? Non è una discussione oziosa (tipo quella dell’uovo e della gallina). Perché assumono peso e incidenza culturale le considerazioni di Jason Brennan, politologo statunitense che nel suo “tombale” testo Contro la democrazia afferma: «In politica (e in tutti gli altri contesti) soffriamo l’in-group/out-group bias, o “favoritismo di gruppo” [...]. Siamo inclini a fare gruppo e a identificarci fortemente con esso. Tendiamo a sviluppare animosità verso altri gruppi, anche quando non ce ne sarebbero le ragioni. Abbiamo il pregiudizio di assumere che il nostro gruppo sia buono e giusto, e che i membri degli altri gruppi siano cattivi, stupidi e ingiusti»4. I social potenziano questa tendenza? Ma possono anche funzionare da antidoti o non c’è speranza?
La soluzione, o la contrapposizione che molti invocano, oltre ad una normale e giustificatissima regolamentazione di linguaggi e modalità di accesso (che, però, non dovrebbe prevedere nulla di più di quanto già si chiede con le normali regole tese a contrastare «diffamazione e calunnia») sarebbe veramente quella di circoscrivere e limitare l’uso delle piattaforme on-line giudicate incapaci di garantire un civile, educato e informato circuito di dibattito democratico e produttivo? E con esso non ci sarebbe anche il rischio di limitare la voce delle minoranze che non avrebbero altrimenti idonei e agibili strumenti di espressione a costi contenuti?
«L’elettore mediano è ignorante – dice sempre Brennan – e il non-elettore mediano è ancora peggio che ignorante. La maggior parte dei cittadini si sbaglia: quello che sa è meno di niente, non solo fa errori o è ignorante su questioni semplici e facilmente verificabili [...], ma è anche priva delle più rudimentali conoscenze di scienze sociali necessarie per valutare quei fatti. Per tali ragioni, le democrazie violano sistematicamente le condizioni necessarie per il consenso informato»5. Giudizio pesante e critico, postulato che precede la definitiva e irrevocabile condanna della democrazia in sé e non, piuttosto, di come viene utilizzata, ossia spesso male: «Nelle democrazie sono i grandi gruppi di persone a esercitare certamente una qualche forma di potere. Gli individui no. E questo non è un errore delle democrazie, ma una loro caratteristica fondamentale. La democrazia non è stata pensata per dare potere agli individui, bensì per togliere a essi potere in favore di larghi gruppi o unioni. La democrazia dà potere a noi, ma non dà potere né a te né a me»6. Se non fosse un pensiero che rischia di essere vincente (populismi autocratici e tecnocrazie, a volte in combinato disposto, a farla da padroni), potrebbe essere pacificamente attribuito alla provocazione di un singolo. Ma così non è.
Restituire ai media il ruolo di strumenti
Emerge allora l’evidente importanza di una corretta, capillare e disinteressata informazione, in questo imprescindibile processo di conferma, riabilitazione e rilancio della democrazia.
Conviene perciò ripartire dalle parole di Giannino Piana, un filosofo moralista da sempre attento a coniugare, nella fattibilità pratica, i principi con gli eventi della storia. Piana muove da una saggia (e proficua) considerazione di partenza: né apocalittici, né integrati. Ambedue queste posizioni vanno abbandonate... «Gli strumenti di comunicazione non sono infatti in sé né buoni né cattivi; dipende dall’uso che se ne fa, dagli interessi di chi li gestisce, dalle reazioni dei soggetti che ne fruiscono, dal tipo di controllo che su di essi si esercita e dall’incidenza che essi hanno sulla coscienza personale e sul costume collettivo. [...] Tra neutralità e ideologia esiste uno spazio intermedio, sul quale è chiamata a esercitarsi la responsabilità umana. Per questo il giudizio sui media e sui messaggi da essi veicolati non può prescindere dagli intenti perseguiti da coloro che li gestiscono. [...] L’impegno fondamentale deve essere quello di restituire ai media il ruolo di strumenti, riconoscendo i meriti storici derivanti dal loro uso, ma non dimenticando, nel contempo, gli effetti negativi già pesantemente sperimentati. La situazione attuale si presenta, sotto questo profilo, difficile e promettente»7.
Ma non è una sfida che non si può affrontare da soli, con uno sforzo improbo e destinato quasi certamente all’insuccesso. Piana, invece, vede la possibilità (e in questo fa riferimento al documento preparatorio della XLII Settimana sociale dei cattolici italiani) che sia la società civile a «diventare l’ambito dell’appropriazione di un profondo senso civico, che consenta di evitare tanto il rischio di ridurre l’uomo a semplice cittadino quanto quello di ridurre la società a mero luogo di lotta per l’affermazione degli interessi individuali». Essa, in quanto «insieme dei luoghi di comunicazione e del dialogo», può trasformarsi in spazio nel quale si «forma l’identità umana, la quale richiede la salvaguardia della memoria storica»8.
Allora, partendo dall’assunto che «la centralità dell’informazione per lo sviluppo della vita democratica rende doverosa la ricerca di un sistema di garanzie, che assicuri la responsabilità e il controllo delle notizie», si tratta di «dare vita a un sistema di “informazione civile” orientato a favorire la possibilità di gestione e di controllo dei media da parte dei cittadini con l’obiettivo di sviluppare un’informazione pluralista e disinteressata, di proteggere l’utenza dal condizionamento dei poteri industriali, commerciali e politici, e di difendere la privacy degli individui [...]. La crescita delle nuove tecnologie multimediali interattive può costituire l’occasione per una svolta radicale in questo settore: alla passività del consumo si sostituisce infatti una forma di partecipazione, che, per quanto in parte condizionata da scelte fatte altrove, può creare le condizioni per l’originarsi di un nuovo sistema di cittadinanza»9.
Tanta parte possono avere, in questo processo alto, determinante e – se vogliamo – entusiasmante, associazioni come l’Ucsi10, fatta da giornalisti e comunicatori, o come l’Azione cattolica, capillarmente diffusa in tutta Italia. Una sfida di grande profilo ma che si può giocare in tutta dignità.
Note
1 T. Nichols, La conoscenza e i suoi nemici. L’era dell’incompetenza e i rischi per la democrazia, Luiss, Roma 2018, p. 13.
2 M. Mezza, Algoritmi di libertà, Donzelli, Roma 2018, p. 63.
3 Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, Rapporto sul consumo di informazione, febbraio 2018.
4 J. Brennan, Contro la democrazia, Luiss, Roma 2018, p. 80.
5 Ivi, p.129.
6 Ivi, p.133.
7 G. Piana, In novità di vita, vol. III. Morale socioeconomica e politica, Cittadella, Assisi 2013, pp. 379-380.
8 Ivi, p. 542, dove si cita Quale società civile per l’Italia di domani? Documento preparatorio della XLII Settimana sociale dei cattolici italiani, n. 38.
9 Ivi, pp. 544-546.
10 L’Unione cattolica della stampa italiana, che nel 2019 compie sessant’anni di vita, ha sin dalle origini portato avanti una riflessione sull’evoluzione dei media e sull’etica della comunicazione. La rivista «Desk» negli ultimi numeri si è occupata di fake news, di post verità, del racconto giornalistico delle grandi tematiche sociali del nostro tempo, dal lavoro alle migrazioni, dalla giustizia alla città.