Magistero scomodo: il Vaticano II e papa Francesco

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Il rapporto fra la dimensione pastorale e quella dottrinale della vita ecclesiale e della fede; il tema conciliare della coscienza, così come viene applicato nell’esortazione postsinodale Amoris laetitia; la libertà religiosa e il dialogo interreligioso, in particolare verso l’islam: i tre orizzonti tematici che alimentano dibattiti e critiche a questo pontificato e all’ultimo Concilio.
 

C’è un magistero ecclesiale che risolve i problemi e così è stato interpretato tale servizio nel corso della storia (Roma locuta, causa soluta), ma possiamo anche sostenere che c’è un ma­gistero che crea problemi, in quanto suscita interrogativi, attiva processi, alimenta dibattiti, come peraltro anche accaduto nel contesto della ricezione delle formulazioni dogmatiche nella Chiesa dei primi secoli. Particolarmente connotato in questa seconda direzione è a mio avviso – il magistero dell’ultimo Concilio e quello dell’attuale vescovo di Roma, che ad esso si ispira. Il che corrisponde alla stessa configurazione degli eventi conciliari.

A tal proposito vorrei evocare la prospettiva indicata da John Henry Newman, il quale, riferendosi al Vaticano I, in coerenza con la sua teoria del Concilio, scriveva: leggete la storia dei concili, questa attesta che sono momenti di grande prova, addirittura di violenza, di intrighi, di battaglie. Possiamo individuare due scuole di pensiero a questo riguardo, quella che si ispira a Newman direbbe: vi sono una ricezione e degli effetti più ampi di quelli che non siano previsti o contenuti nei testi o nelle intenzioni di chi il Concilio l’ha vissuto, di chi il Concilio l’ha voluto, quindi, per esempio, del vescovo di Roma e dei vescovi. La più recente scuola bolognese, invece direbbe: la ricezione del Concilio, in particolare del Vaticano II, ma non solo, è sempre selettiva, ossia non tutto è stato recepito: il Concilio si recepisce a frammenti. La riforma liturgica, ad esempio, non ha certamente avuto la stessa ricezione di una riforma istituzionale, la Lumen gentium rispetto alla Sacrosanctum Concilium è meno realizzata, la collegialità meno attuata rispetto alla riforma liturgica (e, alla luce del recente discorso del papa all’assemblea dei vescovi italiani, sappiamo quanto sia attuale questa tematica insieme a quella della sinodalità).

L’affermazione dogmatica sull’infallibilità del Vaticano I resterebbe una rivalsa determinata dalla perdita del potere temporale, tesi ricorrente nella letteratura e nella storio­grafia sul Risorgimento, se non si fosse avvertita, con Newman, la parzialità di quella formulazione dogmatica, perché in quel momento storico non era stata espressa alla luce di un’autentica ecclesiologia e di un autentico concetto di “tradizione”, a proposito del quale si gioca una violenta contrapposizione fra quanti ne invocano l’irreformabilità e coloro che ne sostengono la dinamicità, aderendo all’aforisma di G. Mahler, che papa Francesco ama citare, secondo cui «tradizione non è il culto delle ceneri, ma la custodia del fuoco». E, se è vero che il Vaticano II, oltre che affermare una dottrina, ha inteso indicare uno stile e vivere in un clima, senza lo stile e il clima dell’ultimo Concilio probabilmente non avremmo avuto il pontificato interrotto, mentre ritroviamo il clima e lo stile del Vaticano II quotidianamente in quella che Mimmo Muolo ha felicemente denominato l’«enciclica dei gesti» del successore di papa Benedetto. E non è certo un caso se la Dei Verbum al n. 2, nel descrivere la dinamica della rivelazione ebraico-cristiana, faccia precedere i gesti (eveni) alle parole (gestis verbisque), pur affermandone l’inscindibile connessione. Dal mio punto di vista su alcuni punti nevralgici le perplessità e le contrapposizioni, talvolta virulente, verso il Concilio finiscono col coincidere con le – spesso feroci – critiche che vengono rivolte a papa Francesco. Mi soffermerò su tre orizzonti tematici, che ritengo particolarmente significativi, all’interno dei quali si alimenta il dibattito intorno al Vaticano II e a questo papa.

L’inclusione della dottrina nella pastorale

Un primo campo di battaglia, spesso presente anche nelle cronache giornalistiche che raccontano il magistero scomodo di questo papa, e che mi sembra molto affine a quello concernente il Vaticano II, riguarda il rapporto fra la dimensione pastorale e quella dottrinale della vita ecclesiale e della fede. L’ultimo Concilio, abbiamo sentito, non è dottrinale, ma pastorale, quindi conta meno degli altri, come se pastorale fosse meno che dottrinale. E con queste espressioni si intende sminuire il valore “teologico” del Vaticano II. Siamo invece chiamati ad osare l’affermazione contra­ria: «pastorale è più che dottrinale!». La prassi include la dottrina e una dottrina autentica può solo avere una valenza pratica, pastorale, ecclesiale. E d’altra parte non esistono Concili solamente dottrinali, anche Nicea, anche Calcedonia, Costantinopoli o Efe­so hanno una profonda e forte valenza pastorale. Per non dire del Tridentino. Il realismo dell’assenso newmaniano ci aiuta a leggere realisticamente e quindi autenticamente anche il Vaticano II e il magistero dell’attuale pontefice.

Abbiamo motivo di sperare che la “riforma della curia” che si sta cercando di attuare intenda esprimere da un lato l’inclusione della dottrina nella pastorale e dall’altro il fondamento dinami­co della stessa rivelazione, qualora, come indiscrezioni giornalistiche anticipano, i principali dicasteri dovrebbero attendere alla carità e all’evangelizzazione (fatti e parole, secondo il dettato di Dei Verbum), al cui servizio verrebbe posizionata la congregazione che si interessa della “dottrina della fede”. Non so se sarà proprio così, ma lo spero e lo intravedo come un esito fecondo proprio del Vaticano II.

A questo proposito risulta particolarmente significativo un pas­saggio del messaggio che papa Francesco ha inviato alla Facoltà teologica di Buenos Aires, che celebrava, nel 2015, il centena­rio dalla fondazione: «Non sono poche le volte in cui si genera un’opposizione tra teologia e pastorale, come se fossero due realtà opposte, separate, che non hanno nulla a che vedere l’una con l’altra. Non sono poche le volte in cui identifichiamo dottrinale con conservatore, retrogrado; e, all’opposto, pensiamo la pastorale a partire dall’adattamento, la riduzione, l’accomodamento. Come se non avessero nulla a che vedere tra loro. In tal modo si genera una falsa opposizione tra i cosiddetti “pastoralisti” e gli “accademicisti”, quelli che stanno dalla parte del popolo e quelli che stan­no dalla parte della dottrina. Si genera una falsa opposizione tra la teologia e la pastorale; tra la riflessione credente e la vita credente; la vita, allora, non ha spazio per la riflessione e la riflessione non trova spazio nella vita. I grandi padri della Chiesa, Ireneo, Agostino, Basilio, Ambrogio, solo per citarne alcuni, furono grandi teologi perché furono grandi pastori. Uno dei contributi principali del Concilio Vaticano II è stato proprio quello di cercare di superare questo divorzio tra teologia e pastorale, tra fede e vita. Oso dire che ha rivoluzionato in una certa misura lo statuto della teologia, il modo di fare e di pensare credente».

Chiamati a formare coscienze, non a sostituirle

Un ulteriore campo di battaglia riguarda il tema conciliare della coscienza, così come viene applicato nell’esortazione postsinodale Amoris laetitia, dove al n. 37 leggiamo: «Siamo chiamati a forma­re le coscienze, non a pretendere di sostituirle». Nella prospettiva paolina e in generale neotestamentaria, la coscienza è il sacrario dell’uomo, diremmo il suo “tabernacolo interiore”, che chiede di essere ascoltata e rispettata in ciascuno, anche qualora fosse erronea o frammentata. Il credente in Cristo ancora la propria coscienza alla parola di Dio e trova in essa il proprio “centro di gravità permanente”, che lo sottrae al disorientamento e alla frammentazione e quin­di lo porta a comportarsi non secondo il mondo, ma secondo la “grazia”. Quindi anche ad andare controcorrente per testimoniarla, a costo del martirio. Siamo allora in piena sintonia con l’insegnamento del Concilio Vaticano II. In relazione al clima del Concilio, mi piace ricordare a tal proposito l’intervento in aula del generale dei maristi Joseph Buckley, il quale ebbe a dire verso la fine della prima sessione (6 dicembre 1962): «Non bisogna partire dall’autorità, ma dalla persona libera e dalla coscienza». E il grande teologo Y. Congar, nel suo Diario del Concilio, annotava «oh, Newman!». La traccia più significativa di tale anelito la rinveniamo nel n. 16 di Gaudium et spes. Le discussioni sollevate dal fronte tradizionalista nei confronti dell’esortazione sinodale in fondo colpiscono l’insegnamento del Vaticano II e mostrano una radicata paura in chi ritiene che la morale debba rivolgersi esclusivamente alla dimensione oggettiva e statica della dottrina.

L’identità non teme il dialogo

Infine un ultimo ambito che mi preme sottolineare è quello che riguarda la libertà religiosa e il dialogo interreligioso, in particolare verso l’islam, sul quale il Concilio ha espresso una valuta­zione, che dovrebbe orientare i nostri rapporti con quel mondo. «La Chiesa guarda anche con stima i musulmani che adorano l’unico Dio, vivente e sussistente, misericordioso e onnipotente, creatore del cielo e della terra, che ha parlato agli uomini [...]. Se, nel corso dei secoli, non pochi dissensi e inimicizie sono sorte tra cristiani e musulmani, il sacro Concilio esorta tutti a dimenticare il passato e a esercitare sinceramente la mutua com­prensione, nonché a difendere e promuovere insieme per tutti gli uomini la giustizia sociale, i valori morali, la pace e la libertà» (Nae, 3). È questa visione simpatetica a guidare gli incontri di papa Francesco col mondo islamico e a dettare, ad esempio, la dichiarazione di Abu Dhabi.

L’appello accorato che il documento lancia, in particolare a quanti operano in campo culturale (intellettuali, filosofi, uomini di reli­gione, artisti, operatori dei media e uomini di cultura in ogni parte del mondo) intende muovere su tre direttrici condivise: 1) la cultura del dialogo come via; 2) la collaborazione comune come condotta; 3) la conoscenza reciproca come metodo e criterio. L’identità, infatti, non teme il dialogo e non si rinchiude in schemi ripetitivi e nell’autoaffermazione del sé, puntando il dito contro l’altro percepito come nemico e minaccia. La paura spesso ispira anche nei credenti in Cristo atteggiamenti di contrapposizione e un linguaggio violento e irrispettoso. Piuttosto che affermazione di sé, l’esclusione del dialogo esprime una grande fragilità e insicurezza rispetto al proprio stesso essere. Chi ha radici culturali e religiose profonde non teme né il dialogo, né il confronto e non vede l’incontro come una rinuncia e un impoverimento, ma come un arricchimento e un’occasione di crescita e di maturazione nella propria appartenenza. Non è difficile rinvenire in chi esprime il timore della perdita d’identità, un deciso atteggiamento di contrapposizione nei confronti della dottrina del Vaticano II, prima ancora che nelle scelte di papa Francesco.

La condotta della collaborazione comune si esprimerà nell’attenzione alla difesa dei diritti fondamentali delle persone, che nessuno può violare. Il documento si sofferma in particolare sul diritto alla vita e pensa soprattutto alle espressioni più fragili di essa: dal nascituro, al bambino, all’anziano, al morente. In particolare il diritto alla libertà religiosa chiede di essere custodito e salvaguarda­to in ogni situazione, in quanto i totalitarismi negano gli altri diritti a partire proprio dalla negazione di tale libertà fondamentale. Non possiamo dimenticare che il cammino della Chiesa cattolica verso il riconoscimento di tale libertà è stato lungo e faticoso e si è dovuto attendere il Concilio Vaticano II per vederlo a chiare let­tere affermato nella Dignitatis humanae, documento di profonda attenzione all’uomo, purtroppo contestato da quanti non l’hanno altrettanto a cuore.

La fede non è statica

Questo magistero scomodo attinge alla dinamica stessa della ri­velazione e viene sistematicamente contestato, non solo frainteso, da chi ritiene il dato di fede come qualcosa di statico. Così ad esempio, quando papa Francesco, facendo gli auguri natalizi alla curia romana, ha detto che Maria e Giuseppe sono diventati san­ti, ha subito incontrato l’opposizione di chi ha voluto vedere in questa espressione non l’invito a una Chiesa che «non può rima­nere statica» (Regina coeli del 26 maggio 2019), ma, in maniera subdola e fuorviante, la negazione del dogma dell’Immacolata. L’ossequio dei credenti al magistero ecclesiale non può esprimersi solo di fonte a un magistero risolutivo e di comodo, ma anche quando i gesti e le parole vengono a scomodare le nostre certezze per indicarci la via del Vero.