L’Europa che verrà

di 
Il lascito delle elezioni europee e amministrative dello scorso maggio è un’Italia a tinte sovraniste che rischia di rimanere isolata all’interno di un’Unione che è chiamata comunque a ritrovare le radici profonde del proprio essere.
 

In Italia i risultati delle elezioni europee hanno trovato amministrative che hanno interessato più di tremila comuni del nostro paese. Entrambe le tornate elettorali hanno visto la netta prevalenza del centrodestra “a trazione leghista”, la tenuta del Partito democratico e il crollo verticale del consenso al Movimento 5 Stelle. Non senza conseguenze sul piano Ue e sul piano interno. Chi temeva l’affermarsi dei partiti sovranisti al Parlamento di Bruxelles ha tirato un sospiro di sollievo nel constatare che il loro incremento di seggi è stato inferiore al previsto (non più di un quarto dell’intero Parlamento) e che vi sono evidenti difficoltà a coalizzarsi per i contrasti su punti sostanziali di politica estera e di politica economica.

È stato detto che questo tipo di opposizione spingerà i partiti europeisti «a superare la loro inerzia culturale oltre che il loro opportunismo politico» e che la novità è la formazione di «un nuovo baricentro europeo»: i tradizionali partiti (quelli di ispirazione popolare e quelli di ispirazione socialista), persa la mag­gioranza assoluta dei seggi, dovranno formare una coalizione con nuovi attori politici: democratici e liberali, assieme ai francesi di Renaissance (i seguaci di Macron) e (probabilmente) ai Verdi. Il successo dei Grünen, in Germania soprattutto, in Francia e in Finlandia, cresciuti in seggi rispetto alla passata legislatura, rappresenta probabilmente l’elemento di maggiore spicco nel quadro degli schieramenti europeisti, indicatore di sensibilità emergenti e di inediti protagonisti.

I partiti europeisti sono ora alle prese con il complicato processo di individuare le persone che nei prossimi cinque anni guideranno istituzioni molto più decisive per il continente di quanto sia acca­duto in passato: la costruzione di un organigramma che coinvolgerà il Parlamento europeo e il Consiglio europeo, dove siedono i capi dei governi nazionali democraticamente eletti. Trattative delicate perché si dovranno scegliere le persone che nei prossimi cinque anni affronteranno questioni cruciali per tutti i cittadini europei, a cominciare dal presidente della Banca centrale europea che, con Mario Draghi, ha contribuito in maniera determinante a superare la crisi dell’euro. Mentre chi sostituirà Jean-Claude Juncker alla presidenza della Commissione europea nel prossimo novembre dovrà affrontare guerre commerciali su due fronti (Cina e Usa); dovrà impegnarsi con decisione a frenare il declino dell’Europa sul piano tecnologico e su quello produttivo, rafforzando nel contempo il suo ruolo attivo sul fronte ecologista. E sarà pure impegnato a ridare fiato allo stato sociale, al welfare europeo, in difesa dei ceti più deboli, impoveriti dalla lunga crisi economico-finanziaria, e a contrastare la elusione fiscale delle grandi multinazionali (le Bigh Tech). E dovrà concordare inoltre una efficace politica dell’emigrazione che metta in condizione tutti i paesi di accogliere i nuovi arrivati, in base a quote proporzionali non solo condivise ma anche rispettate.

L’irruzione di nuovi soggetti politici in Europa ha rimesso in discussione anche le regole non scritte che sinora erano state adottate per il conferimento degli incarichi e si sta svolgendo un confronto serrato che vede, da una parte, i gruppi parlamentari e, dall’altra, il Consiglio degli Stati per rivendicare il diritto di dire l’ultima parola sulla personalità che occuperà la massima carica dell’esecutivo. La questione della governance della Ue ritorna al centro del dibattito: sono molti i motivi di frizione tra competenze del Parlamento, democraticamente eletto, e il Consiglio europeo dei capi di governo, più portati a considerare le ricadute all’interno dei singoli paesi e a far prevalere istanze di parte.

Il dopo elezioni lascia l’Italia ai margini di quanto si sta deciden­do in Europa. I due partner di governo fanno riferimento a raggruppamenti di minoranza nel Parlamento europeo e rischiano di rendere sempre più isolato il paese che è stato tra i fondatori dell’Unione. E già questo non è un buon avvio di legislatura: remota è infatti la possibilità che un italiano sia tra i commissari che contano, in grado di aiutare quando il nostro bilancio pubblico sarà valutato dalla Commissione a fine novembre. I continui attacchi all’Europa, alla Francia e alla Germania, rendono difficile raggiungere l’obiettivo. Il potere del governo di proporre un candidato ad un ruolo autorevole, trova una sua limitazione nel fatto che dovrà ottenerla dal Parlamento a maggioranza integrazionista e senza il sostegno dei principali paesi dell’eurozona. Tanto più che l’attuale Commissione europea nel suo rapporto sui conti pubblici degli Stati membri dell’Unione ha già considerato l’Italia un paese che non rispetta i criteri stabiliti per quel che riguarda il deficit e il debito pubblico e pertanto dovrà essere sottoposta a procedura di infrazione dalla prossima Commissione. Giudizio confermato dal Comitato economico e finanziario che raggruppa i direttori del Tesoro dei ventotto paesi Ue.

Gli effetti indotti dai risultati dalle elezioni europee e delle elezioni amministrative hanno dato più peso alla Lega e gravemente indebolito il Movimento dei 5 Stelle. L’attuale leader della Lega intende dettare contenuti e modi nei rapporti con la Ue; nessuna marcia indietro rispetto alle decisioni prese e da prendere: la sindrome sovranista sembra avere ancora una volta il sopravvento, nonostante la evidenza dei dati economico-finanziari. Il rischio di un’Italexit, di una uscita dalla zona dell’euro potrebbe essere l’esito finale di un confronto che non è mai decollato basandosi su elementi reali. Un paese che spende per pagare gli interessi del debito, più di quanto investa per finanziare cultura, scuola e università non prepara un futuro allettante per le nuove generazioni. Tra i rischi incombenti, il ridimensionamento del sogno europeista o addirittura l’implosio­ne dell’intera Unione europea. Un evento guardato con favore sia dall’America di Donald Trump sia dalla Cina di Xi Jinping.

Per continuare a sperare in una Europa maggiormente integrata non è sufficiente garantire il buon funzionamento economico-finanziario. Bisogna riprendere a chiedersi che cosa significhi essere europei. Come ha scritto Mauro Magatti in un editoriale su «Avvenire» del 29 maggio scorso, bisogna aprire e tenere alto il livello di una discussione culturale, prima che politica, il che comporta l’interrogarsi «su i nostri presupposti antropologici, spirituali, su i nostri comuni obiettivi di senso... discussione che è il vero convitato di pietra della questione europea». Comporta anche prendere atto che sta emergendo con forza il tema della sostenibilità dello sviluppo «capace di catalizzare interessi diversificati che potrebbero aiutare a qualificare il modello europeo». Un tema da affrontare «nella prospettiva di quella ecologia integrale di cui si parla nella Laudato si’».

In effetti, è più che mai utile ricordare che l’Europa «non è un insieme di regole da affermare, non è un prontuario di protocolli e di procedure da seguire. Essa è una vita, un modo di concepire l’uomo a partire dalla sua dignità trascendente e inalienabile e non solo come un insieme di diritti da difendere o di pretese da rivendicare». Sono parole di papa Francesco nel discorso ai capi di Stato e di governo dell’Unione europea in occasione del sessantesimo anniversario della firma dei Trattati di Roma, il 24 marzo del 2017. Il Papa ha citato subito dopo Alcide De Gasperi che poneva all’origine dell’idea d’Europa «la figura e la responsabilità della persona umana con il suo fermento di fraternità evangelica... con la sua volontà di verità e di giustizia acuita da un’esperienza millenaria». Da quest’affermazione discendevano come corollari «una solidarietà fattiva, l’apertura al mondo, il perseguimento della pace e dello sviluppo, l’apertura al futuro».

Di qui la urgenza di «una nuova ermeneutica per il futuro», a partire da quei quattro cardini; di una chiave interpretativa «che aiuti a discernere le strade della speranza, percorsi concreti per far sì che i passi significativi sin qui compiuti non abbiano a disperdersi, ma siano pegno di un cammino lungo e fruttuoso». Un invito pressante da accogliere e da far proprio dai cittadini del nostro paese, in particolare da chi si dice credente in un momento di incertezza della stessa comunità cristiana, non insensibile, in alcune frange, ai richiami di proposte troppo semplici per essere praticabili e di chiusure identitarie dettate dalla paura del nuovo e dell’inedito. Non va smarrita la memoria – è ancora un monito di papa Francesco – della fatica che costò «rimuovere quell’innaturale barriera che dal mar Baltico all’Adriatico divideva il continente... in un mondo che conosceva bene il dramma di muri e di divisioni». Era allora ben chiara l’importanza di lavorare per un’Europa sempre più integrata. Ma oggi?

(20 giugno 2019)