La cura dei beni comuni

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Come si fa a sentirsi comunità? Cosa induce le persone a sentirsi parte di una comunità? Dalla associazione Labsus una proposta rivolta a tutte le città italiane, grandi e piccole, a creare comunità condividendo attività di cura dei beni comuni,materiali e immateriali presentisul territorio, applicando il principio disussidiarietà.

Vorrei iniziare proprio dalle ultime parole del bellissimo discorso che il presidente Mattarella ha fatto alle Camere nel febbraio scorso, quando, dopo aver elencato i volti degli italiani che lui immaginava di vedere, ha detto: «Questi volti e queste storie raccontano di un popolo che vogliamo sempre più libero, sicuro e solidale. Un popolo che si senta davvero comunità».

Come si fa a sentirsi comunità? Cosa induce le persone a sentirsi parte di una comunità? Ovviamente ci sono molti modi, ma io vorrei raccontarvi del modo che noi stiamo proponendo in giro per l’Italia e che sta avendo un grande successo. Noi proponiamo di dar vita in tutte le città italiane, grandi e piccole, a comunità create condividendo attività di cura dei beni comuni, materiali e immateriali, presenti sul territorio, applicando il principio di sussidiarietà (Costituzione, art. 118, ultimo comma). Proponiamo di ricostruire il paese, come fece la generazione dei miei genitori nel dopoguerra, ma questa volta non investendo sulla produzione, sviluppo e consumo di beni privati, quanto sulla cura e lo sviluppo di beni comuni, materiali e immateriali. Non è affatto utopistico, perché in realtà questa ricostruzione è già in atto. Già migliaia e migliaia di cittadini si stanno prendendo cura dei beni comuni presenti sul proprio territorio, ma senza la consapevolezza – questo è il punto – che le loro singole e spesso isolate iniziative potrebbero far parte di un più ampio movimento di ricostruzione materiale e morale.

Ricostruzione materiale, in quanto i cittadini attivi si mobilitano per migliorare la qualità della vita propria e di tutti i membri della comunità, ma anche ricostruzione morale, perché in un paese governato da oligarchie spesso preoccupate soltanto di perpetuare i propri privilegi, il fatto che cittadini semplici, comuni, senza particolari competenze, si prendano cura dei beni di tutti come se fossero i propri, dimostra che c’è ancora senso di appartenenza, solidarietà, senso di responsabilità. Sostanzialmente dimostrano che – come diceva don Milani – la politica consiste nell’uscire insieme dai problemi, mentre uscirne da soli è avarizia. Non è un caso che «comune», da cui il termine «comunità», venga dal latino cum-munus, che vuol dire: svolgere un compito insieme. Le persone si conoscono veramente quando fanno qualcosa insieme. Noi vediamo in tutta Italia migliaia di persone che stanno «facendo comunità» svolgendo insieme un compito condiviso. Si danno un obiettivo – sistemare le panchine della piazzetta del quartiere, sistemare il giardino, sistemare la scuola dei propri figli –: in quel momento, intorno alla cura di quel bene comune, si crea una comunità.

Perché quello che voi vedete in un sabato mattina è che in uno dei tanti meravigliosi borghi d’Italia un gruppo di persone del quartiere scende nella piazzetta e sistema le panchine, la fontana, le aiuole. Voi vedete persone che fanno la manutenzione di un bene comune. Ma quello che veramente stanno facendo, che per me è essenziale, è che in realtà loro si stanno prendendo cura dei legami che tengono insieme la loro comunità. Stanno rinsaldando quei legami. Che ci sono già, magari; o se non ci sono li stanno creando. Stanno producendo capitale sociale. Hanno capito, queste persone, che dai problemi si esce insieme. E un primo problema che affrontano è quello che riguarda i beni comuni materiali e immateriali nel loro territorio.

Liberare le energie

Noi di Labsus diciamo che i beni comuni sono quei beni che, se arricchiti, arricchiscono tutti, se impoveriti, impoveriscono tutti. Quindi beni comuni materiali – acqua, aria, paesaggio, spazi urbani, territorio, biblioteche, musei – ma anche immateriali – legalità, salute, conoscenza, lingua, memoria collettiva. Non sono pubblici, perché non sono dello Stato, né privati. Sono di tutti, tutti possono goderne, ma godendone si consumano, si logorano. E quindi affinché sia noi, sia le generazioni future, possiamo continuare a goderne, è necessario che qualcuno se ne prenda continuamente cura. Noi pensiamo che la cura dei beni comuni vada affidata ai cittadini. Che i cittadini sono i primi soggetti interessati, come di fatto dimostrano di essere, a prendersi cura dei beni comuni.

E guardate che non è utopia. Se andate nel sito di Labsus, alla sezione «beni comuni», trovate centinaia di casi che noi abbiamo raccolto dal 2005 ad oggi e che sono solo una piccolissima parte di quello che sta succedendo. Da un anno sto girando l’Italia da Nord a Sud, e non faccio altro che incontrare platee di persone che non vedono l’ora di rimboccarsi le maniche per prendersi cura dei beni comuni dei luoghi dove vivono. Tutto questo si basa su un’antropologia positiva, perché parte dal presupposto che le risorse per curare e sviluppare i beni comuni ci sono ma continuano ad essere ignorate perché per farle emergere bisogna considerare le persone come portatrici non soltanto di bisogni, ma anche, se non soprattutto, di capacità.

Questo punto dell’energia da liberare è fondamentale, perché è come se in Italia ci fosse un coperchio che soffoca le nostre infinite energie e quello che noi stiamo cercando di fare con il nostro Regolamento sull’amministrazione condivisa di cui parlerò fra un momento è togliere il coperchio. Del resto nel suo discorso il presidente Mattarella ha detto anche: «Esistono nel nostro Paese energie che attendono soltanto di trovare modo di esprimersi compiutamente». È verissimo, lo vediamo tutti i giorni. E aggiungerei che vanno messe in campo non solo le risorse di noi cittadini italiani, ma anche di quei cinque milioni di cittadini stranieri che vivono e lavorano nel nostro paese e che prendendosi cura dei beni comuni del nostro paese si sentirebbero e sarebbero veramente cittadini. Sarebbe un fattore di integrazione importantissimo.

E poi ancor di più dobbiamo valorizzare le risorse straordinarie di quel milione di ragazzi e ragazze nati in Italia o arrivati qui piccolissimi che noi continuiamo a considerare come stranieri: è una follia, oltre che una profonda ingiustizia! Bisogna assolutamente integrare questi ragazzi e valorizzare al massimo tutte le capacità che loro hanno. In questo senso la cura dei beni comuni può diventare un terreno di integrazione molto concreta dei cittadini italiani per nascita, dei potenziali cittadini italiani e di quelli che si sentono italiani. Perché i ragazzi nati qui si sentono italiani.

C’è un altro profilo importante. Noi sappiamo tutti, perché lo vediamo ogni giorno, che la crisi ha impoverito vaste aree della popolazione, ha creato incertezze, paura verso il futuro, e alimentato il disprezzo verso le istituzioni della democrazia rappresentativa, che viene considerata non in grado di dare risposte ai bisogni e alle paure dell’opinione pubblica. Per contrastare questo distacco è cruciale rivitalizzare il senso di appartenenza alla comunità, attraverso la cura condivisa dei beni comuni oltre che, evidentemente, attraverso forme di democrazia partecipativa e deliberativa. Ma nella democrazia partecipativa e deliberativa si partecipa ad un processo decisionale; nella cura dei beni comuni si partecipa direttamente alla soluzione dei problemi. È come se nella cura dei beni comuni l’appartenenza diventasse qualcosa di molto concreto, che si tocca con mano.

E poi c’è il tema dell’impoverimento. Oggi noi siamo tutti, purtroppo, più poveri di beni privati. Tanto più allora dobbiamo investire sulla qualità dei beni comuni, perché dalla loro qualità dipende in gran parte la qualità delle nostre vite. Quindi dobbiamo accettare l’idea che dalla crisi usciremo comunque più poveri di beni privati ma – se vogliamo, perché dipende solo da noi – più ricchi di beni comuni.

Infine, il tema della cura condivisa dei beni comuni è importante politicamente perché è un tema intorno a cui noi italiani finalmente ci potremmo ritrovare al di là delle diverse ideologie o posizioni politiche, in quanto i beni comuni non hanno colore politico, non rientrano nelle categorie novecentesche di destra e sinistra. Questo non vuol dire che siano politicamente neutri, in quanto ci sono anche coloro che vorrebbero appropriarsi dei beni comuni per fini privatissimi, ma certamente non sono riconducibili alle divisioni politiche tradizionali.

Superare la burocrazia

Dicevo prima che non faccio altro che incontrare persone che non vedono l’ora di rimboccarsi le maniche per prendersi cura dei beni comuni dei luoghi dove vivono. Ma c’è un paradosso, per cui tutta questa gente sta facendo tutto questo in presenza di un principio costituzionale (art. 118, ultimo comma), che dice che i poteri pubblici devono favorire l’autonoma iniziativa dei cittadini per lo svolgimento di attività di interesse generale. E invece le istituzioni in larga misura fanno tutt’altro che favorire, anzi, a volte sono ostili o indifferenti. Perché gli amministratori locali (non tutti, ma molti) non applicano il principio di sussidiarietà e vedono nei cittadini attivi degli intrusi? Il motivo non è soltanto politico e culturale. Le regole ottocentesche del nostro diritto amministrativo costituiscono un ostacolo reale per gli amministratori che vogliono applicare la sussidiarietà e riconoscere nei cittadini soggetti portatori di capacità, alleati nella lotta contro la complessità quotidiana.

Se voi siete un funzionario pubblico di un comune italiano e fate una delibera con cui consentite a dei cittadini di entrare un sabato pomeriggio in una scuola per dipingere le aule, se qualcuno di loro si fa male o procura un danno, siete nei guai! Ma noi non possiamo pensare che per applicare un principio costituzionale i funzionari pubblici italiani debbano violare le leggi. Quindi, cosa abbiamo fatto? Da gennaio 2012 a febbraio 2014 abbiamo lavorato col Comune di Bologna, col totale sostegno della giunta e del direttore generale, per scrivere un regolamento comunale che traducesse in regole amministrative il principio costituzionale di sussidiarietà.

Noi abbiamo scritto delle regole che liberano energie, scaricabili dal sito di Labsus, in 34 articoli. Abbiamo lavorato per due anni nei quartieri di Bologna per scrivere un regolamento che possa essere adottato, come sta succedendo, da tutti i comuni italiani. Dal punto di vista tecnico-giuridico il testo dà ogni possibile garanzia, ma comunque è previsto che dopo un anno di applicazione in ciascun comune venga sottoposto a una verifica. Ad oggi 52 comuni italiani lo hanno adottato e 79 lo stanno adottando.

Spesso i burocrati comunali fanno resistenza, ma c’è una attenzione fortissima nei confronti del Regolamento. È come se noi avessimo dato risposta ad un bisogno che non sapeva di esserci. Quando gli abitanti di un paese o di un quartiere cittadino autonomamente si assumono la responsabilità di curare un vicolo, una piazza o un bene culturale, mettono in campo risorse e capacità di ogni genere. Il loro tempo è una risorsa, così come i mezzi di trasporto, gli strumenti di lavoro, le competenze professionali. E spesso queste persone condividono – per prendersi cura dei beni comuni del proprio territorio – delle risorse per noi italiani preziosissime, che noi di solito usiamo solo per la nostra cerchia familiare più o meno ristretta, che sono le relazioni sociali, i rapporti di amicizia, di vicinato. Essi condividono con l’amministrazione pubblica la responsabilità della cura di certi beni, mentre condividono con altri cittadini risorse per prendersi cura di beni per definizione condivisi come sono i beni comuni. Ma deve essere chiaro che i cittadini attivi non sono supplenti della pubblica amministrazione, non stanno rimediando a inefficienze dell’amministrazione, bensì sono suoi alleati nella lotta contro la complessità.

Prendendosi cura insieme di un bene comune del proprio quartiere, gli estranei che convivono in quel quartiere diventano un po’ meno estranei e poi magari addirittura amici e creano una comunità. È come se prendersi cura del bene comune fosse un catalizzatore per uscire dalla estraneità. Tutto questo va molto al di là degli effetti pratici della cura dei beni comuni. È un fatto di solidarietà. I cittadini attivi sanno benissimo che stanno facendo una cosa che sarà utile anche ad altri che non stanno facendo assolutamente nulla. Ma va bene così, non se lo pongono come un problema.

E tutto questo sviluppa quella cosa fondamentale che è la fiducia. Lo vedo andando in giro per l’Italia. Molto spesso dopo una conferenza le persone vengono e mi dicono: «La ringrazio perché lei ci ha dato fiducia». E noi abbiamo assolutamente bisogno di avere fiducia gli uni negli altri. Il paese non riparte se non abbiamo fiducia in noi stessi e nel nostro futuro.