Un micro report di viaggio, provando a intrecciare gli eventi, gli scenari, qualche dato e soprattutto le prospettive di Parole O_Stili, il progetto sociale di sensibilizzazione contro la violenza nelle parole, nato con l’ambizione di ridefinire lo stile con cui stiamo in Rete e per responsabilizzarci a scegliere con cura le parole che usiamo.
Parole O_Stili rappresenta probabilmente il movimento costruttivo di sensibilizzazione popolare sulle problematiche relazionali dell’era digitale più sorprendente degli ultimi anni. Sorprendente per gli stessi proponenti, partiti in pochi alla fine del 2016, per iniziativa di Rosy Russo, e ora immersi in una rete di supporto all’iniziativa che conta istituzioni cruciali come il MIUR, decine di aziende sensibili all’etica delle comunicazioni e soprattutto migliaia di persone attivamente coinvolte (solo gli insegnanti sono più di sedicimila). A distanza di due anni, dopo una serie di eventi, tra cui l’ultimo a Trieste lo scorso 7 giugno con un migliaio di partecipanti tra esperti della rete e persone impegnate nella formazione – e non solo – da tutta Italia, risulta difficile persino riferire dei numeri che esprimono, al di là di tutto, l’urgenza dei problemi segnalati e insieme un desiderio diffuso di passare dalla preoccupazione o dalla protesta alla proposta. Quello che si può forse tentare è una sorta di micro report di viaggio, provando a intrecciare gli eventi, gli scenari, qualche dato e soprattutto le prospettive.
La lettera di una mamma. È il 14 agosto 2016, e la sintesi degli inizi e insieme delle problematiche al centro di Parole O_Stili è nelle prime righe della mail con cui Rosy Russo ha chiamato a raccolta un primo piccolo gruppo di colleghi e amici. Rosy Russo è una professionista del mondo della comunicazione social, con lo sguardo di una mamma che ha sotto gli occhi quattro “tagli” delle nuove generazioni e un modo di fare disarmante e coinvolgente. La lettera iniziava così:
«Caro Giovanni, ti immagino in vacanza. Spero di non disturbarti. Parto da una riflessione molto personale e banale (anche alla luce dello sconforto di fronte a questo mondo che faccio fatica a comprendere), ma credo condivisa. Oggetto? L’uso delle parole in questo nostro mondo social… Troppo spesso improprio, scorretto, offensivo, sconveniente, sleale, impreciso, maleducato, lacerante, oltraggioso, diseducativo, inconsapevole del male o delle conseguenze che può generare… e la lista potrebbe continuare.
Mi sono interrogata su cosa potremmo fare noi professionisti della comunicazione per dire invece una parola giusta».
Che il problema non fosse sovrastimato lo dicevano già allora i molti casi drammatici di cyberbullismo in ambito giovanile e il visibile decadimento dello stile comunicativo in ambito politico e sociale. A queste percezioni, in capo a due anni, si sono uniti i dati delle ricerche, rese possibili proprio dalla crescita di consenso che l’idea di raccogliersi per fare qualcosa ha conosciuto tra i singoli e tra le istituzioni.
Qualche numero aggiornato. Di cosa stiamo parlando? Non stiamo scoprendo – ci mancherebbe – che la “maleducazione” o la capacità di ferire con le parole appartengano diffusamente a ciascuno di noi. Stiamo parlando di un trend di espansione, di “sdoganamento” dei modi aggressivi e offensivi, che impressiona perché è percepito come un problema crescente rispetto a cui ci si sente impotenti. Basta leggere questa sintesi della ricerca condotta da EU Kids Online per MIUR e Parole O_Stili per capire cosa sta accadendo nel mondo giovanile:
«Aumenta la percentuale di ragazze e ragazzi che vivono esperienze negative navigando in Internet: erano il 6% nel 2010, sono diventati il 13% nel 2017. Il 31% degli 11-17enni dichiara di aver visto online messaggi d’odio o commenti offensivi rivolti a singoli individui o gruppi di persone, attaccati per il colore della pelle, la nazionalità o la religione. Di fronte all’hate speech il sentimento più diffuso è la tristezza (52%), seguita da rabbia (36%), disprezzo (35%), vergogna (20%). Ma nel 58% dei casi gli intervistati ammettono di non aver fatto nulla per difendere le vittime».
Un monitoraggio ugualmente allarmante è stato quello realizzato in occasione della campagna elettorale del 2018, realizzato da Ipsos per Parole O_Stili, elaborando un indicatore sintetico di ostilità percepita unendo due variabili, la percezione di un linguaggio insultante da parte dei politici (l’indice di aggressività) e la percezione della diffusione di notizie false o non credibili (l’indice di falsità). A fine campagna, per il 76% del campione i candidati avevano utilizzato linguaggi aggressivi e offensivi e per il 78% degli intervistati avevano fatto ricorso a fake news o a distorsione di notizie per screditare gli avversari.
I numeri evidenziano il problema ma, evidentemente, non suggeriscono soluzioni. Parole O_Stili ha provato e sta provando a muoversi in questa direzione.
Dalla protesta alla proposta. Segnalare è importante per sensibilizzare, ma non basta. In Parole O_Stili c’è la consapevolezza che l’unica strada sensata per contrastare il trend di cui sopra è quella che passa per la formazione e la maturazione culturale. È una via faticosa, frutta solo sul lungo periodo e chiede investimenti di tempo e di risorse in azioni che vadano al di là dei grandi eventi (che pure ci vogliono per fare il punto, come in occasione dei due incontri triestini). Le risorse propositive messe in campo sono due: uno strumento di lavoro, il Manifesto per la comunicazione non ostile, e le collaborazioni formative.
Il Manifesto per la comunicazione non ostile. Difficile non aver ancora visto da qualche parte il Manifesto, con la grafica essenziale e insieme appariscente che lo caratterizza, quantomeno nei rilanci sui social media o in qualche istituto scolastico. I punti sono dieci, ma non è un “decalogo”. Si è insistito molto su questo punto: è importante uscire dalla logica delle deontologie e dei doveri – positiva, ma spesso troppo sbilanciata sul come fare e meno sul perché adottare un certo stile – per sollecitare invece una presa di coscienza, una riflessione su di sé, e offrire delle prospettive di impegno in prima persona. Il Manifesto è soprattutto uno strumento dinamico, che via via è stato declinato da diverse community nei rispettivi ambiti di azione (dalle aziende alla pubblica amministrazione alla stessa politica). E, cosa da non dimenticare, è stato tradotto in una ventina di lingue, a testimonianza del fatto che la “viralità” a livello internazionale funziona anche per le iniziative costruttive. Attorno a questo strumento si sono raccolte diverse professionalità, cercando di immaginare prospettive formative a partire dai diversi punti individuati e scelti in occasione dell’evento di avvio del 2017.
Le collaborazioni formative. Il Manifesto ha incontrato da subito la creatività degli insegnanti: sul portale di Parole O_Stili sono disponibili più di cento schede, scelte tra le proposte didattiche più innovative per intersecare la sensibilizzazione ai problemi della comunicazione online con i programmi curricolari. Non solo docenti di materie umanistiche, ma anche di materie sperimentali e tecniche si sono spesi per progettare e condividere micro-laboratori replicabili in ogni contesto di aula. A questo lavoro cruciale di diffusione territoriale si è affiancato lo sviluppo di una academy, che raccoglie un gruppo di formatori qualificati e disponibili a declinare i contenuti del Manifesto per la sensibilizzazione e l’aggiornamento di realtà istituzionali e aziendali, tenendo conto delle specificità e delle esigenze dei diversi contesti.
Le prospettive. Gli ambienti in cui si muove Parole O_Stili sono ormai quelli “offline” come quelli “online”, a riprova del fatto che – come suggerisce il primo punto del Manifesto – il virtuale è reale. Prosegue il lavoro di monitoraggio e di studio dei social media, che rimane importante per capire e far osservare l’evoluzione del fenomeno dell’ostilità nella comunicazione e nell’utilizzo delle parole. La sensibilizzazione rimane un compito primario, anche perché gli indicatori dicono che il rischio di assuefazione c’è: ci stiamo abituando all’insulto e alla parola violenta come modo culturalmente accettato di interagire, e su questo è importante mantenere viva la riflessione. Via via però che ci si sposta dall’impegno per la presa di coscienza a quello per la formazione, si sposta anche fisiologicamente il carico dall’online all’offline, o più precisamente: dalle relazioni mediate e sporadiche alle relazioni in presenza e in continuità. Questa probabilmente è la sfida più grande: attivare processi formativi che rimettano al centro la relazione educativa. Il lavoro degli insegnanti che hanno elaborato le schede didattiche va in questa direzione, ma forse più per il fatto che le persone si sono messe in gioco dentro relazioni e contesti di ordinaria interazione offline, che per il fatto di aver impostato in molti casi ottimi strumenti, idee e tecniche da condividere.
Cambiano i tempi, scompaiono gli analogici e rimangono i nativi digitali ma le dinamiche della crescita morale – perché in fondo di questo si tratta – rimangono quelle della nostra solita, cara, vecchia umanità.
Le ricerche scaricabili:
http://paroleostili.com/ricerche/eu-kids-online-per-miur-e-parole-o_stili/
http://paroleostili.com/ricerche/indice-di-ostilita-della-campagna-elett...