Pietro Scoppola, nella storia da laico credente

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Un cattolico democratico, un laico impegnato in politica, uno storico che non tralasciò mai la riflessione sul suo tempo: Scoppola è stato tutto questo e molto altro: «un cattolico a modo suo», con un’innata fiducia nella forza della libertà. L’inedita testimonianza di un amico e collega.
 

Quando lo conobbi, era ancora al Senato. Aveva appena pubblicato il volume sul modernismo, e io ero giunto al modernismo dopo aver pensato a una tesi sui padri della Chiesa. Ero alunno del Collegio Capranica, e avevo pensato a Murri dopo aver letto la tesi di Peronio, che accusava lo stesso Murri di eresia. L’argomento mi interessò, e chiesi udienza a Pietro Scoppola, che nel suo volume aveva dedicato un intero capitolo allo stesso Murri.

Dovevo depositare il titolo della mia tesi in teologia, e mi proponevo di depositare quel titolo: Romolo Murri eil modernismo. Ma volevo sapere se quel titolo aveva un senso.

Cercai dunque Pietro Scoppola: fu l’inizio di un’amicizia che è durata fino alla sua morte. Quando rientrai nella mia diocesi per poi passare a Parigi, a Roma avevo un appuntamento fisso: una sera a cena a casa di Pietro Scoppola. Vedevo la famiglia crescere (Pietro ha avuto cinque figli) e mi sentivo molto bene in quella casa.

Dopo cena si discuteva di tutto. Pietro era un tollerante su certe idee, ma non rinunciava a dire le sue su molti argomenti. Aveva un buon rapporto con i preti della sua parrocchia, che lo stimavano per la sua onestà intellettuale. Era stimato anche da Paolo VI: quando era previsto l’incontro dei cattolici italiani e Pietro era uno degli organizzatori, era stato anche uno degli organizzatori del no al referendum sul divorzio, nel 1974. E lo stesso Paolo VI era stato tirato in ballo. Pietro, in seguito a quanto si disse allora, pensò di dimettersi dal gruppo degli organizzatori. Ma intervenne Paolo VI e si oppose: disse che Scoppola era un cattolico a modo suo, ma era bene che restasse. Quello che disse il papa è diventato il titolo della sua breve autobiografia, scritta quando era prossimo alla morte.

Aveva la grande capacità di anticipare tutti i temi che avrebbero poi avuto largo spazio nella storiografia: anticipò gli studi sul modernismo, che ebbero in seguito tanta attenzione da parte degli studiosi; anticipò gli studi su Chiesa e fascismo e subito dopo gli studi su De Gasperi e la riforma della Democrazia cristiana, fondando con altri la Lega democratica nazionale.

Si muoveva nella storiografia come fosse a casa sua, con grande rigore morale e partecipazione; ma sempre senza fare polemica. Mi aveva sempre colpito il fatto che sapeva valorizzare, nei congressi, i giovani presenti, citandoli ed elogiandoli, se avevano scritto qualcosa che concernesse il tema di quel congresso. Lo faceva con grande stile, trovando modo di elogiarli, senza che ci si avvedesse della ragione per cui lo aveva fatto.

La sua fede era granitica, lo ha scritto egli stesso in quell’aureo libretto con cui ha concluso la sua vita, Un cattolico a modo suo. Chi volesse conoscere il meglio di Pietro Scoppola, lo consiglierei di iniziare da quel testo. Di fronte alla morte, non ci si può nascondere: e Pietro sapeva di essere giunto al capolinea.

Mi ricordo l’ultima volta in cui lo vidi. Era la metà di ottobre del 2007. Pietro non era portato a manifestare i suoi sentimenti. Ma quella volta fu diverso. Mi accompagnò alla porta, con grande fatica. Sulla porta mi disse, a me che prendevo appuntamento a fine mese: «Lo sai che in quel periodo non ci sarò più…». Con mio grande stupore, mi disse anche: «Abbracciami».

Fu l’ultima volta in cui lo vidi. A fine mese partecipai al suo funerale, in una concelebrazione presieduta dal cardinale Achille Silvestrini. Era ancora in Senato, come funzionario, quando, utilizzando quella biblioteca, iniziò le sue ricerche sul modernismo, tema che fino ad allora era condizionato dall’enciclica di Pio X, la Pascendi, e dal giudizio di don Giuseppe De Luca, che il modernismo italiano era solo fatto di rigovernature, a differenza di quello francese e inglese, dove dominavano le figure di Alfred Loisy e di George Tyrrell.

Con una ricca indagine, di cui sono prova i suoi archivi personali depositati presso l’Archivio Sturzo a Roma, riportò alla ribalta i diversi italiani accusati di modernismo, Buonaiuti, Murri, Minocchi, Fracassini e molti altri, che avevano dato un contributo significativo al passaggio da una mentalità tradizionale ad una mentalità critica, pagando di persona quei loro contributi. E ci si accorse che molti italiani avevano capito quali fossero le conseguenze dell’applicazione della mentalità critica ai testi biblici.

Soprattutto, introdusse la netta distinzione, nello studio del modernismo, tra l’analisi del contesto teologico e del contesto storico, due elementi che dovrebbero andare uniti, ma su quel particolare soggetto, e su altri, si era creata una netta divergenza. Sembrava che i teologi facessero la loro strada senza preoccuparsi delle conseguenze che ne derivavano. Erano in qualche modo tutti alunni del teologo Billot, professore di teologia dogmatica alla Gregoriana, e ne avevano tutti seguito il suo insegnamento, senza avere la sua intelligenza. Scoppola fu tra quelli che affermavano l’unità profonda tra storia e teologia, senza precludere i diversi metodi tra l’approccio teologico e l’approccio storico.

Lo stesso metodo lo applicò quando iniziò a studiare i rapporti tra Chiesa e fascismo, fino ad allora sbilanciati in favore dell’una o dell’altro movimento, così come si accostò alla figura di De Gasperi in un libro che fece discutere anche quanti erano contrari a quella figura. Quel libro fu preparato da diversi articoli dedicati allo statista tridentino. Tra l’altro, aveva avuto accesso all’archivio De Gasperi, col suo stile dimesso, ma che rivelava quel grande storico che era. Aveva iniziato a occuparsi di politica nel 1948, collaborando a «Politica d’oggi». Ebbe anche un confronto con don Primo Mazzolari e con il suo «Adesso», nel 1950. Nel 1976 avrebbe ripreso questo suo confronto scrivendo ancora su Mazzolari. Come fece nel 1979, in una forma di colloquio che durò tutta la vita.

Il suo apprendistato lo fece dedicandosi alla cultura cattolica nelle sue varie forme, preparando il volume Crisi modernista e rinnovamentocattolico in Italia, che vide la luce nel 1961. Ma già prima (1957) aveva dedicato un piccolo volume, che vide diverse edizio ni successive, a Dal neoguelfismo alla Dc, dove si lasciavano intuire i diversi temi che avrebbero costituito il volume sul modernismo. Si doveva rivelare uno dei più grandi storici del movimento cattolico. Ma spesso la sua grande capacità storica lasciava il posto alla sua militanza politica: ma è davvero possibile disgiungere le due mentalità, senza ingannare il lettore? Poiché la più grande mistificazione è quella di dire che la storia che si fa è una storia oggettiva. La storia non è mai disgiunta dallo storico: chi dice che quanto racconta lui è la storia come si è svolta, sta commettendo un grave errore. Basta confrontare vari manuali di storia contemporanea per averne la prova. Ognuno enfatizza quei fatti che secondo lui avrebbero determinato altri fatti, trascurando altri fatti che, secondo altri, avrebbero determinato gli eventi successivi. Anche la storia è sempre in fieri.

Anche il volume su De Gasperi venne preparato da altri scritti, fino a La proposta politica di De Gasperi, pubblicato da il Mulino nel 1977. Non vi era argomento della storia contemporanea che non implicasse qualche intervento di Scoppola: dal laicismo al centrismo, dai problemi della scuola ai rapporti tra società civile e società religiosa, dal direttore de «Il Popolo», Giuseppe Donati, alla crisi del pentapartito, alle riflessioni sul cattolicesimo francese, soprattutto su Maritain. Nel caso di Maritain, provò ad applicare il suo metodo nel contesto italiano, con una riflessione sfociata nel libro La “nuova cristianità” perduta. Si dedicò anche allo studio della Resistenza e della Costituzione, in un testo che venne elogiato da Alessandro Galante Garrone.

Questo lo portava a dire le proprie opinioni, senza preoccuparsi se in quel momento facesse storia semplicemente, o esprimesse delle opinioni; ma sempre con garbo, senza mai fare polemiche, anche quando sarebbe stato il caso.

Al suo mestiere di storico abbinò sempre la riflessione sulla storia del suo tempo. Per questo si impegnò, senza un visibile esito, alla riforma della Democrazia cristiana.

Collaborò al quotidiano «La Repubblica». Non aveva difficoltà a collaborare con «Avvenire»: ma il direttore di questo giornale gli disse che «per i noti motivi» non poteva mettere la sua firma sul giornale. Avendogli chiesto quali erano i noti motivi, si ebbe come risposta di non fare l’ingenuo. Scoppola morì senza mai avere saputo quali erano i «noti motivi».

Aveva una grande fiducia nella libertà, e ne scrisse molte volte. «Quel problema della libertà mi si è fissato nella mente (e nel cuore) e ha condizionato tutto il mio lavoro. Non ero certo insensibile ai temi sociali, che nella povera Italia uscita dalla guerra avevano aspetti drammatici, ma in questo campo non c’erano fratture storiche da colmare rispetto alla coscienza cattolica»: così scrive in quello che si può considerare il suo testamento.

Ma aveva anche una capacità di dialogare con tutti: la sua casa era a disposizione dei personaggi più diversi. Tranne un giorno della settimana, quando a casa sua o nella stessa casa, ma un piano di sopra, si leggeva la Bibbia, con la presenza di noti esegeti. Scoppola ebbe sempre una grande stima di quello che avrebbe potuto essere un suo collega in università, il prof. Vittorio Emanuele Giuntella: ed era a casa di questi che si affrontava la lettura della Bibbia.

È stato direttore della rivista «Il Mulino» e fondatore, con altri, di un’alta rivista, «Appunti di cultura e politica». Fu anche senatore, indipendente, nelle liste della Democrazia cristiana.

Anche in questo caso mi avvalgo di un ricordo personale. Ricordo che una sera eravamo in casa Scoppola, e vi era anche il prof. Ruffilli. Probabilmente erano già d’accordo di presentarsi come indipendenti alle elezioni. Ma quella sera era destinata a fare i piani, qualora fossero stati eletti. Cosa che poi avvenne. Con destini completamente diversi: il professor Scoppola morì a causa di un tumore, il professor Ruffilli divenne consigliere di De Mita, e in questo ruolo fece la fine che tutti sanno.

Aveva definito la politica come «valutazione razionale del possibile, e sofferenza per l’impossibile».

Ed era davvero sofferente per l’impossibile.

Fu ancora a casa sua che nacque l’Ulivo, in questo continuo alternarsi tra l’opera dello storico e l’opera del cattolico impegnato. Ma fu un impegno molto particolare: aveva in mente la riforma della Democrazia cristiana, convinto che i cattolici dovessero avere un partito attraverso il quale esprimersi in politica. Con lo stesso sguardo che fu quello di De Gasperi: un partito di centro che guarda a sinistra.

Lo aveva scritto poco prima di morire: «Con mia moglie, abbiamo fatto troppo poco per i poveri. Parlo dei poveri, non della povertà, perché la povertà è una cosa astratta e invece i poveri sono concreti. Ecco: io credo che espressione essenziale di una fede vissuta sia l’attenzione ai poveri, alle persone dei poveri».

Resta molto difficile classificarlo: un cattolico liberale, uno studioso del mondo cattolico, un laico impegnato, con un impegno derivato dalla sua famiglia e dalle sue scelte?

Forse sarebbe meglio dire che era un laico credente.

Fra i vari ricordi apparsi sui quotidiani, vale la pena ricordare le frasi con cui Eugenio Scalfari, il fondatore de «La Repubblica» cui, lo abbiamo ricordato, Pietro collaborava, concludeva il suo articolo esprimendo «il rimpianto di non averlo più con noi nel momento stesso in cui la sua presenza e la sua generosità intellettuale sarebbe stata preziosa, il timore che la sua scomparsa privi il pensiero e l’azione dei cattolici di un contributo essenziale. E il nostro giornale d’una voce che non sarà facile rimpiazzare. Al nostro modo laico anche noi oggi pensandolo e ricordandolo preghiamo per lui».

 

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Antologia

(Da Crisi modernista e rinnovamento cattolico in Italia, il Mulino, Bologna 1961, p. 362)

Alla fine dell’800 la crisi del positivismo e un’ora di smarrimento nella vita pubblica avevano acceso in molti spiriti il desiderio della religione. Alle origini del movimento di riforma vi fu indubbiamente il proposito di rispondere a questa attesa, di offrire l’immagine di un cattolicesimo vicino ai bisogni del tempo. La crisi del movimento, l’irrigidimento dell’autorità hanno fatto sì che quell’attesa sia rimasta senza risposta. La Chiesa ci sembra ha perduto un’occasione di avvicinarsi ad anime in cerca di una fede.

Il fallimento del tentativo di un rinnovamento culturale nel mondo cattolico ha contribuito d’altro lato, ad approfondire il fossato tra la Chiesa e la cultura del tempo: i cattolici sono rimasti, tranne qualche eccezione, estranei alla cultura del tempo e alla vita universitaria stessa del loro Paese. L’idealismo, nonostante la rumorosa opposizione di correnti irrazionalistiche, ha esercitato per lunghi anni una funzione di sostanziale monopolio nella cultura superiore italiana.

 

(Da Un cattolico a modo suo, Morcelliana, Brescia 2008, pp. 118-120)

Parlo della sofferenza, neppure del dolore, che è parola troppo nobile. La sofferenza di una malattia crudele. È una malattia orribile il tumore. Lo senti che ti corrode, che ti mangia da dentro, fa parte di te ma è contro di te. Ti curano ma le cure ti indeboliscono, ti distruggono, alla fine non sai se sono peggio del male.

Ecco. Voglio dire tutto il male possibile della malattia e della sofferenza che mi procura; sono uno straccio; il male ha attaccato – mi dicono – un linfonodo che non so che cosa sia e mi ha portato via la voce. La mia voce, quella con cui ho fatto tante lezioni… con cui ho parlato con tanta passione. Ecco non ho più la mia voce. Da qualche anno la vista si è indebolita e mi crea problemi. Adesso, non so se a causa della chemioterapia, sono diventato strabico.

Ma imprecare contro il male a che serve? Mi rendo conto che la rabbia è solo un male in più. Anche qui non giova prendere atto della realtà e vedere che cosa si può costruire su questo terribile condizionamento che è il tumore? Qualcosa si può costruire.

Lo sapevo già, ma ho realizzato e alla fine ho scoperto che c’è tanto dolore nel mondo di fronte al quale il mio dolore è una piccola cosa. Ho scoperto con più chiarezza l’affetto, la tenerezza dei miei. Ho avuto momenti di intimità spirituale con loro che non potevo immaginare. Perché il dolore (qui, sì, la parola si può usare) ci rende trasparenti.

E allora bisogna combattere con tutti i mezzi il dolore fisico che abbruttisce; e accettare e farci amico il dolore che umanizza.

Quando si soffre è una cosa bellissima sentirsi amati; è bello sentire e sapere che tanti ti vogliono bene. Poi se provi a guardare il crocifisso e a pregare, l’orizzonte si allarga all’infinito.

Ecco, la malattia mi ha ridotto in stato di assoluta povertà; non ho forze, non ho voce. Sono totalmente povero.

Con quel poco di fede che ho, posso affidarmi alle parole di Gesù: «Beati i poveri»?

I biblisti hanno scritto e discusso all’infinito sulle beatitudini. Ma sia che esse abbiano una valenza prevalentemente messianica, sia che indichino un atteggiamento spirituale, sia infine che indichino uno stato di povertà materiale, annunziano una preferenza del Cristo per la condizione di indigenza.

La sofferenza può essere via alla beatitudine?

Ma mi dibatto fra dolori per le ossa, insonnia dovuta al cortisone, depressione e una terribile debolezza che rende problematico ogni movimento. Come è difficile, Signore, sentire il tuo invito alla beatitudine in queste circostanze!