Tra le conseguenze della pandemia, la “miniaturizzazione” del territorio. Un cambiamento epocale che spinge a riprogettare spazi di lavoro condivisi che ridiano senso alle città; spazi che aumentino il benessere individuale e dove coltivare creatività e nuove forme di collaborazione.
Improvvisamente le grandi metropoli appaiono così: sovradimensionate. Come se indossassero un abito fuori formato, troppo grande e troppo largo.
A Milano, come a Londra o Parigi, i mesi di inattesa sospensione delle attività lavorative e pubbliche hanno lasciato un segno profondo. Molti alberghi sono rimasti chiusi, la pausa pranzo non vede più locali affollati, i taxi attendono mestamente l’arrivo di un cliente in lunghe file e sono ormai troppo numerosi per una domanda di mobilità che si è contratta drasticamente.
Il cambiamento è sotto gli occhi di tutti. Lo sentiamo nelle nostre vite, lo osserviamo intorno a noi. I grandi magneti territoriali, Milano, Roma, Firenze, che per decenni hanno vissuto di spostamenti, di flussi in ingresso, di mobilità delle persone, hanno perso la forza attrattiva a vantaggio delle città medie e piccole dei loro dintorni.
Infatti è stata proprio l’economia delle reti e dei flussi, della mobilità e del turismo, a essere colpita duramente dagli effetti indiretti della pandemia. Un fatto che ci costringe a pensare alla relazione tra economia e luoghi in modo diverso.
Abbiamo assistito ad una sorta di miniaturizzazione del territorio, che ci ha costretti a riscoprire relazioni locali, di prossimità, di vicinanza, a muoverci meno e a diventare più stanziali.
Tutte le popolazioni urbane hanno cambiato ritmo. Gli studenti universitari sono rimasti a casa, seguendo lezioni a distanza dai luoghi più lontani dalle città e in parte si apprestano a proseguire così anche nel semestre appena iniziato; si sono mossi meno i turisti, soprattutto gli stranieri che per anni hanno affollato le nostre città; persino quelli che un tempo il sociologo Guido Martinotti chiamava i city users, gli utilizzatori occasionali delle città (per shopping, tempo libero, cultura) sembrano avere cambiato molte delle loro abitudini settimanali.
Ovviamente l’impatto più rilevante sui contesti urbani l’hanno avuto però quei milioni di lavoratori – stimati tra i sei e gli otto – che nel 2020, secondo i dati dell’Osservatorio smart working del Politecnico di Milano, hanno lavorato fuori dalla propria abituale sede di lavoro. Se pensiamo che nel 2019 i lavoratori agili erano solo 570mila, capiamo che ci troviamo di fronte ad un esperimento sociale senza precedenti e in qualche modo irreversibile.
Un cambiamento epocale
Nei prossimi mesi si prevede che la metà di questi lavoratori continuerà a lavorare da casa in maniera continuativa. Molte aziende hanno adottato in maniera radicale e strutturale l’idea di un lavoro basato su obiettivi, mansioni e responsabilità da svolgere fuori dai tradizionali uffici e stanno ripensando in modo convinto il senso dei propri modelli organizzativi. Altre ne hanno colto soprattutto il vantaggio economico: meno buoni pasto, niente straordinari, nessuna indennità di trasferta e nel medio periodo una drastica riduzione degli spazi aziendali e di rappresentanza.
Un vantaggio immediato che in parte coincide con quello dei lavoratori. Rimanere a casa alcuni giorni alla settimana o in maniera stabile può costituire una grande occasione di revisione dei propri tempi di vita, può consentire di ridurre il numero di spostamenti casa-lavoro e favorire la conciliazione con le attività familiari.
È venuto in luce il paradosso dei grandi uffici raccontato da Jason Fried: abbiamo per anni costruito “luoghi per lavorare” già sapendo che in quei luoghi non saremmo riusciti a farlo al meglio. Basti pensare alla fascinazione collettiva per gli open space, spazi aperti e affollati, dove si viene continuamente distratti dalla presenza di altri che come noi cercano di lavorare, con grande fatica e reciproco disturbo. Oggi la questione appare paradossalmente rovesciata. L’improvvisa privazione di spazi di lavoro in comune ci pone domande di segno opposto. Riusciamo a immaginare un mondo in cui ciascuno lavora da solo, davanti ad un monitor, magari a casa, senza scambi diretti con colleghi e pari, né occasioni di confronto? Ovviamente no.
Vite, organizzazione familiare, tempi di vita, assetti delle città, crisi di alcuni settori economici e nascita di nuove economie, tutto è strettamente legato e richiede di essere ripensato.
Abbiamo ereditato dal passato assetti urbani organizzati intorno a relazioni di tipo spaziale: sia la città fabbrica che la città del terziario è definita da grandi contenitori di funzioni (uffici, banche, servizi) e con una separazione stretta tra tempo/spazio di lavoro e tempo/ spazio di vita.
Se però il lavoro individuale si svincola dal legame con luoghi collettivi, diventa mansione o obiettivo che ciascuno può svolgere altrove, in autonomia e isolamento, è evidente che gli impatti più forti li vediamo proprio nei contesti urbani prima più dinamici ed evoluti.
Che ne sarà di quelle decine di centri direzionali, palazzi di rappresentanza e grattacieli che le città hanno edificato negli ultimi decenni per dare visibilità e identità al lavoro collettivo? Si svuoteranno le città a vantaggio di territori più periferici, delle aree interne o del Sud del paese?
L’appello di fine estate del sindaco di Milano Beppe Sala, il suo illuministico richiamo a tornare al lavoro, ad un lavoro in presenza e dentro la città, seppure generoso e condivisibile, dimostra tutta la fatica di immaginare un altro modello di relazione tra abitare e lavorare e dimensione urbana. Nulla può tornare come prima, potremo solo capire in quale modo interpretare il cambiamento, come favorire nuove forme di socialità lavorativa, come evitare isolamento e frammentazione nelle nostre comunità.
Dobbiamo pensare “le città-fuori-dalle-città”, nelle loro relazioni lunghe con contesti territoriali più ampi, con le città medie, persino con le aree interne, tra Nord e Sud. E l’occasione è propizia.
Coworking e nuove forme di condivisione
In pochi mesi tempi di vita e tempi di lavoro sono molto cambiati. È almeno in parte finito quel mondo ordinato e scandito da tempi quotidiani (otto ore di lavoro, lunghi spostamenti, poi ferie e tempo libero), dalle stagioni della vita (occupazione poi pensionamento), da stipendio e risparmio (vita di lavoro e di sacrificio, di compromesso e di abnegazione e poi vita liberata dal lavoro in cui ci si può finalmente dedicare ai viaggi e alle proprie passioni). Si è allungato il tempo e l’aspettativa di vita e si sta ridefinendo un continuum di vita e di lavoro intrecciati, che caratterizzano la vita lavorativa e potenzialmente perdurano fino all’età più avanzata.
Questa più sfumata distinzione tra lavoro e vita non significa per forza un ritorno del lavoro dentro le mura di casa, come da tutti noi sperimentato con qualche fatica e costrizione nelle settimane di lockdown. Anzi, proprio la difficile sovrapposizione tra sfera familiare privata e attività professionali ha confermato la necessità di immaginare alternative allo spazio domestico.
Se questo è vero per tutti, lo è in primo luogo per le donne, per le quali è particolarmente urgente lavorare in luoghi diversi da quelli dove crescono i figli o si dedicano alle attività familiari. La perfetta sovrapposizione tra spazio di lavoro e casa può riguardare solo una piccola parte dei lavoratori e solo alcuni mestieri e alcune attività.
Sta già emergendo in molte città anche medio-piccole una forte domanda di spazi di lavoro condivisi, dove ricreare condizioni di lavoro e di socialità, di scambio e di mutuo aiuto, come nella tradizione del coworking, anche tra persone che svolgono lavori molto diversi tra loro.
Le città dovranno immaginare sistemi ibridi, facilitando il più possibile la condivisione di spazi extradomestici; le aziende dovranno valutare seriamente quali attività ciascuno potrà svolgere in autonomia e quali richiederanno condivisione e prossimità, progettando in forme più mature ed evolute il lavoro da casa (andando oltre il telelavoro. Dovranno capire in quali modi valorizzare e integrare le piattaforme di videoconferenza che offrono grandi potenzialità d’uso, ma che dimostrano anche, in modo evidente, l’indispensabilità della nostra presenza fisica nei luoghi di lavoro, per attività creative e di programmazione).
La soluzione non può essere che lavoro e scuola entrino in casa per rimanervi, ma che si aprano spazi di immaginazione per ripensare sia l’esperienza scolastica che il lavoro in forme molto diverse e libere.
Riprogettare spazi di lavoro condivisi è cruciale per ridare un senso alle città, spazi che aumentino il benessere individuale, ma anche dove coltivare creatività e nuove forme di collaborazione.