Il negoziato necessario per giungere alla pace

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Nell’era del nucleare e dell’interdipendenza planetaria asimmetrica che esaspera la conflittualità, il principale strumento per risolvere le controversie internazionali non può che essere il negoziato. Oggi ci si può difendere e fare giustizia con mezzi diversi dalla guerra, non soltanto giuridicamente illegittima, ma moralmente non giustificabile neppure come ultima ratio o male minore.

La strategia della deterrenza legata agli arsenali nucleari delle due superpotenze ha segnato la politica internazionale del passato, nello scorso secolo, anzi nello scorso millennio. Correva l’era del bipolarismo, dello scontro ideologico e militare tra Est e Ovest che ha provocato più di 150 guerre in 70 paesi con 20 milioni di morti. Conflitti combattuti tra i paesi in via di sviluppo e nei paesi in via di sviluppo. La deterrenza appartiene ad un’altra epoca. Oggi non è più in grado di dare stabilità al sistema.

Soltanto il negoziato, ancor più se multilaterale, può riportare un minimo di ordine nel sistema internazionale. Il 26 gennaio del 2022, papa Francesco al termine dell’Angelus afferma: «Faccio un accorato appello a tutte le persone di buona volontà, perché elevino preghiere a Dio onnipotente, affinché ogni azione e iniziativa politica sia al servizio della fratellanza umana, più che di interessi di parte». Nella lettera enciclica Fratelli tutti (2020) le parole di papa Francesco sono forti e chiare: «Il compito delle Nazioni Unite, a partire dai postulati del Preambolo e dei primi articoli della sua Carta costituzionale, può essere visto come lo sviluppo e la promozione della sovranità del diritto, sapendo che la giustizia è requisito indispensabile per realizzare l’ideale della fraternità universale. [...] Bisogna assicurare il dominio incontrastato del diritto e l’infaticabile ricorso al negoziato, ai buoni uffici e all’arbitrato, come proposto dalla Carta delle Nazioni Unite, vera norma giuridica fondamentale».

Nell’era del nucleare e dell’interdipendenza planetaria asimmetrica che esaspera la conflittualità, la negoziazione non può non passare da una condizione di subalternità rispetto alla guerra ad una di priorità, anzi di necessarietà. Gli Stati sono di fatto obbligati a negoziare, sia fuori sia dentro le organizzazioni internazionali. Parafrasando von Clausewitz in ottica irenica, possiamo dire che, in presenza di conflitto, il negoziato internazionale è oggi la naturale continuazione della politica con gli stessi mezzi.

Il Diritto internazionale dei diritti umani, che ha le sue radici nella Carta delle Nazioni Unite e nella Dichiarazione universale dei diritti umani, definisce la guerra come “flagello”, la ripudia. È un diritto per la vita e per la pace. È un diritto per la cura che opera all’insegna del detto si vis pacem para pacem.

Poiché oggi, diversamente che nel passato, ci si può difendere e fare giustizia con mezzi diversi dalla guerra, questa è non soltanto giuridicamente illegittima, ma anche moralmente non giustificabile neppure come ultima ratio o male minore.

Dinamiche del negoziato

Il principale strumento per risolvere le controversie internazionali è il negoziato, cioè quel processo attraverso il quale due o più parti combinano punti di vista diversi in un’unica decisione. Nella sostanza, il negoziato è una forma di comunicazione bilaterale o multilaterale destinata a produrre un accordo tra soggetti, in primis gli Stati, che posseggono allo stesso tempo interessi comuni e interessi opposti.

Perché un negoziato sia tale e non un “rito” simbolico, occorre che le parti siano portatrici di obiettivi flessibili e siano quindi disposte a modificare le rispettive posizioni iniziali. Durante i quarant’anni dell’era del bipolarismo, i negoziati cosiddetti “per il disarmo” tra i blocchi dell’Ovest e dell’Est – macro-attori ideocratici, quindi portatori di valori non flessibili – sono stati più “rito” che negoziato reale. L’obiettivo naturale del negoziato è quello di pervenire ad un accordo, formale o informale, tra le parti. 

In considerazione della densità e dell’estensione della prassi del negoziato nella vita di relazione internazionale, la relativa tipologia è molto ampia. I negoziati si distinguono innanzitutto a seconda delle situazioni reali da cui traggono origine: conflitto oppure complessità. Nel primo caso si tratta di trovare una posizione comune per far cessare il conflitto, nel secondo di gestire una situazione che crea difficoltà all’esercizio delle capacità di governo degli attori in campo.

Avuto riguardo al numero delle parti coinvolte, il negoziato si distingue in bilaterale e multilaterale. Disarmo, sicurezza (multidimensionale), cambiamento climatico e riequilibrio dei rapporti tra paesi a diverso grado di sviluppo postulano una struttura necessariamente globale di negoziato.

Se si fa riferimento all’area geografica di operatività del processo, i negoziati si distinguono in regionali, continentali, globali. 

Il negoziato può essere segreto (es. Yalta, febbraio 1945) o, più frequentemente, pubblico. Ovviamente non si può parlare di democrazia per le relazioni internazionali se persiste la pratica delle intese segrete.

A seconda dei contenuti, i negoziati si qualificano come economici, militari, culturali, umanitari, istituzionali, politici. Un nuovo tipo di negoziato è quello che fa interagire attori di diverse specie: Stati, organizzazioni internazionali intergovernative, networks di società civile globale, singole “autorità”. Tra i principali esiti negoziali, si ricordano la Convenzione di Ottawa per la messa al bando delle mine antipersona, lo Statuto di Roma che ha dato vita alla Corte penale internazionale, il Trattato per la messa al bando delle armi nucleari. Tutte le Convenzioni internazionali sui diritti umani sono il risultato di questa negoziazione tra attori pubblici e privati, intergovernativi e transnazionali, locali e internazionali. Questo tipo di negoziazione è il più democratico e trasparente, oltre che per il fatto di essere pubblico, anche e soprattutto perché consente la partecipazione di organizzazioni della società civile. È appena il caso di sottolineare che, nell’interazione negoziale, ciascun attore esercita un potere che non dipende soltanto dalla potenza dello Stato di cui è rappresentante (potere istituzionale), ma anche dalle sue proprie risorse. Un potere personale che si manifesta attraverso la capacità di comunicare, la simpatia, il bagaglio culturale, ma anche attraverso minacce, ricatti, promesse di ricompensa, appello al senso dell’etica e dell’onore, alla buona fede ecc. L’esito del negoziato può essere positivo o negativo, a seconda che si raggiunga o meno la posizione comune. Ma, come abbiamo ricordato sopra, può anche dar luogo a situazioni di stallo, nel senso di continuare indefinitamente come processo negoziale: in questo caso, è la continuazione temporale, più o meno produttiva, a costituire in quanto tale un esito. Un significativo esempio è quello del “negoziato” fra palestinesi e israeliani.

Riflessioni sulla possibilità di un negoziato tra Russia e Ucraina

Alla luce di queste premesse, ci domandiamo: esistono allo stato attuale del conflitto bellico le premesse per l’avvio di un negoziato tra Russia e Ucraina? Come dovrebbe essere il negoziato? Bilaterale o multilaterale, regionale o globale, territoriale o multidimensionale, solo intergovernativo o anche transnazionale, segreto o pubblico? Le parti sono portatrici di obiettivi flessibili e quindi aperte a modificare le rispettive posizioni di partenza? Oppure sono ideologicamente distanti e (ancora) incapaci di esprimere una effettiva volontà negoziale? La guerra in Ucraina, provocata dall’invasione russa, sta mettendo a repentaglio la pace e la sicurezza internazionale, anche in ragione del fatto che sono militarmente coinvolti, a fianco della stessa Ucraina, Stati Uniti e Unione europea. È del tutto evidente che un eventuale negoziato non potrà che avere un raggio d’azione globale e coinvolgere una pluralità di attori, statuali e intergovernativi, sopranazionali e transnazionali, economici e militari. Dovrebbe svolgersi sotto l’autorità dell’Onu, cioè di quella organizzazione internazionale multilaterale creata all’indomani della Seconda guerra mondiale per mantenere pace e sicurezza internazionale e che oggi è l’unica che continua ad esplorare possibili vie per aprire un negoziato.

Il dato di fatto è che nessuna delle due parti in guerra è in questo momento disponibile ad aprire un negoziato. L’Ucraina insiste sul suo piano di pace articolato in dieci punti. La Russia difende le sue conquiste territoriali.

Fin dall’inizio dell’invasione russa, gli stati membri dell’Ue e le tre principali istituzioni europee, Consiglio, Commissione e Parlamento, non hanno mai voluto assegnare all’Ue un ruolo terzo, si sono invece apertamente schierati per la guerra con la convinzione di poterla vincere.

Insomma, non c’è traccia di una seppur piccola volontà negoziale da parte dell’Ue e dei suoi Stati membri, della Nato e degli Stati Uniti. Ciò che questa leadership politica “occidentale” si ostina a non capire è che negoziare non vuol dire cedere alla guerra e alla legge della forza ma fermare la sua pericolosa escalation militare.

Diversamente dal passato, la nostra epoca ci offre un ventaglio di strumenti, in primis il diritto internazionale dei diritti umani e l’Organizzazione delle Nazioni Unite, idonei a risolvere pacificamente con il negoziato i conflitti e a prevenire la guerra, qualsiasi guerra. La loro efficacia dipende dalla conoscenza e dalla volontà politica di farli rendere. Nell’enciclica Pacem in terris, papa Giovanni XXIII indica tra i “segni dei tempi” l’Organizzazione delle Nazioni Unite (l’istituzione) e la Dichiarazione universale dei diritti umani (la legge).

Bandiera bianca, un invito al dialogo in tempi di conflitto

È in questa cornice che devono essere lette le parole di papa Francesco che tanto clamore hanno suscitato1. Nel diritto internazionale bandiera bianca è “un segnale esplicito di richiesta di colloquio”. Vuole dire “veniamo in pace”. Il fondatore del Diritto internazionale moderno, Ugo Grozio, ci dice che con il simbolo della bandiera bianca si vuole avviare un negoziato, non arrendersi. Ancora Grozio diceva che durante una guerra ci possono essere dei momenti di interruzione dei combattimenti. Li chiamava “isole di accordo nel mezzo di una belligeranza” e affermava che è possibile anche con i nemici. È questo il senso delle parole di papa Francesco: il nemico è sempre nemico, ma conserva lo status di interlocutore.

A livello universale con bandiera bianca si vuole segnalare al nemico la richiesta di una tregua, di trattative. Generalmente, chi la mostra indica di non essere nelle condizioni di sostenere l’offensiva del nemico. Le tregue servono per addormentare un conflitto, per ridurre il dispendio di sangue, per fare in modo che i combattimenti si interrompano. Per dare respiro alle persone che stanno soffrendo, per consentire ai malati di essere curati e l’accesso di aiuti umanitari. La tregua è la premessa per l’avvio di un negoziato.

Ma bandiera bianca è anche un simbolo citato esplicitamente nel diritto internazionale umanitario. Il modo in cui dev’essere utilizzata è formalizzato nell’articolo 32 delle Convenzioni dell’Aia del 1899 e del 1907 che, assieme alle quattro Convenzioni di Ginevra del 1949 e ai successivi Protocolli aggiuntivi, costituiscono la base del diritto internazionale umanitario. L’articolo specifica che chi si presenta con una bandiera bianca è «autorizzato da uno dei belligeranti a entrare in trattative coll’altro» e «ha diritto all’inviolabilità». È urgente l’apertura di un negoziato multilaterale serio, strutturato, concreto, onesto e coraggioso sotto l’autorità delle Nazioni Unite. Guardando al presente ma anche al futuro. Per fermare le indicibili sofferenze del popolo ucraino. Per scongiurare la catastrofe atomica. Per impedire l’esplosione di una nuova devastante crisi sociale e ambientale in Europa e nel mondo. Nessuno deve rassegnarsi alla guerra e alla corsa al riarmo. Nessuno deve piegarsi alle leggi della violenza.

Non esiste una violenza giusta così come non esiste una guerra giusta. Le guerre costituiscono una criminale sequela che ha le caratteristiche del circolo vizioso: guerra chiama guerra. Perché il cerchio si spezzi occorre che vengano meno gli attributi militari degli Stati-nazione, si affermino strutture democratiche di governo mondiale, si metta in funzione il sistema di sicurezza collettiva previsto dalla Carta delle Nazioni Unite, si renda obbligatoria per tutti gli Stati la giurisdizione della Corte internazionale di giustizia. Questa deve essere la bussola per i governi che vogliono porre fine alle guerre e costruire un ordine internazionale più giusto, equo, solidale e democratico.

Ma papa Francesco, rivolgendosi lo scorso 19 aprile nell’Aula Paolo VI ai seimila alunni e insegnanti della Rete nazionale delle scuole di pace, ci richiama tutti alla responsabilità individuale e collettiva: «Voi siete chiamati ad essere protagonisti e non spettatori del futuro. […] Tutti siamo interpellati dalla costruzione di un avvenire migliore e, soprattutto, che dobbiamo costruirlo insieme! […] Non possiamo solo delegare le preoccupazioni per il “mondo che verrà” e per la risoluzione dei suoi problemi alle istituzioni deputate e a coloro che hanno particolari responsabilità sociali e politiche. È vero che queste sfide richiedono competenze specifiche, ma è altrettanto vero che esse ci riguardano da vicino, toccano la vita di tutti e chiedono a ciascuno di noi partecipazione attiva e impegno personale. […] In questo tempo ancora segnato dalla guerra, vi chiedo di essere artigiani della pace; in una società ancora prigioniera della cultura dello scarto, vi chiedo di essere protagonisti di inclusione; in un mondo attraversato da crisi globali, vi chiedo di essere costruttori di futuro, perché la nostra casa comune diventi luogo di fraternità».

Note

1 Il riferimento è all’intervista rilasciata dal Santo Padre nel febbraio 2024 a Lorenzo Buccella, giornalista della Radio Televisione Svizzera (RSI) per il magazine culturale «Cli-ché». La trascrizione integrale (con alcune modifiche) è riportata sul sito dell’«Osservatore Romano» al seguente link: https://bit.ly/3yTkftc