La 50a Settimana sociale. Parole ascoltate, parole vissute

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La cinquantesima Settimana sociale dei cattolici in Italia ha portato al centro del dibattito il tema della partecipazione come cuore della democrazia. Un processo, più che un evento, acceleratore di partecipazione, aperto a tutti, che ha visto impegnati oltre milleduecento delegati, settanta buone pratiche e migliaia di visitatori.

Ogni esperienza nasce con una parola. Le parole, come ci insegna Rubem Alves, sono un cibo da mangiare: ci nutrono e nel nutrirci ci trasformano; mentre pensiamo di assimilarle, le parole ci assimilano. Mangiamo e siamo mangiati dalla parola. Mai da soli. La parola, come il cibo, è relazione e genera legami. Una volta pronunciata, la parola continua a rimbalzare da persona a persona, suscita echi e prende significati nuovi, cambiando tonalità con chi la pronuncia. La parola mette l’uno di fronte all’altro un “io” e un “tu”, diversi nella loro comprensione ma esposti al desiderio e alla possibilità di un “noi” condiviso. Da qui la forza trasformativa della parola, tanto più forte quanto più forte è il legame che crea fra le persone. La parola crea relazione e la relazione coltivata genera comunità. La parola raduna i diversi, crea narrazioni comuni, identità riconosciute, intese possibili. Un banchetto di cibi condivisi che raccoglie e fa crescere un popolo.

Le parole sono cibo per la vita: o entrano nella nostra bocca, nel nostro corpo, divenendo esperienza vissuta, suscitando emozioni, sogni, progetti, oppure si disperdono e restano sterili. Ogni esperienza significativa, come una buona pietanza, ha bisogno di tempo per essere preparata, assaporata, digerita, assimilata. Rileggere e assimilare un’esperienza è dunque un processo che richiede tempi lunghi e che, nella sua forza trasformativa, non è mai concluso. Un processo che non si può fare da soli, ma chiede di stare nella relazione. È la comunità che fa memoria della parola che diviene carne e ne trae, di volta in volta, significati ed esperienze nuove, attenta (ma non impaurita!) a non rompere il legame misterioso e potente con il suo fondamento.

Che cosa, dunque, abbiamo gustato e assaporato nella Settimana sociale di Trieste? Quali parole ci hanno penetrato e nutrito? Quali assimilazioni stanno avvenendo in noi? Quali sogni, progetti, desideri stanno germinando? Si tratta, evidentemente, di domande tanto importanti quanto resistenti ad ogni risposta frettolosa, domande bisognose di una paziente digestione. Ma, come ci insegnano gli antichi, prima digestio fit in ore. A poche settimane dalla cinquantesima Settimana sociale dei cattolici in Italia non è, dunque, prematuro iniziare a chiederci che cosa abbiamo ricevuto e gustato.

Le parole ascoltate

La parola chiama, la parola insegna, la parola genera. La parola che ci ha convocato a Trieste è, naturalmente, “democrazia”. Al cuore della democrazia. Partecipare tra storia e futuro è stato, infatti, il tema prescelto per la cinquantesima Settimana sociale. Una parola la cui negazione, meno di un secolo fa, portò al dramma dei totalitarismi, delle guerre e degli stermini di massa. Una parola che oggi abbiamo bisogno di ascoltare di nuovo, “ri-alfabetizzandoci alla democrazia”, come ci ha invitato a fare il presidente Mattarella nel suo discorso di apertura, per comprenderla e assimilarla nella sua essenza, nel suo cuore. Un cuore che il Santo Padre, concludendo la Settimana sociale, ha definito “malato”, “infartuato” e “bisognoso di cura”. Ma che cosa è la democrazia e perché è tanto importante?

I requisiti minimi affinché un regime possa definirsi democratico li ha ricordati il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, richiamando la lezione di Bobbio: tutela del pluralismo, separazione dei poteri, diritti delle minoranze, rispetto della dignità e della libertà di tutti. La democrazia non è, dunque, solo il governo della maggioranza votata dagli elettori e neppure un insieme di regole per il buon funzionamento delle istituzioni. «Al cuore della democrazia [...] vi sono le persone, le relazioni e le comunità a cui esse danno vita, le espressioni civili, sociali, economiche che sono frutto della loro libertà, delle loro aspirazioni, della loro umanità: questo è il cardine della nostra Costituzione»1 . Essa non si limita a definire i tratti di una «democrazia formale» ma esige una «democrazia sostanziale» la quale, secondo l’insegnamento di Giuseppe Dossetti, implica il «vero accesso del popolo e di tutto il popolo al potere e a tutto il potere, non solo quello politico, ma anche a quello economico e sociale». Una linea di riflessione ripresa e approfondita, in assemblea plenaria, da Michele Nicoletti e da Filippo Pizzolato.

Dopo aver richiamato le principali sfide che le democrazie devono oggi affrontare, Nicoletti ha ricordato che il valore della «democrazia non si misura in primo luogo sull’efficienza»: in determinate circostanze altri regimi possono essere, nell’immediato, più rapidi ed efficienti. «Ma la democrazia è quella forma del vivere assieme di persone che si vogliono libere e che vogliono essere protagoniste nel determinare le scelte fondamentali della loro esistenza e il destino delle loro comunità».

Pizzolato, a sua volta, ha messo in luce che la partecipazione è il vero fine della vita democratica, alla quale la rappresentanza politica è ordinata come servizio “capacitante”: «La partecipazione costituzionale che è insieme veicolo e manifestazione di fioritura dell’umano e delle differenze con cui il popolo sovrano si esprime. Al cuore del progetto costituzionale è posta la partecipazione orientata all’umanizzazione dei rapporti sociali ed economici. La partecipazione non è ricapitolata integralmente entro una dimensione immediatamente politica, proprio perché non esaurisce la sua funzione nella preparazione della decisione; essa è essenzialmente espressione di creatività e alimento di rapporti sociali». Al cuore della democrazia, dunque, la partecipazione.

Compito prioritario della politica è quello di rimuovere gli ostacoli alla partecipazione, senza assorbirla in sé ma riconoscendola e valorizzandola, secondo un principio di sussidiarietà orizzontale. Una partecipazione che può prendere piede proprio a partire dai territori e dalle amministrazioni locali dove è più facile accorciare le distanze e valorizzare la trama di una democrazia a chilometro zero, ma che poi deve assumere rilievo anche su scala nazionale, anzitutto grazie ad un radicale processo di rinnovamento democratico dei partiti.

La partecipazione riflette, come ha sottolineato Annalisa Caputo, il paradosso della democrazia: una democrazia costitutivamente fragile, perché per inverarsi ha bisogno di includere tutti, anche le persone più fragili, abitando i luoghi del conflitto e dell’emarginazione, poiché «il luogo della fragilità è il luogo della responsabilità» (Ricoeur). Da qui l’esigenza di creare e difendere, nel deserto di una società sempre più liquida e individualista, le «oasi del noi» dove coltivare la trama di un’amicizia sociale che diventa scuola di democrazia, in cui la persona sperimenta che il proprio bene cresce con il bene dell’altro.

Ma si tratta, come ha messo in luce Mara Gorli, di un risultato tutt’altro che scontato. La cultura e l’esperienza del “noi” è ambivalente e può degenerare in forme di gregarismo e di conformismo, che penalizzano la libera espressione della persona e generano una cultura conflittuale e violenta verso l’esterno. Da qui l’importanza di coltivare l’arte della collaborazione, formando non solo leader inclusivi, capaci di ascolto e di mediazione, ma anche follower consapevoli ed autonomi nel loro giudizio, capaci di partecipare e mettere in gioco i loro talenti. Occorre anche un’opera educativa per depurare il nostro immaginario “individualista”, con i suoi schematismi che inevitabilmente bloccano la creatività sociale e la capacità di collaborare, e generare nuovi immaginari, per pensare il futuro a partire dal noi.

Nel suo discorso finale ai delegati papa Francesco ha invitato a ripensare l’orizzonte della politica a partire dal noi. Il noi del popolo: «La fraternità fa fiorire i rapporti sociali; e d’altra parte il prendersi cura gli uni degli altri richiede il coraggio di pensarsi come popolo. Ci vuole coraggio per pensarsi come popolo e non come io o il mio clan, la mia famiglia, i miei amici. Purtroppo, questa categoria – “popolo” – spesso è male interpretata e, potrebbe portare a eliminare la parola stessa “democrazia” (“governo del popolo”). [...] È molto difficile progettare qualcosa di grande a lungo termine se non si ottiene che diventi un sogno collettivo. Una democrazia dal cuore risanato continua a coltivare sogni per il futuro, mette in gioco, chiama al coinvolgimento personale e comunitario. Sognare il futuro. Non avere paura». Un invito, quello del Papa, a prendere sul serio la partecipazione, non facendone una teoria, ma sperimentandola insieme come popolo che cammina. Senza ricercare privilegi, senza preoccuparsi di occupare spazi, ma avviando processi capaci di futuro. Un invito, in particolare, rivolto ai cristiani a prendersi cura della democrazia, a offrire il proprio contributo, come già in passato, per una democrazia partecipata, popolare, inclusiva, ad alta intensità, a passare con coraggio dall’impegno sociale alla carità politica: «Questo è l’amore politico, che non si accontenta di curare gli effetti ma cerca di affrontare le cause. Questo è l’amore politico. È una forma di carità che permette alla politica di essere all’altezza delle sue responsabilità e di uscire dalle polarizzazioni, queste polarizzazioni che immiseriscono e non aiutano a capire e affrontare le sfide. A questa carità politica è chiamata tutta la comunità cristiana, nella distinzione dei ministeri e dei carismi».

Democrazia, persona, libertà, partecipazione, fragilità, responsabilità, collaborazione, formazione, noi, popolo, processo, amicizia sociale, amore politico. Queste le parole che abbiamo ascoltato a Trieste. Quali parole abbiamo vissuto?

Le parole vissute

A Trieste abbiamo sperimentato qualcosa di nuovo e di inedito, possibile solo grazie al generoso impegno di tante persone, buone pratiche, volontari, istituzioni laiche e religiose.

Un’esperienza di popolo: variegata, plurale, gioiosa, musicale, colorata. Tante le persone, le famiglie, i giovani, le associazioni, i movimenti, i delegati, gli amministratori, i vescovi, sacerdoti e religiosi che hanno partecipato, ognuno portando il suo stile, la sua esperienza, la sua storia, senza un piano prestabilito, ma con un canovaccio, che ognuno ha potuto interpretare come sapeva e desiderava fare. Spazi aperti, dove il vento di Trieste, leggero in estate, poteva soffiare con libertà e il sole scaldare senza bruciare troppo.

Una città accogliente, ricca di storia e non priva di ferite, che si è spalancata per accoglierci da tutta Italia, che si è mostrata per quella che è, con le sue tante bellezze e i suoi drammi passati e presenti, non ultimo quello dei migranti che arrivando dalla rotta balcanica trovano qui il loro primo approdo e possono tornare a coltivare un sogno di futuro.

Nei Villaggi e nei Dialoghi delle buone pratiche abbiamo scoperto la bellezza di tante storie: pratiche di partecipazione, di amicizia sociale, parole che diventano carne, cibo ben preparato e condiviso. Ma abbiamo sperimentato anche la realtà di un incontro possibile fra diversi, di una lingua comune che possiamo parlare, della gioia che scaturisce dallo scoprirsi fratelli, popolo in cammino. Non un incontro patinato ma attento a riflettere la realtà di un mondo che chiede cura e presenza, portando l’esperienza di tanti territori che, anche in Italia, soffrono il peso dell’illegalità, dell’abbandono, del mancato sviluppo, dell’incuria, della devastazione ambientale. Non un incontro fine a sé stesso, autoconsolatorio, ma orientato a individuare possibili sinergie e collaborazioni, a costruire reti, per una politica che accorci la distanza tra i cittadini e le istituzioni, ascoltando la voce di chi, nella società, nei territori, si prende cura dell’altro e costruisce un “noi” più grande.

Nelle Piazze della democrazia abbiamo sperimentato la presenza in mezzo a noi di esperti e testimoni capaci di illuminare e dare senso ad una realtà che a volte ci sfugge, sembra ostaggio di opposte narrazioni, e resiste ai nostri tentativi di comprensione e di trasformazione. Voci e volti di persone in ricerca di una verità e di una strada per il bene comune; semi di una politica non urlata, capace di proporre soluzioni che vanno oltre gli schemi delle ideologie e delle convenienze partigiane.

Nei Laboratori della partecipazione abbiamo sperimentato un metodo per lavorare insieme, ascoltare ed essere ascoltati, senza parlarsi addosso, andando all’essenziale, cercando ciò che unisce e ciò che vale di più, per fare emergere non più la mia e la tua idea, ma il nostro comune desiderio di essere qualcosa insieme e tessere qualcosa che fino a ieri non c’era, per condividere le nostre fatiche e dare forma alle nostre speranze. Sfide, raccomandazioni e proposte. Ne sono emerse centinaia, grazie all’esperienza, alla competenza e al contributo di ognuno. Un materiale ricco che adesso potrà essere presto ripreso e offerto a tutti per continuare a camminare.

Trieste, 3-7 luglio 2024. 50a Settimana sociale dei cattolici in Italia. Parole ascoltate. Parole mangiate. Parole vissute. Insegnamenti, esperienze, processi. Strade aperte che ci chiedono energia, coraggio, amore per essere percorse.

Nota

1 Questo e tutti gli altri testi delle relazioni citate sono consultabili sul sito delle Settimane sociali: https://www.settimanesociali.it/.