Interrogativi sulle riforme istituzionali

di 

Le riforme istituzionali attualmente in discussione, in merito a premierato e autonomia differenziata, destano alcune perplessità. È essenziale un dibattito costruttivo e condiviso che sia in linea con i principi costituzionali, per rafforzare la democrazia e contrastare il populismo, promuovendo una maggiore partecipazione e vigilanza critica dei cittadini.

Il sistema democratico in Italia, da qualche tempo, non gode certo di buona salute, come dimostra anche il continuo aumento dell’astensionismo e una latente diffusa sfiducia di molti cittadini nella politica. Si tratta peraltro di un processo di indebolimento comune a molte democrazie contemporanee, alle prese sia con le inadeguatezze delle procedure e dei programmi di governo, sia con pericolose derive populistiche dei leader o delle oligarchie al potere, a fronte di una crisi profonda dei partiti tradizionali come strumenti essenziali di mediazione e luoghi di partecipazione alle scelte politiche. Nel contempo, sembra prevalere una atomizzazione della società a causa anche delle dinamiche aperte dalla comunicazione digitale dei social e dallo strapotere delle big tech che, per molti versi, condizionano gli Stati e debilitano la rappresentanza politica, con le scorciatoie fuorvianti dei like nella ricerca del bene comune e nella gestione di questioni oggettivamente complesse sul piano sia interno che internazionale.

Di qui, a maggior ragione, la necessità di riflettere su metodo e merito per interventi riformatori volti a migliorare la governabilità e ridurre la distanza tra classe politica e cittadini, anche se appare certo fuori luogo l’affermazione dell’attuale Presidente del consiglio sulla necessità di «rivoltare l’Italia come un calzino». Ed è essenziale interrogarsi e discernere sulla reale portata e sull’adeguatezza delle riforme istituzionali di cui si sta discutendo, fermo restando che non si tratta certo dell’unica strada per combattere il populismo e irrobustire una politica coerente con i valori portanti delineati nella Costituzione della Repubblica, che richiederebbero in ogni caso una cura consapevole e un impegno serio e costante nelle varie sedi che possono concorrere alla formazione politica e alla democrazia.

Limitando qui l’attenzione alle due principali prospettive di riforma attualmente in discussione, si deve ovviamente distinguere quella che mira a modificare la forma di governo parlamentare prevista nella Carta, puntando ad un premier eletto direttamente dai cittadini, con una conseguente deminutio del ruolo sia delle Camere che del Presidente della Repubblica, da quella volta a rafforzare l’autonomia di alcune Regioni ordinarie interessate, in attuazione di quanto prefigurato nel III comma del vigente art. 116. Due obiettivi sostanzialmente di segno opposto, ma tenuti insieme da una sorta di scambio politico interno all’attuale maggioranza al governo, che sembrerebbe orientata a sostenere il paradosso del rafforzamento di talune autonomie territoriali, dando vita nel contempo ad un forte rafforzamento del potere esecutivo al centro del sistema nazionale.

Tra premierato...

Quanto al cosiddetto premierato, considerato dai promotori la madre di tutte le riforme, si può qui solo accennare sinteticamente ad alcuni nodi e incognite – evidenziati anche dalle numerose audizioni di costituzionalisti – che rendono assai problematico il testo approvato in prima deliberazione dal Senato il 18 giugno scorso, pur in qualche aspetto emendato rispetto alla originaria proposta governativa. Va in effetti osservato che – con un rovesciamento di prospettiva, che legherebbe la rappresentanza parlamentare al premier eletto, alterando la stessa libertà di voto per le Camere ex art. 48 Cost. – è stato prefigurato un modello di premierato assai anomalo rispetto ad altri finora sperimentati altrove, senza una adeguata attenzione alla questione essenziale di una equilibrata divisione dei poteri e ai pesi e contrappesi che dovrebbero essere comunque salvaguardati in un sistema democratico per tenerlo al riparo da tentazioni di investiture plebiscitarie.

La nuova forma di governo sarebbe giustificata da esigenze di stabilità quinquennale del vertice del potere esecutivo, con una semplificazione dei ruoli istituzionali che finisce per collegarsi all’idea di una sorta di democrazia del capo più che di un Presidente del consiglio leader parlamentare. Oltretutto con la previsione sia di una oscura – e per certi versi contraddittoria – norma antiribaltone legata ad un eventuale premier bis, non eletto ma addirittura più forte, sia di un sistema elettorale, per la prima volta regolato in Costituzione, volto a garantire a supporto del vincitore un premio su base nazionale, con una maggioranza dei seggi in ciascuna Camera, senza alcun limite minimo per conseguirlo.

Davvero una forzatura assai innovativa e rischiosa rispetto all’assetto attuale, che oltretutto i promotori stanno approvando senza ricercare mediazioni in grado di allargare il consenso ad almeno i due terzi dei parlamentari, in modo da evitare la prospettiva di un referendum assai divisivo in una materia costituzionale assai delicata, concernente le regole del gioco su forma di governo e divisione dei poteri, in cui si dovrebbe ovviamente perseguire il massimo consenso possibile. D’altra parte, è appena il caso di aggiungere che l’obiettivo – largamente condivisibile – di stabilizzare il governo si potrebbe più agevolmente realizzare restando nell’attuale sistema parlamentare, soprattutto agendo sulla legge elettorale, preferibilmente con doppio turno e ballottaggio, salvo un ritocco costituzionale per precisare alcuni poteri del Presidente del consiglio e la sfiducia costruttiva, adottata positivamente ad esempio nell’ordinamento tedesco.

...e autonomia differenziata

Perplessità di altra natura vanno poi evidenziate sul regionalismo differenziato che la recente legge Calderoli mira a realizzare, aprendo la possibilità di una ampia maggiore autonomia legislativa e amministrativa per le Regioni che lo richiedessero, con connessa dotazione finanziaria, in ben ventitré materie, tra cui molte assai rilevanti dal punto di vista del godimento dei diritti civili e sociali e della tenuta unitaria del sistema (tra cui istruzione, tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, tutela della salute, protezione civile, grandi reti di trasporto e di navigazione, trasporto e produzione dell’energia, armonizzazione dei bilanci e della finanza pubblica e del sistema tributario). Almeno un accenno alle principali osservazioni, senza qui soffermarsi sulle problematiche connesse agli obiettivi e all’ammissibilità delle due iniziative referendarie in itinere volte all’abrogazione totale o parziale della suddetta legge Calderoli.

Anzitutto per sottolineare che, con questa impostazione, ci si allontanerebbe dalla logica sottesa alla previsione costituzionale, volta a riconoscere eventuali spazi autonomi aggiuntivi sulla base di intese Stato-Regione per ipotesi specificamente legate a situazioni e vocazioni regionali, e non un sistema regionale arlecchino – aldilà delle asimmetrie e di qualche privilegio già riconosciuto alle Regioni a statuto speciale –, che sarebbe problematico anche dal punto dell’effettività del principio di eguaglianza sostanziale dei diritti da riconoscere a tutti i cittadini della Repubblica, indipendentemente dalla loro appartenenza regionale. Va poi detto che verrebbe di fatto sconvolto l’assetto del regionalismo cooperativo previsto in Costituzione, con complicazioni multiple tra centro e periferia nell’assetto di competenze, risorse e uffici, dando spazio ad una logica competitiva estranea al fondamentale principio autonomistico sancito dall’art. 5 della Carta.

Infine, ma non certo da ultimo, va chiarito che eventuali limitate varianti nell’attuazione del decentramento alle Regioni di talune funzioni statali dovrebbero essere decise – coinvolgendo realmente il Parlamento – solo una volta finalmente regolato in modo organico quanto previsto in via generale dal nuovo titolo V della Costituzione, in ordine sia ai livelli essenziali delle prestazioni pubbliche esigibili e finanziate, da garantire a tutti, sia ai meccanismi di perequazione finanziaria in grado di assicurare la coesione nazionale, come previsto espressamente dall’art. 119, superando la logica deresponsabilizzante della spesa storica. E una volta definito altresì il quadro delle funzioni fondamentali da riconoscere direttamente alle autonomie locali, ad evitare i rischi ricorrenti di centralismi regionali in contrasto col principio di sussidiarietà.

Emerge, in definitiva, un quadro assai problematico sulle riforme istituzionali in discussione, per cui sarebbe auspicabile che si realizzasse effettivamente un confronto in chiave costruttiva, senza arroccamenti della contingente maggioranza di governo, in vista di soluzioni il più possibile condivise, in sintonia con lo spirito originario della Costituzione repubblicana. E si può aggiungere che, a tal fine, sarebbe da riprendere e disciplinare finalmente in modo adeguato anche quanto ventilato fin dal 2001, ossia il superamento del bicameralismo paritario con la creazione – accanto ad una Camera responsabile della fiducia al Governo – di un Senato rappresentativo delle autonomie di diverso livello, punto di riferimento essenziale per regolare il ruolo di ciascun soggetto e i rapporti interistituzionali di cooperazione e di coordinamento. Quindi una serie di interventi sul piano istituzionale per adeguare e rendere più funzionale il sistema democratico, mettendolo nel contempo al riparo da involuzioni populistiche, se non autoritarie. Con la consapevolezza, comunque, che la democrazia non è una condizione naturale o un beneficio acquisito per sempre, ma è una scelta del modo di stare insieme per perseguire il bene comune preservando la libertà di ciascuno. Una scelta che richiede anche il coraggio dei necessari aggiornamenti, quando diretti soprattutto a migliorare partecipazione e rendimento, vigilanza e discernimento critico. Investendo il più possibile in formazione alla cittadinanza attiva, da educare nelle sedi scolastiche e associative, come si è messo in evidenza anche nell’ultimo Convegno Bachelet dell’Aci, dedicato a Come e dove si custodisce la democrazia, e come si è ribadito a Trieste nella recente 50a Settimana sociale dei cattolici, un laboratorio di dialogo al cuore della democrazia.