Parigi 2024: l’Olimpiade che unisce, tra speranze e divisioni

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In una Francia segnata da profonde divisioni politiche e in un contesto globale di conflitti e tensioni, le Olimpiadi di Parigi 2024, sebbene non prive di polemiche, hanno offerto momenti di solidarietà e speranza, dimostrando, almeno per qualche giorno, come il mondo possa unirsi sotto il segno della pace e dello sport.

Per la terza volta le Olimpiadi sono tornate a Parigi e la fiamma dei Giochi ha scaldato i cuori di una nazione su cui era calato il gelo delle divisioni politiche. Chiamata da Macron a elezioni anticipate, la Francia, tra un turno e l’altro, ha oscillato dall’estrema destra all’estrema sinistra, mettendo in crisi quel presidenzialismo che pure affascina molti parlamentari italiani. La grandeur, a cui nessuno Oltralpe sa sottrarsi, ha compiuto il miracolo. Il fasto a cinque cerchi ha trasformato il malcontento e le preoccupazioni in un’ondata di euforia patriottica, tornando a riunire tutti all’ombra del tricolore nazionale. In cima alla Tour Eiffel Céline Dion ha fatto venire i brividi cantando L’inno all’amore di Edith Piaf. Un testo bello e toccante, scritto dalla Piaf nel 1950 per ricordare l’uomo della sua vita, il pugile Marcel Cerdan, morto l’anno prima in un incidente aereo. «Dieu réunit ceux qui s’aiment», recita l’ultima strofa.

Già, Dio unisce coloro che si amano. L’esatto contrario di chi tende a dividere, consapevolmente o meno. Vedi i curatori della cerimonia inaugurale sulla Senna, le cui acque inquinate hanno tenuto in ambasce i nuotatori.

Uno dei “quadri” fatti sfilare lungo il fiume (sorta di carri allegorici carnevaleschi) è sembrato una parodia in chiave omosessuale dell’Ultima cena di Leonardo da Vinci. Molti si sono sentiti offesi, altri hanno gridato al cattivo gusto, i vescovi francesi prima e il Vaticano dopo hanno deplorato la rappresentazione. Non c’era nessun riferimento al cenacolo leonardesco, hanno replicato gli autori. «Ci siamo ispirati al Festino degli dei di Jan van Bijlert». Questo artista seicentesco, di scuola caravaggesca, originario di Utrecht, dipinse un convivio pagano secondo lo spirito di Olimpia. Dunque, non un riferimento al Vangelo, bensì ai miti dell’antica Grecia, culla dei Giochi. Sarà, ma l’ambiguità rimane, se è vero che gli stessi attori protagonisti hanno esaltato sui social il “Nuovo Testamento gay”. Tra tanti messaggi di condanna, compreso quello del mangiapreti Jean-Luc Mélenchon, mi ha colpito il commento pacato dell’eremita francese Frédéric Vermorel: «Lo possiamo deplorare, ma è comunque notevole che un regista che vuol promuovere l’inclusione delle persone omosessuali usi una grammatica iconica cristiana. Anche chi deride la nostra fede non può fare a meno di utilizzare i suoi codici per esprimere la propria idea di speranza».

Altre polemiche sul gender le ha suscitate l’incontro di boxe tra Angela Carini e l’algerina Imane Khelif, che una fake news descriveva come transessuale. Le lacrime dell’italiana, ritiratasi dopo pochi secondi di match, avevano provocato perfino l’intervento della presidente del consiglio Meloni, salvo poi scoprire che la Khelif è affetta da iperandrogenismo, che provoca un’eccessiva produzione di ormoni maschili. La vicenda è emblematica della confusione che impera sulle questioni di genere. Comitato olimpico e Federazione pugilistica internazionale, ad esempio, hanno parametri diversi per la definizione di “uomo” o “donna” a livello atletico. Intanto c’è da fare i conti col puro razzismo, quello che ha spinto qualcuno a imbrattare a Roma il murale dedicato a Paola Egonu, simbolo di una nuova italianità, multietnica e inclusiva. La pelle della pallavolista di colore è stata ricoperta con vernice rosa, per significare che solo la razza bianca ha diritto a rappresentarci (sic!).

Di certo ogni Olimpiade riflette il proprio tempo. La famosa frase di de Coubertin, «l’importante non è vincere ma partecipare», suona anacronistica nell’era dello sport iperprofessionistico. Così come a qualcuno è apparsa utopica la richiesta di una tregua olimpica, invocata dalle Nazioni Unite e sostenuta da papa Francesco. Davanti alla cattedrale di Notre-Dame i rappresentanti delle religioni si sono riuniti per una cerimonia comune, insieme alle autorità francesi e al presidente del Cio, Thomas Bach. L’obiettivo dei Giochi – ha detto – «è unire il mondo in una competizione pacifica».

Bergoglio, come suo solito, non ha usato mezzi termini. Dopo due giorni dall’inizio delle Olimpiadi ha affermato che bruciare risorse alimentando guerre grandi e piccole è uno “scandalo” che contraddice lo spirito di fratellanza della manifestazione e che la comunità internazionale non dovrebbe tollerare. Mentre a Parigi si gareggiava, in Israele un razzo degli Hezbollah finito su un campo di calcetto uccideva dodici ragazzini, a Teheran veniva eliminato il capo di Hamas Ismail Haniyeh, a Gaza continuavano i bombardamenti, sul fronte ucraino i soldati di Kiev penetravano per la prima volta in territorio russo. Insomma, si materializzava quell’escalation bellica tanto temuta, che rischia di compattare la “guerra mondiale a pezzi” in un unico grande conflitto planetario. Un segno delle ferite che tormentano tante nazioni si è avuto con la delegazione dei rifugiati, che hanno gareggiato sotto il simbolo universale dei cinque cerchi. Ventiquattro uomini e dodici donne in rappresentanza di oltre centodiciassette milioni di persone costrette a fuggire dai loro paesi a causa di guerre, violenze, intolleranze. La capo missione era la ciclista afghana Masomah Ali Zada, “andata in fuga” nel 2016 per non finire prigioniera dei talebani. Tra loro c’era pure chi veniva dall’Italia, come gli iraniani Hadi Tiranvalipour (taekwondo) e Iman Mahdavi (lotta), approdati da noi dopo aver denunciato pubblicamente il trattamento che subiscono le donne loro connazionali. Un altro drappello speciale è stato quello dei “neutrali”, vale a dire diciassette atleti russi e sedici bielorussi ai quali è stato consentito di partecipare ai Giochi senza però indossare le divise dei rispettivi paesi.

Presenze che dicono degli ostacoli che è chiamata ad affrontare oggi l’umanità, ma che segnalano anche il desiderio di superare la logica della contrapposizione e dello scontro. In questa direzione è andata l’offerta di borse di studio di “solidarietà olimpica” a favore di atleti di nazioni con poche risorse economiche. Gli organizzatori hanno voluto dare un’impronta solidaristica a queste XXIII Olimpiadi fin dalla costruzione degli impianti, puntando sulla riqualificazione del territorio, a cominciare da Saint-Denis, l’hinterland parigino dove sono sepolti i re di Francia, luogo simbolo del disagio sociale e delle rivolte dei giovani, che si sfogano con la break dance e lo skateboard, divenuti per l’occasione discipline olimpiche. In questo sobborgo è stata realizzata l’avveniristica installazione sportiva con la piscina, i campi da basket, le pareti per le arrampicate e le sale fitness: un patrimonio che rimarrà adesso ai residenti.

L’eredità più grande che lasciano Olimpiadi e Paralimpiadi è però quella dei gesti. Come l’abbraccio al termine dell’incontro di judo tra la francese Shirine Boukli e Assunta Scutto, approdata a Parigi da un’altra periferia difficile, Scampia, dove proprio in quei giorni si raccoglievano le macerie del crollo delle Vele. Amareggiata per la sconfitta, Assunta è stata consolata dall’avversaria con parole e gesti di grande sportività che valgono quanto una medaglia. Forse è ingenuo notarlo, ma si sono visti insieme, seduti uno accanto all’altro alla mensa del villaggio olimpico, atleti della squadra dei rifugiati, che si allenano in campi profughi, e cestisti strapagati della Nba. Per qualche giorno, ogni quattro anni, donne e uomini di paesi ricchi e poveri, a volte nemici fra loro, vivono gomito a gomito, con pari dignità, aldilà della provenienza, del medagliere e delle classifiche agonistiche. È questo il messaggio prezioso dell’Olimpiade, che brilla più dell’oro appeso al collo dei vincitori.

Citius, altius, fortius, «più veloce, più alto, più forte», recita il motto olimpico inventato alla fine dell’Ottocento dal padre domenicano Henri Didon. Il rimando non è al puro esercizio fisico. «Si è primi davanti a Dio e davanti agli uomini – diceva Didon – quando si è tirato fuori da sé tutto quello che si può tirare».