Parlare di accoglienza sembrerebbe porsi in esatta antitesi rispetto all’argomento monografico di questo numero di «Dialoghi». Eppure è proprio la questione delle migrazioni e del modo in cui viene gestita e narrata che lascia emergere con particolare forza il valore dell’accoglienza. Il nodo delle migrazioni ci restituisce alla centralità del rapporto con ciò che avvertiamo come estraneo, ma la cui accoglienza e il cui riconoscimento sono in realtà essenziali a noi stessi.
Nel percorso che stiamo costruendo insieme in questa annata di «Dialoghi», ci sta accompagnando la parola frontiere, così come la parola confine ad essa sovrapponibile per alcuni aspetti. A queste se ne aggiunge ora un’altra: margine, nell’ampio spettro dei significati che ad essa appartengono.
Margine è confine, limite: è ciò che definisce, contiene, oltre cui non possiamo andare, pena l’informe o la confusione in cui tutto si perde. Ma margine è anche ciò che può essere pensato come residuale, come scarto; quello che viene tenuto fuori, lontano da ciò che è al centro, da quello che vale, riconoscibile e ricercabile come tale. Essere ai margini è essere in una condizione di invisibilità che è spesso di invivibilità.
Eppure è proprio dai margini che dobbiamo ripartire per considerare più adeguatamente la realtà: quella di cui siamo parte e la nostra stessa umanità. Quello che lasciamo ai margini, che non è al centro della scena, ci riconsegna al senso profondo di ciò che siamo. È singolare, in tal senso, l’uso che della parola scarto fa un autore francese che alle dinamiche della relazione e dell’umano ha dedicato tanta parte della sua riflessione filosofica. In François Jullien lo scarto è ciò ha veramente valore e che si impone come cifra dell’umano. Perché lo scarto è ciò che è irriducibile, non omologabile. Così il dialogo è autentico solo quando accetta lo scarto, la non assimilabilità dell’altro1 . Ogni incontro, ogni comprensione, ogni relazione che voglia dirsi tale implica lo scarto. Non quale residuo, difficoltà di percorso di cui prendere atto a malincuore, da tollerare come zona d’ombra nella luce sfolgorante dell’incontro, ma quale cifra della relazione, ciò che è ad essa essenziale.
Un altro autore molto noto, Byung-chul Han, in un testo recentemente pubblicato dedicato alla crisi della narrazione2 , sottolinea come la narrazione ha inizio dall’impatto con ciò che per noi è incomprensibile, con quello che ci sorprende determinando un effetto di straniamento.
La narrazione è diversa dalla descrizione o dall’informazione, non ha lo scopo di inquadrare, dominare o rendere dominabile una situazione; essa ha piuttosto l’intento di far avvertire, di evocare ciò che rimane non dominabile, non riducibile a dato, che è evento di cui cogliere l’accadere nel suo venire verso di noi sorprendendoci, senza lasciarsi afferrare.
Se abbiamo perso la capacità di narrare nel mare sconfinato delle informazioni che si susseguono rapidamente è perché non sappiamo più lasciarci sorprendere, perché abbiamo perso quell’indugiare contemplativo che lascia cadere ogni pretesa di dominio o di determinazione dell’alterità a partire da sé.
La resistenza nei confronti dell’estraneo
La tendenza a incasellare, ridurre a dato dominabile, acuisce la resistenza nei confronti dell’estraneo. Ciò che non conosciamo ci spaventa e preferiamo respingerlo o relegarlo in uno spazio recintato, tenuto distante dai luoghi della vita comune; o portarlo altrove, quasi fosse un oggetto da collocare dove può disturbare di meno la nostra tranquillità. Salvo poi accorgerci che degli stranieri, dell’estraneo abbiamo bisogno per far andare avanti la nostra economia.
Il dibattito che in questi giorni si sta svolgendo nel nostro paese sullo ius scholae è quanto mai significativo. Una misura necessaria, anche se ancora osteggiata, che in alcuni discorsi lascia trasparire però una idea di accoglienza e di integrazione non priva di ombre. C’è sicuramente il prendere atto di una necessità che si impone per la sostenibilità socioeconomica e il futuro del nostro paese, ma rimane sullo sfondo la convinzione che chi arriva non può e non deve “contaminare” il nostro modo di essere e di concepire la vita. Il percorso scolastico richiesto per il conferimento della cittadinanza rischia di avere il sapore di un inquadramento dalla funzione rassicurante in ordine alla salvaguardia della nostra italianità. Ma se è fuor di dubbio che la conoscenza del paese dove si va a vivere, della sua cultura, della sua storia e soprattutto della sua lingua contribuisce a sentirsene parte, ed è assolutamente da favorire, è altrettanto vero che questo non può significare assumerne la forma come una sorta di vestito destinato a coprire o addirittura a neutralizzare l’identità culturale che ciascuna persona immigrata porta con sé. Non si può chiedere allo straniero di smettere di essere tale per poter diventare italiano. Le migrazioni sono da sempre dentro la storia dei nostri paesi e delle nostre culture mediterranee. E hanno contribuito con il loro apporto culturale a plasmare il nostro modo di vivere, di parlare, di pensare. È lo scambio, la contaminazione reciproca che costruisce le culture; nei fatti prima ancora che nell’ordine di una enunciazione di principio. Perché allora temerlo?
Gli stranieri che ci affanniamo a tenere ai margini, spesso con un assurdo dispendio di forze e di soldi, ci restituiscono alle nostre radici che non hanno nulla della purezza invocata e strenuamente difesa in quanto sono piuttosto all’insegna di contaminazioni sedimentatesi nel tempo, di un meticciato che ci definisce profondamente.
Una storia da costruire insieme
Lo straniero da accogliere e riconoscere parte delle nostre comunità è già dentro la storia dalla quale veniamo. Ma è anche dentro la storia verso la quale andiamo, il futuro da costruire, che ci piaccia o no. L’interdipendenza tra i paesi e i popoli è un dato di fatto da cui non è possibile prescindere. Le grandi sfide del nostro tempo, dai cambiamenti climatici alle crescenti disuguaglianze, dalla globalizzazione tecnocratica ai conflitti dilaganti oltre i confini regionali e l’urgenza della pace, ci pongono dinanzi alla necessità di riconoscerci in una comunità di destino perché di fatto ci accomunano nell’impossibilità di soluzioni isolate o della delimitazione di zone protette.
Ma la storia che ci attende dovrà essere scritta insieme se non si vuole che progetti e disegni siano cancellati dall’incalzare degli eventi come dall’urto di un’onda in piena. Non si può più pensare nella logica di culture dominanti tali da dettare il passo al resto del mondo. E non si può neppure immaginare di gestire i rapporti con i paesi del Sud del mondo attraverso progetti di assistenza o di presunta cooperazione allo sviluppo più funzionali in realtà ai paesi occidentali, ai loro interessi economici (o al controllo delle loro frontiere) che non all’effettivo superamento di condizioni di fragilità e di vulnerabilità.
Le migrazioni che ci sforziamo di tenere ai margini sono portatrici di una domanda di riconoscimento prima ancora che di assistenza. Ed è questa domanda che deve poter dar sostanza all’accoglienza. Si tratta di creare le condizioni per una conoscenza reciproca, di imparare a conoscere e rispettare la cultura e la fede dell’altro in un’accoglienza che deve potersi costruire come mutua accoglienza e come mutuo riconoscimento, lasciando cadere ogni pretesa di assimilazione; aprendo invece al senso dell’autentica prossimità che è nel sentirsi parte di una vicenda comune, essendo e rimanendo diversi. A chi viene da un altro paese non deve essere chiesto di dimenticare le proprie radici, quanto piuttosto di sentirsi pienamente parte dei luoghi e della storia in cui si inserisce e che contribuisce a costruire. Si diventa prossimo nella piena condivisione, imparando a ricercare e a disegnare insieme le strade da percorrere per il bene di tutti. Vale per i singoli paesi come per il mondo globalmente inteso. In tal senso la scuola, quale spazio creativo di educazione al pensiero critico e alla libertà, può divenire la forma istituente di un processo di integrazione inclusivo.
È questa, ci pare, la prospettiva in cui muoversi con decisione, per superare la sfiducia crescente nella guerra di tutti contro tutti, aprendo percorsi di autentica umanità.
Note
1 Cfr. F. Jullien, L’identità culturale non esiste, trad. it. di C. Bongiovanni, Einaudi, Torino 2018.
2 Cfr. Byung-chul Han, La crisi della narrazione. Informazione, politica e vita quotidiana, trad. it. di A. Canzonieri, Einaudi, Torino 2024.