Narrare e comprendere

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Comprendere (to understand, verstehen, comprendre, comprender) inteso come «quel conoscere intuitivo che scorge anche ciò che non si dà a vedere»1 è senz’altro un procedimento naturale e necessario che permette di cogliere l’essenziale, il nucleo di un fenomeno o di un’esperienza e, tuttavia, è realmente efficace solo e quando riconosce di avere dei limiti. Occorre, infatti, riconoscere che vi sono eventi della vita umana, particolarmente minacciosi o incredibilmente connotati dal bene, che non sono accessibili alla semplice comprensione e che ci lasciano piuttosto attoniti perché incomprensibili o fuori della portata tanto dell’intuizione quanto del nostro ragionamento ordinario.

Narrare è un fenomeno altrettanto comune agli esseri umani, pertiene alla nostra stessa identità, per dirlo con Paul Ricoeur, che rivendica l’umana capacità di narrare «come espressione della condizione temporale dell’esistenza»2.

La narrazione è strettamente connessa al vissuto individuale e comunitario, ne segue il dispiegarsi di significazioni e risignificazioni personali e sociali non sempre facili o pacificate. Ciascuno di noi è la propria storia, insegna Ricoeur, e ricomporre i vissuti emozionali aiuta a riscoprire il senso del proprio essere nel mondo. È vero però che anche la narrazione ha bisogno di riconoscere alcuni limiti legati, soprattutto, al possibile ripiegamento autoreferenziale entro un raccontare che non sa aprirsi e fare i conti seriamente con l’alterità che prima di tutto, e irriducibilmente, noi stessi siamo. Vi può, infatti, essere in alcuni casi un’ipertrofia del narrare che rischia di erodere lo spazio della condivisione, creando narrazioni autocentrate, inconciliabili con le narrazioni altrui, dove si allontana sempre di più la possibilità di configurare racconti anche solo parzialmente convergenti (si pensi a certe narrazioni, purtroppo anche molto recenti, di chi dopo aver occupato un paese libero pretende addirittura di raccontare di essere il liberatore di quel paese rivendicando tutti gli onori che sono dovuti a un “salvatore”).

Su questo punto un’efficace chiarificazione è offerta, proprio dalla riflessione dello stesso Ricoeur il quale, nella sua poderosa opera ha, tra le altre cose, avuto modo di riconoscere che «la comprensione di sé è una interpretazione; l’interpretazione di sé a sua volta, trova nel racconto, fra gli altri segni e simboli, una mediazione privilegiata»3. L’intreccio, appena evocato, chiarisce con efficacia il ruolo e il senso del rapporto tra comprensione e narrazione, assegnando un primato al narrare rispetto al comprendere.

Come è del tutto evidente, nella vita di ciascuno di noi ci sono circostanze nelle quali è possibile accostarsi all’evento accaduto, solo provando a raccontarne la storia. Spesso gli stessi protagonisti, che sono i più abilitati a dire o non dire qualcosa di sé, nel loro prendere la parola possono trovare la forza di consegnare ad altri il peso del proprio vissuto gioioso o doloroso oppure semplicemente portare alla luce ciò che nessuno avrebbe mai neanche potuto solo immaginare. La circolarità virtuosa che si dispiega nell’atto della narrazione diviene efficace, nella misura in cui contribuisce a rafforzare il legame tra un io che racconta e un tu che raccoglie dossier Introduzione il racconto, atto grazie al quale si sperimenta anche la possibilità di riconoscersi nel racconto dell’altro. D’altra parte, ricevere una storia, è come ricevere un dono, significa divenire custodi del vissuto altrui, ma anche testimoni di qualcosa che venendoci consegnata, come le monete del brano evangelico, non dovrà essere sotterrata, ma dare molti frutti. In effetti può accadere che il bene inscritto nel vissuto altrui, venendo raccontato, potrà mostrare la sua portata generativa e permettere ad altri di poterlo riconoscere e sperimentare, così come del resto, il male che si annida talvolta entro le trame dei vissuti dovrà essere evitato, risanato e anch’esso rigenerato volgendolo verso il meglio. Questi movimenti tipici, quello del dono di sé e dell’ascolto, propri della pratica narrativa, rimandano al senso e alla responsabilità di ciascuno nei confronti di ciascun altro. Anche grazie alla condivisione dei racconti si rafforza il legame comunitario; narrazioni che, sempre opportunamente sorvegliate, hanno il vantaggio di permettere la condivisione di un bene non più privato: la nostra storia, che è propria di ciascuno e comune a tutti coloro che appartengono a quella particolare esperienza o periodo cronologico.

Nel raccontare impariamo a dare un ordine alle cose della nostra vita, a ricomporre certi frammenti sparsi, a fare pace con il passato, a dare senso a quello che poteva apparire insensato. Raccontare le proprie esperienze di vita, i vissuti emozionali, condividere i propri sentimenti profondi in un atto di donazione e di consegna ad altri può anche assumere un carattere terapeutico, perché permette a certe biografie spezzate di ricomporsi e ai protagonisti di riappropriarsi del proprio sé, di comprenderlo di più e meglio. Il nostro dossier, dedicato a narrare e comprendere, si apre dando voce ad alcune delle narrazioni che ci raggiungono quotidianamente, per esplorarne le dinamiche e considerare il nesso che unisce il narrare e il comprendere nel farsi della narrazione stessa. Lucia Capuzzi che dalle pagine di Avvenire racconta storie di guerra e di resistenza, Paolo Reineri autore di libri per ragazzi, Lorenzo Zardi giovane appassionato di podcast ci conducono in narrazioni che, con linguaggi e stili differenti, offrono chiavi di lettura del reale.

L’articolo successivo, firmato da Marco Tibaldi, ci accompagna nella narrazione biblica, aiutandoci a coglierne il ritmo e lo stretto legame con la natura relazionale della rivelazione. Solo a partire dal coinvolgimento di chi legge, dal suo lasciarsi intimamente toccare, la narrazione apre lo spazio della comprensione in cui colui che ascolta si comprende divenendo capace di storia nuova. Il racconto consente di accedere a eventi che diversamente resterebbero muti per noi. Se «gustate interiormente» le narrazioni bibliche possono essere a loro volta «raccontate e ricomprese in nuovi contesti».

Con il saggio di Annalisa Caputo siamo poi aiutati a seguire, passo dopo passo, quel che accade nella narrazione necessaria a una vita propriamente umana: l’intrecciarsi dei fili in una storia dotata di senso a partire dal «discernimento», l’ordine disegnato nell’accadere attraversando anche la negatività, l’emergere della dimensione comunitaria, il carattere performativo del narrare.

Se il narrare disegna una storia a partire dall’accadere, è prima di tutto la nostra storia, la storia di ciascuno che ha bisogno di essere narrata per potersi costruire, per pervenire a consapevolezza. L’articolo di Iolanda Poma si sofferma così sulla narrazione autobiografica come forma peculiare del narrare in cui il soggetto si comprende, oltre ogni pretesa di autosufficienza, nell’impossibilità di prescindere dalla relazione all’alterità che ci attraversa da cima a fondo. La verità a cui si perviene al termine del racconto di sé, del lavoro di autointerpretazione in cui consiste l’atto del narrarsi è che «il proprio è inappropriabile», è «un rinnovato ascolto del mistero che ci abita».

Quanto la narrazione sia spazio di incontro, tale da portare in sé la forza liberante delle relazioni o, al contrario, il carico deformante della loro tossicità, è messo in evidenza nell’articolo di Carla Danani, attraverso il riferimento a storie di popoli e paesi – il Sudafrica dopo la fine del regime dell’Apartheid e il conflitto degli anni Novanta in Bosnia – in cui le narrazioni hanno preso forma in contesti e luoghi che sono essi stessi, a loro volta, narrazioni. Narrazioni che possono aprire percorsi di riconciliazione o che invece occultano le ferite e alimentano la contrapposizione.

Il dossier si chiude con un articolo dedicato alla medicina narrativa, firmato da Massimiliano Marinelli. La capacità di leggere e interpretare «i diversi testi» in cui l’esperienza della malattia si racconta viene qui mostrata come necessaria perché la relazione terapeutica possa trovare «quella reciprocità e quel riconoscimento che costituiscono il fondamento di ogni autentico incontro di cura».

La narrazione aiuta dunque a comprendere, indirizzando lo sguardo e l’intelligenza sul senso di ciò che si vive. Certo può anche accadere che si rimanga indifferenti dinanzi alla narrazione dell’altro, così come si può essere invece travolti da narrazioni costruite ad arte che pretendono di produrre da sé il reale. Ma quando la narrazione nasce dalla profondità dei vissuti e da essa ci si lascia toccare, la comprensione a cui apre si fa cura. C’è un potenziale terapeutico nel narrare. Ed è in fondo questa la parabola della narrazione: narrare per comprendere e per comprendersi, per imparare ad aver cura. Aver cura di sé, degli altri, del mondo, delle nostre fragilità finalmente chiamate per nome, della possibilità della relazione che ci attraversa e tesse le nostre esistenze rendendole autenticamente umane.

 

Note

1 D. Di Cesare, Comprendere, in Aa. Vv., Enciclopedia filosofica, III, Bompiani, Milano 2006, p. 2063.

2 D. Jervolino, Narratività, in Aa. Vv., Enciclopedia filosofica, VIII, Bompiani, Milano 2006, p. 7723.

3 P. Ricoeur, Sé come un altro, Jaca Book, Milano 1993, n.1, p. 202.