Come governare la globalizzazione

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I costi che il mondo sta pagando ad una globalizzazione non governata sono alti, perché l’incertezza dominante scoraggia gli investimenti sul lato reale dell’economia e aumenta la finanziarizzazione, le bolle speculative e le diseguaglianze. È dunque urgente riflettere su questi temi, proporre soluzioni fattibili, denunciando chiaramente che non è con i populismi che i problemi della globalizzazione potranno essere risolti.

L’ umanità è vissuta per migliaia di anni in una civiltà agricola che legava i contadini alla terra e lasciava ben poco spazio alla mobilità. Chi si muoveva erano i popoli conquistatori, per lo più nomadi, e gli eserciti degli imperi agricoli che dovevano contenerli. Ma l’economia era locale, con scarsi commerci su lunga distanza, e dunque bastava un governo locale, che aveva comunque due livelli: il governo delle comunità e il coordinamento offerto da un governo centralizzato di tipo imperiale, volto soprattutto a garantire la difesa dagli attacchi esterni. Il superamento di questa civiltà partì dalle città-stato medioevali, specialmente quelle marinare, che attivarono commerci a lunga distanza in Europa e confezionarono la lex mercatoria per poterli regolamentare. La lex mercatoria è il primo esempio di governo della “globalizzazione” dell’epoca, una legge fatta dagli stessi mercanti e non dagli Stati, che restavano di piccola dimensione e non avevano un secondo livello di coordinamento, essendosi sottratti al controllo di qualunque impero1 .

L’allargamento dell’economia mondiale proseguì poi con le esplorazioni geografiche, fase in cui furono alcuni Stati nazionali europei a diventare gli attori principali, imponendo al resto del mondo le loro regole, a suon di cannoni e di mercantilismo. Fin che il resto del mondo restò ad uno stadio di evoluzione economica distante da quella europea, anche in presenza di estesi e persistenti conflitti alcuni Stati europei continuarono a dominare, in particolare la Gran Bretagna, culla della prima rivoluzione industriale nel Settecento. Con il suo impero (extra-europeo) più grande del mondo, impose una pax britannica nel corso dell’Ottocento, non priva di guerre, ma capace di offrire un lungo periodo di crescita economica in Europa e negli Stati Uniti.

Il passaggio della leadership dall’Europa agli Stati Uniti

Ma proprio l’ascesa degli Stati Uniti ruppe questa predominanza. Un paese “vuoto”, che all’atto della sua formazione non contava più di quattro milioni di abitanti, moltiplicò la sua popolazione ad un ritmo impressionante, sulla base di accordi iniziali di non belligeranza tra gli Stati, di mercato unico e di moneta unica. Gli effetti altamente positivi del federalismo si fecero sentire quando si profilò la seconda rivoluzione industriale nella seconda metà dell’Ottocento, perché solo gli Stati Uniti poterono sviluppare quelle economie di scala che un grande mercato poteva permettere. Ci volle un po’ per far prendere coscienza al mondo e agli stessi americani che la leadership era passata dall’Europa agli Stati Uniti, ma le due guerre mondiali che gli europei scatenarono, ciechi alle novità che loro stessi avevano innescato, diedero il colpo di grazia alla pax britannica e inaugurarono l’epoca della pax americana.

Gran parte del mondo prese gli Stati Uniti a modello di civiltà, sia nei metodi di produzione, sia nei consumi e negli stili di vita, e sotto l’ombrello protettivo americano si verificò di nuovo un periodo di grande crescita economica. Gli Stati Uniti furono sfidati solo dal modello pianificatorio dell’Unione Sovietica, che tuttavia si manteneva in vita prevalentemente con le armi e non poteva competere con quello americano sul piano dell’appetibilità, fino a quando implose, lasciando gli Stati Uniti padroni del campo. Si scrisse allora che si era arrivati alla «fine della storia»2 , ma non è andata così. Infatti, da un lato alcune piccole nazioni che non erano più in grado di competere nella nuova economia mondiale dominata dalla grande nazione americana si misero insieme; dall’altro lato nazioni gigantesche, fino ad allora rinchiuse in un’economia di povertà che le rendeva irrilevanti, iniziarono un percorso progressivo.

Furono le piccole nazioni europee a decidere di mettersi insieme per raggiungere quel mercato unico e quella moneta unica di cui gli Stati Uniti avevano goduto fin dall’inizio della loro storia; non avendo però voluto (o potuto) usare lo strumento del federalismo, sono arrivate oggi ad una impasse, mentre le due più grandi nazioni del mondo – India e Cina – si sono abbondantemente risvegliate e fanno pesare la loro dimensione sugli equilibri mondiali. A sostenere questi risultati è stata la liberalizzazione del commercio e della finanza a livello mondiale, la cosiddetta globalizzazione, che da un lato è inclusiva, perché ammette al gioco economico qualunque soggetto, ma dall’altro lato è esclusiva, perché rompe equilibri esistenti e crea disoccupazione e povertà laddove questi mali sembravano definitivamente archiviati. La globalizzazione è andata oggi troppo distante senza una governance adeguata, fondamentalmente perché è gradita alle grandi imprese, che si sono incredibilmente rafforzate diventando «trans-nazionali».

Il ruolo delle imprese transnazionali

Il fenomeno che preoccupa oggi non pochi studiosi è che possano essere proprio le transnazionali a candidarsi per governare il mondo, senza proclami o armi, ma semplicemente con le loro ramificazioni produttive, che ne fanno soggetti economici con un tale potere di mercato da permettere loro di dominare anche la politica. Non passa giorno che non si legga di miliardarie aggregazioni societarie fra imprese, che si pongono al centro di reti di piccole-medie imprese dipendenti da loro per poter produrre. È vero che le più grandi nazioni detengono ancora un potere politico capace di regolamentare queste transnazionali, ma lo hanno utilizzato finora assai scarsamente, accontentandosi di cercare di responsabilizzarle di fronte al loro maggiore peso “politico” attraverso codici etici di comportamento (come i «principi di Ruggie»3 ). Questo movimento verso il coinvolgimento delle grandi imprese nel buon andamento della società civile di riferimento e nel rispetto dell’ambiente (Responsabilità civile dell’impresa4 ) è altamente positivo, anzi indispensabile, perché è parte di una revisione dei fondamenti epistemologici dell’economia attuale, ma non può in sé essere sufficiente. Dovrà sempre essere la politica, che per sua natura deve avere attenzione al bene comune, a governare i processi evolutivi, che non possono essere lasciati in mano in esclusiva a nessun soggetto della società civile. A questo punto, per governare il mondo la pax americana così come finora è stata conosciuta non basta più. Né è tuttavia prevedibile che alcun altro paese possa sostituire gli Stati Uniti nel governo del mondo, così come questi sostituirono la Gran Bretagna.

Per governare un mondo ormai definitivamente multipolare (non solo nel senso di ospitare molti paesi importanti, ma una pluralità di soggetti significativi, come le transnazionali) si potrebbe pensare a potenziare le organizzazioni internazionali, ma quelle che conosciamo hanno finora svolto ruoli assai limitati. Si pensi all’Onu, che ha evitato qualche conflitto e promosso qualche intervento di mantenimento della pace (i famosi “caschi blu”), ma non si può certo ritenere uno strumento di governo del mondo5 . Tutte le molteplici altre organizzazioni internazionali sono specialistiche e svolgono importanti ruoli, fino a configurare una «global polity», come la chiama Cassese6 , che offre una governance without government, di cui ci dovremmo preoccupare, perché è per lo più nelle mani di tecnici. Il più recente tentativo di «governo del mondo» è quello offerto dai G7, G8, G20, gruppi informali dei capi delle più importanti nazioni del mondo, che si riuniscono senza scadenza fissa per mettere in comune problemi e soluzioni. La sua efficacia è però per il momento modesta, ma di sicuro scambi di idee e propositi sono comunque utili.

Quel che insegna il “modello” Unione europea

Per fare un passo in avanti rispetto alla situazione esistente, a costo di sembrare fuori moda, la mia idea è quella di ispirarsi all’Unione europea, cercando anche di imparare dagli errori della stessa. Infatti, basicamente l’Unione europea è un progetto di collaborazione e coordinamento fra nazioni simili per cultura, dimensione e posizione geografica, che procede per stadi. Essa insegna almeno tre cose fondamentali per un possibile nuovo governo mondiale: 1. le aggregazioni regionali sono da favorire, in quanto semplificano le dinamiche politiche mondiali; 2. ci si può accordare per una governance congiunta di un settore/problema/dimensione alla volta, con geometrie variabili; 3. tutti si devono pensare come appartenenti a diversi livelli di governance, utilizzando la sussidiarietà per coordinarli.

Per quanto riguarda le aggregazioni regionali, le nazioni già grandi non ne hanno gran bisogno, mentre per quelle piccole è indispensabile per potersi inserire nelle dinamiche mondiali di oggi con un potere negoziale non nullo e anche per abbassare i rischi di conflitto. L’Unione europea ha dimostrato che si possono fare grandi passi in avanti negoziando una governance comune di settori economici o dimensioni economiche (per esempio il mercato unico) alla volta. Per ottenere risultati positivi per tutti, occorre preparare i negoziati con cura e permettere fasi transitorie di aggiustamento, senza lasciarsi prendere dalla fretta di giungere a risultati in sé altamente positivi, ma a cui qualche soggetto del negoziato può non essere adeguatamente preparato. L’introduzione nella Ue dell’euro può essere vista proprio come un passo realizzato con troppa fretta, per l’entusiasmo suscitato da uno strumento – la moneta unica – che ha dato grandi vantaggi alle aree economiche che ne hanno potuto godere, ma che funziona a condizioni che non erano tutte presenti quando si è introdotto in Europa. Per questo motivo, le «geometrie variabili», ossia l’inserimento di vari soggetti a stadi diversi dei negoziati devono essere viste positivamente.

Occorre però un cambiamento culturale improcrastinabile. Le persone devono prendere atto della loro appartenenza a più di un livello della società civile: il comune di residenza, lo Stato o regione che raggruppa più comuni; la nazione formatasi nella storia; i raggruppamenti regionali di nazioni, quando questi sono necessari; e infine il mondo. La globalizzazione impone di uscire dalla dimensione meramente nazionale, tanto più quanto più piccola è la nazione di origine. La sussidiarietà è lo strumento di raccordo dei vari livelli di governance. Non è auspicabile portare al livello superiore di governance questioni che possono essere adeguatamente governate al livello inferiore. Ma è anche vero il viceversa, come la questione del clima sta dimostrando: solo un livello mondiale di governance del clima è in grado davvero di risolvere i gravi problemi che abbiamo. Quanto alla democrazia, ai livelli più vicini al cittadino si possono praticare forme di democrazia più dirette e partecipate, mentre è ovvio che man mano che si sale di livello, la democrazia diventa delegata, pur restando importante l’elezione da parte dei cittadini dei rappresentanti deputati a negoziare ai livelli superiori.

La sfida è un’economia «civile»

Oggi, a rivoltarsi contro la globalizzazione non governata sono i cosiddetti “populismi”, che non sono oggetto di questo articolo, ma meritano due osservazioni, volte a chiarire quanto fin qui sostenuto. In primo luogo, una chiusura pura e semplice alla globalizzazione non può avere alcuna chance di successo nell’era informatica, ma la globalizzazione può e deve essere governata, adottando una concezione di economia diversa da quella che l’ha ispirata, un’economia radicata nella giustizia e nella solidarietà, ossia un’economia «civile»7 . In secondo luogo, una chiusura alla globalizzazione risulta di sicuro più fattibile e meno nociva alle nazioni grandi. Se gli Stati Uniti chiudono in parte le loro frontiere, come sembra voler fare Trump, hanno comunque un mercato interno sufficientemente grande sia dal punto di vista quantitativo sia da quello qualitativo per sopravvivere bene e contano su enormi transnazionali che continueranno a funzionare a loro vantaggio. Ma se un paese piccolo tenta di fare la stessa cosa, si condanna alla miseria, come l’autarchia mussoliniana avrebbe dovuto insegnare all’Italia. Questo deve essere ben compreso in Europa. I paesi europei sono piccoli e non possono resistere da soli; è dunque sommamente autolesionista da parte loro dare spazio ai populismi, che possono però essere vinti solo offrendo soluzioni ai disagi che essi intercettano. I costi che il mondo sta pagando ad una globalizzazione non governata sono alti, perché l’incertezza dominante scoraggia gli investimenti sul lato reale dell’economia e aumenta la finanziarizzazione, con i suoi danni di bolle speculative e approfondimento delle diseguaglianze. È dunque urgente riflettere su questi temi, proporre soluzioni fattibili e, soprattutto, partecipare al dibattito pubblico denunciando chiaramente che non è con i populismi che i problemi della globalizzazione potranno essere risolti.

Note

1 V. Zamagni, Perché l’Europa ha cambiato il mondo, il Mulino, Bologna 2015.

2 F. Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, Rizzoli, Milano 2013.

3 John Ruggie presentò nel 2008 dei principi guida per armonizzare il comportamento delle imprese ai diritti umani che vennero adottati dall’Onu e pubblicati nel 2011 (UN Guiding Principles for business and Human Rights). Ruggie li aveva formulati dopo sei anni di ricerca e consultazione con governi, imprese, associazioni di imprese e società civile.

4 Si veda S. Zamagni, Impresa responsabile e mercato civile, il Mulino, Bologna 2013.

5 P. Kennedy, Il parlamento dell’uomo. Le Nazioni Unite e la ricerca di un governo mondiale, Garzanti, Milano 2007.

6 S. Cassese, Chi governa il mondo?, il Mulino, Bologna 2013.

7 L. Bruni, S. Zamagni, L’economia civile. Un’altra idea di mercato, il Mulino, Bologna 2015.