Voglia di futuro

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Sarà la primavera con i suoi colori e le sue giornate più lunghe, sarà il tepore del sole che finalmente si fa sentire, saranno i tanti giorni passati in casa davanti al computer, le restrizioni così a lungo vissute, l’ansia che ci ha accompagnato; ma c’è nell’aria una voglia di uscire, di tornare a incontrarsi, di respirare; di respirare persino la confusione delle strade, i rumori della vita quotidiana.

E c’è un’emozione particolare nel ritrovarsi, nel tornare a fare lezione in presenza, nel riprendere contatto con il proprio ufficio, nel viaggiare in treno dopo tanti mesi, nell’acquistare un abito pensando a quando lo si indosserà, nell’andare al cinema, nel mangiare una pizza seduti a un tavolo che non è quello di casa propria, in mezzo ad altri. Una normalità perduta e pian piano ritrovata.

Gesti quotidiani e situazioni di interrelazione che si vivono ancora con preoccupazione, ma che hanno il sapore di una libertà recuperata, che vorremmo non dover lasciare più. E, d’altra parte, come potremmo non immaginare che tutto quello che abbiamo vissuto – la paura, la sofferenza, la morte delle persone care, la paralisi di attività, l’impoverimento di tanti – possa finalmente avere fine? Le riaperture su cui tanto si insiste in questi giorni – vessillo di una propaganda politica senza fine, mantra ripetuto ad ogni passo – hanno una forza che è simbolica oltre che economica o funzionale. Riaprire è riprendere a vivere, “riprendersi la vita” come qualcuno ama dire. È alzare finalmente lo sguardo, guardare avanti, ricominciare a immaginare, a progettare, ritrovare il gusto di proiettarsi verso il futuro. Riaprire è pensare che il futuro sia nuovamente possibile.

Nel tempo della pandemia, il futuro è apparso come soffocato.

Matrimoni rinviati, attività sospese o addirittura chiuse, percorsi di studio e progetti costretti a rimodularsi in un’assoluta incertezza. Un tempo sospeso che ci ha consegnato a una lentezza dimenticata e a una profondità possibile, ma che ha visto assottigliarsi la proiezione nel futuro. E ora, è proprio il futuro che si riprende la scena: un desiderio incalzante di futuro.

Anche la politica torna a parlare di futuro: di investimenti, ripresa, modernizzazione, digitalizzazione, semplificazione. Come se si dovesse spiccare la corsa in avanti: con decisione e rapidità. Ora o mai più. E i fondi stanziati dall’Europa cominciano ad essere percepiti finalmente non come un semplice sostegno alla crisi – uno strumento di ripristino – quanto piuttosto come un investimento per il futuro, per le giovani generazioni, per costruire il mondo che verrà.

E poi, ci sono i vaccini con cui «l’Italia rinasce con un fiore».

Tra ansie, diffidenze e polemiche, ma anche tra l’emozione di chi finalmente potrà tornare a vedere i figli lontani, a muoversi, a uscire, a sperare di poter combattere il virus, di lasciarsi alle spalle la devastazione di cui esso è stato capace.

L’orizzonte del futuro, la voglia insistente e intensa di futuro, domina queste giornate primaverili in cui lavoriamo alla chiusura del numero 2 di «Dialoghi».

Ma a riportarci indietro, invece, ci sono voci e immagini di situazioni che pensavamo non più ripetibili con così tanta drammaticità. I morti bruciati per strada in India, neppure più contati per il dilagare dell’epidemia e l’assenza di soccorso: una povertà radicale, nella mancanza di ossigeno e nella negazione di ogni ragionevole diritto. E poi la violenza nuovamente riesplosa tra palestinesi e israeliani, a Gerusalemme, dove le tensioni sono endemiche, pur nell’intreccio inestricabile di culture e tradizioni, epicentro di conflitti già molte volte in passato, ma anche luogo senza la cui pacificazione non ci sarà pace nel mondo.

E poi ci sono gli scontri, più o meno “diplomatici”, per il controllo delle aree di pesca tra la Francia e la Gran Bretagna e tra l’Italia e la Tunisia. E i naufragi, che ormai non sconvolgono neppure più, con il loro carico di morte; i barconi e i migranti sempre più disperati e sempre più “bambini”, con un’età che continua ad abbassarsi: quei migranti che nessuno vuole e che si discute all’infinito su come “ricollocare”.

Quale futuro allora ci attende? E quale futuro vogliamo costruire? 

Papa Francesco, nelle sue catechesi dedicate al tempo e alle sfide della pandemia, ma anche in tante altre occasioni, non si stanca di ripetere che dalla crisi non si esce uguali a prima: si esce migliori o peggiori. Tutto quello che abbiamo vissuto, e che stiamo ancora vivendo, non può non incidere su come immaginiamo il nostro futuro. Si può guardare avanti chiudendosi nel proprio interesse particolare, muovendosi in una logica di rivendicazione di spazi, di guadagni, di potere. Si può mirare a ripristinare, appunto, livelli di prestigio e possibilità di controllo o addirittura ampliarne la portata, sfruttando le possibilità che le grandi crisi offrono sempre in tal senso. Oppure ci si può finalmente rendere conto che non ci si salva da soli. Che non si può lasciare che da qualche parte del mondo la gente muoia senza vaccini e senza ossigeno: perché lì il virus si rafforzerà e da lì tornerà a diffondersi, vanificando la battaglia condotta altrove con efficacia. Si può arrivare a comprendere che non si può togliere la terra e la casa a chi vi abita da decenni, in nome di non si sa quale precedente diritto, senza pensare che questo non accenda la miccia di una ribellione poi non più controllabile, in una escalation di rispettiva ferocia. E che non si possono condurre politiche economiche tali da impoverire intere aree del  pianeta e compromettere gli equilibri della biosfera né alimentare il mercato delle armi senza pensare che la gente non fugga poi, dalla miseria e dalla guerra, premendo disperata alle nostre porte. I nostri gesti, le nostre scelte hanno sempre delle conseguenze, non solo lì dove vengono compiute, ma anche altrove, in altre parti del mondo.

Ci è chiesto di comprendere che siamo parte di un comune destino umano. «La mondializzazione – scrive Edgar Morin – ha creato una comunità di destino per tutta l’umanità sviluppando dei pericoli globali comuni: la degradazione della biosfera, l’incertezza economica e la crescita delle diseguaglianze, la moltiplicazione delle armi nucleari di distruzione di massa, così come delle armi chimiche e informatiche capaci di paralizzare una nazione intera [ma possiamo aggiungere ora anche la pandemia]. Tutto questo crea un bisogno imperioso di presa di coscienza della nostra comunità umana di destino» (La fraternità, perché?, Ave 2020, p. 41).

Sapremo assumere questo bisogno imperioso e imparare a sentirci accomunati in un’unica avventura umana, coinvolti in un unico cammino in cui diversità e unità hanno bisogno l’una dell’altra per poter essere e fiorire? Sapremo costruire il “noi” che con coraggio e lungimiranza papa Francesco prospetta nella Fratelli tutti?

Perché tutto ciò sia possibile c’è bisogno però anche di un pensiero nuovo, come scrive ancora Morin, di un pensiero e di un sapere che abbiano il senso della complessità e delle interrelazioni: non un pensiero che «separa e compartimenta» contribuendo all’isolamento delle persone, ma un pensiero che consenta di accedere a una visione d’insieme, per poter tessere nuove solidarietà.

Questo numero di «Dialoghi», con al centro il bel Dossier su Scienza e futuro, vuole proporre nel suo insieme uno sguardo sul futuro: il pontificato di Francesco capace di innescare processi; le vicende della guerra e della pace lette attraverso la storia delle donne; le proiezioni di futuro che emergono dalla ricerca scientifica; il focus sui vaccini e il racconto dell’Assemblea dell’Ac con le prospettive di impegno tracciate – nei giorni di fine aprile vissuti nel solco della tradizione ma nella radicale novità degli strumenti – e poi le recensioni a libri che aiutano a pensare il futuro nella discussione di paradigmi e possibilità; senza dimenticare il radicamento in una storia di ideali e valori democratici, una “lunga marcia”, che nel nostro paese ha visto il contributo importante dei cattolici e che ci consente di proiettarci in avanti verso nuove mete di coesione e di libertà.

Non resta allora che leggere, discutere... e camminare: senza mai smettere di pensare, con cuore libero e aperto. Verso il futuro.