La capacità di aprire al futuro del pontificato di Francesco è legata all’idea per cui è necessario avviare processi e metterli in opera, secondo una visione in cui il tempo supera lo spazio. Una filosofia che ha accompagnato questi otto anni, non tanto per la quantità di riforme approvate, ma piuttosto attraverso i gesti che hanno accelerato la desacralizzazione del papato, lo stile sinodale nella Chiesa, le scelte pastorali.
Se si vuole valutare l’azione riformatrice del pontificato di Francesco, bisogna farlo alla luce delle chiavi interpretative che lui stesso fornisce in Evangelii gaudium, misurandola in particolare in base al principio espresso al numero 222 dell’esortazione apostolica, dove è scritto che il tempo è superiore allo spazio. «Questo principio – spiega Bergoglio – permette di lavorare a lunga scadenza, senza l’ossessione dei risultati immediati. Aiuta a sopportare con pazienza situazioni difficili e avverse, o i cambiamenti dei piani che il dinamismo della realtà impone [...]. Uno dei peccati che a volte si riscontrano nell’attività socio-politica consiste nel privilegiare gli spazi di potere al posto dei tempi dei processi. Dare priorità allo spazio porta a diventar matti per risolvere tutto nel momento presente, per tentare di prendere possesso di tutti gli spazi di potere e di autoaffermazione. Significa cristallizzare i processi e pretendere di fermarli. Dare priorità al tempo significa occuparsi di iniziare processi più che di possedere spazi» (Eg 223).
Il bilancio delle novità portate alla Chiesa da papa Bergoglio non va fatto allora producendo l’elenco delle riforme approvate (che peraltro sarebbe piuttosto modesto a fronte di una percezione comune di un pontificato fortemente innovativo), ma piuttosto individuando i processi iniziati da Francesco. In questo caso l’elenco, per quanto accurato lo si voglia fare, risulterà sempre incompleto, sia perché i processi iniziati sono davvero tanti sia perché i processi, a differenza degli spazi che sono sempre geometricamente calcolabili, non possono essere misurati, in quanto in perenne evoluzione. Anzi, in molti casi non vengono nemmeno percepiti, se non in una fase avanzata del loro progredire.
Il primo processo messo in atto da Francesco riguarda la figura stessa del Papa e possiamo dire che è cominciato già la sera del 13 marzo 2013 quando, affacciatosi per la prima volta su piazza San Pietro, prima con il «buonasera» e poi con la richiesta di una preghiera di benedizione «del popolo per il suo vescovo», ricevuta in silenzio a capo chino di fronte alla folla, ha iniziato un processo che potremmo definire di desacralizzazione e “deregalizzazione” della persona del Papa. Si tratta di una strada evidentemente già percorsa dai suoi più immediati predecessori, ma che con Bergoglio ha avuto una accelerazione potente, cominciata, a pensarci bene, ancor prima del «buonasera»: con la scelta di un nome non seguito dal numero e con quella di affacciarsi al balcone vestito del semplice abito bianco, senza nessun altro paramento.
Riflettere su come Francesco stia modificando la figura del Papa è particolarmente illuminante per comprendere la differenza che c’è tra «il possedere spazi e iniziare processi». Da un punto di vista strutturale (e quindi spaziale), infatti, il Papa non ha cambiato nulla delle prerogative del papato: l’unico indizio blandamente normativo lo troviamo nella modifica dell’annuario pontificio del 2020, che ha declassato a titolo storico quello di vicario di Cristo.
Una variazione minima, cui non può essere attribuita la dignità di piccola riforma, anche perché – come da precisazione della Sala stampa della Santa Sede – iscrivere una prerogativa del Papa nei titoli storici non vuol dire abolirla. Eppure, se guardiamo al complesso delle scelte fatte da Francesco, ci accorgiamo immediatamente di quanto abbia desacralizzato la figura del Papa, di quanto cioè l’abbia umanizzata e resa ancor più vicina a ciascuno di noi. I gesti compiuti in questa direzione sono tantissimi e tutti comunicano la normalità dell’uomo che lo Spirito Santo (nota bene: desacralizzare l’uomo non vuol dire despiritualizzare la Chiesa), attraverso il conclave, ha messo alla guida dei cattolici.
La scelta di non vivere nell’appartamento pontificio, l’andare a pagare di persona il conto dell’albergo che lo aveva ospitato prima del conclave, quella di portarsi da solo una borsa da viaggio («Io quando viaggio la porto – ha spiegato ai giornalisti sul volo di ritorno dalla Gmg di Rio de Janeiro – e dentro, cosa c’è? C’è il rasoio, c’è il breviario, c’è l’agenda, c’è un libro da leggere. Io sono andato sempre con la borsa quando viaggio: è normale. Ma dobbiamo abituarci ad essere normali»), il viaggiare su un’utilitaria, il telefonare direttamente ai suoi interlocutori, l’essere disponibile a frequenti interviste, l’andare personalmente dall’ottico a comprare gli occhiali nuovi sono solo alcuni dei gesti di Bergoglio. E se dopo otto anni di pontificato non ci sorprendono più significa che il processo di umanizzazione della figura del Papa è in fase molto avanzata.
Un secondo processo importante ha a che fare con il governo della Chiesa. Anche qui, per capire le novità non dobbiamo fermarci alle “riforme scritte” della Curia romana né considerare con particolare enfasi il ruolo del Consiglio dei cardinali che lo affianca nella sua opera riformatrice sin dall’inizio del pontificato. Misurare il processo significa valutare lo stile di governo e, da questo punto di vista, la cosa più interessante che emerge è lo stile della sinodalità. All’esito del secondo sinodo convocato da Francesco, un analista attento come Alberto Melloni scriveva sul «Corriere della sera» del 23 ottobre 2015: Francesco «semplicemente restando seduto in Sinodo, ha compiuto un altro atto di riforma enorme riguardante la sinodalità della Chiesa [...]. La sinodalità è rimasta un tabù nella Chiesa cattolica per decenni [...]. Lo stesso Sinodo dei vescovi, nonostante il nome, non è mai stato altro che organo consultivo, che consegnava al Papa i propri antagonismi perché lui mediasse. Francesco ha agito sul Sinodo facendone, a norme invariate, un organo di collegialità effettiva e di rango quasi-conciliare». Parole, quelle di Melloni, che trovano conferma nella scelta recentissima del Papa di avviare un cammino sinodale in tre fasi: diocesana, continentale e universale, che si concluderà a Roma nell’ottobre del 2023. Il processo di “sinodalizzazione” della Chiesa, insomma, è in pieno svolgimento: ha avuto la spinta di partenza in occasione del primo Sinodo presieduto da Francesco nell’ottobre del 2014 (quando gli stessi padri sinodali si stupirono per il nuovo spazio di libertà e di dibattito che veniva chiesto loro) e trova oggi nuovo slancio in un cammino che comincia, almeno nelle intenzioni del Papa, davvero dal basso e coinvolge tutte le Chiese. Un cammino che sembra essere proposto come metodo anche per il futuro.
Avviare processi per Francesco è quasi sempre cosa diversa dall’approvare riforme e questo non vale soltanto (come abbiamo fin qui dimostrato) per le istituzioni (Papa e Chiesa), ma spesso anche per la dottrina. Uno degli esempi più nitidi viene ancora dai sinodi sulla famiglia. Come si ricorderà, una delle questioni più divisive alla vigilia era quella della possibilità di consentire ai divorziati risposati di fare la comunione. La scelta del Papa, espressa nell’esortazione apostolica Amoris laetitia, non modifica la dottrina tradizionale, eppure, dopo aver affermato al numero 305 che «a causa dei condizionamenti o dei fattori attenuanti, è possibile che, entro una situazione oggettiva di peccato [...] si possa vivere in grazia di Dio, si possa amare, e si possa anche crescere nella vita di grazia e di carità, ricevendo a tale scopo l’aiuto della Chiesa», si specifica in nota che questo aiuto in alcuni casi può essere anche quello dei sacramenti. Detto in altri termini, la dottrina (lo spazio) non viene modificata, ma si offre alla pastorale (il processo) una libertà di intervento che può incidere profondamente sulla vita del popolo di Dio e che pone le premesse per uno sviluppo futuro della dottrina stessa. Attenzione, però: sarebbe sbagliato leggere la via pastorale di Bergoglio come un tatticismo politico per portare a casa le riforme. Quando Francesco parla di avviare processi, non lo fa avendo un obiettivo predeterminato da raggiungere, ma in un’ottica di fede, per cui sarà lo Spirito a mostrarci nel tempo la strada da percorrere, a separare il grano dalla zizzania. «Gesù – ha detto all’Angelus del 23 luglio del 2017 – ci insegna un modo diverso di guardare il campo del mondo, di osservare la realtà. Siamo chiamati a imparare i tempi di Dio [...], ciò che era zizzania o sembrava zizzania, può diventare un prodotto buono».
Analizzando invece il magistero di Francesco, la prima cosa che salta agli occhi è il nuovo slancio che ha impresso alla Dottrina sociale della Chiesa. Con Bergoglio il principio della sacralità della vita non è stato evocato solo o prevalentemente per ribadire il pensiero della Chiesa su aborto e eutanasia, ma è stato declinato per affrontare tutte le esperienze dell’esistenza. Così, sono diventati sacri diritti come casa, lavoro e terra, come ha detto parlando ai movimenti popolari il 28 ottobre del 2014. Un capitolo a sé meriterebbero i processi aperti da Francesco sul tema della migrazione, «diritto doppio» – ha spiegato sul volo di ritorno dall’Iraq – perché al tempo stesso «diritto a non migrare e diritto a migrare». Dentro questa rinnovata attenzione alle conseguenze sociali e politiche del Vangelo, va letto poi il processo più nuovo avviato dal magistero di Francesco: quello di un’ecologia cristiana, che nell’enciclica Laudato si’ prende il nome di «ecologia integrale». Si tratta di un processo così nuovo rispetto alla nostra tradizione che ha trovato in larga parte impreparate nella ricezione diocesi e parrocchie e che, cosa inedita per un documento papale, per molti aspetti ha avuto più attenzione in alcuni settori esterni alla Chiesa che dentro la Chiesa stessa. Un fenomeno quest’ultimo non casuale, perché quello del dialogo è sicuramente il processo cui Francesco ha dato maggior vigore: dialogo con il mondo, con le altre religioni e con le diverse confessioni cristiane. Nei primi otto anni di pontificato gli appuntamenti ecumenici sono stati numerosissimi e almeno due di essi possono essere definiti storici: l’incontro con Kirill, patriarca di Mosca e di tutta la Russia, avvenuto a Cuba il 12 febbraio 2016, e il viaggio a Lund, in Svezia, a ottobre dello stesso anno, per commemorare i cinquecento anni della Riforma luterana. Chiamare storici questi due avvenimenti non vuol dire affatto considerarli dei punti di arrivo: si tratta infatti di tappe importanti di altrettanti processi. L’importanza dell’incontro di Cuba non è da ricercarsi nel documento congiunto firmato dai due patriarchi, quanto invece nell’incontro stesso. Il rettore del Pontificio Istituto Orientale padre David Nazar ha definito quell’evento come l’apertura di una porta chiusa da mille anni: «Non si può più tornare nel passato! La sola possibilità è quella di avanzare la conversazione»1 . Del tutto inedita è anche la partecipazione di un papa alla commemorazione di un altro scisma, quello luterano, tanto nuova da far commentare all’allora prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, il cardinale Gerhard Müller: «Non c’è niente da festeggiare». Il Papa però non va in Svezia a festeggiare. La storia per Francesco è un processo, non è cioè solo un libro da leggere ma anche un libro da scrivere: «Non possiamo rassegnarci alla divisione e alla distanza che la separazione ha prodotto tra noi», ha detto nella cattedrale luterana di Lund, «abbiamo la possibilità di riparare ad un momento cruciale della nostra storia, superando controversie e malintesi che spesso ci hanno impedito di comprenderci gli uni gli altri».
Anche per il dialogo interreligioso ci sono due date che vanno citate: quella del 26 maggio 2014, giorno dell’abbraccio a Gerusalemme davanti al Muro del pianto con il rabbino Abraham Skorka e con Omar Abboud, già segretario del Centro islamico di Argentina, e quella del 4 febbraio 2019, quando ad Abu Dhabi, insieme al Grande Imam di Al-Azhar Ahmad al-Tayyib, Francesco ha firmato la dichiarazione Fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune. Se nel primo caso a colpire è la potenza iconica del gesto, che evoca un futuro diverso per la Terra Santa e per il conflitto israelo-palestinese, nel secondo caso ci troviamo davanti a un documento che non si limita ad affermare un principio, quello della fratellanza universale, ma vuole dare vita a un processo educativo di cui le religioni possono essere insieme protagoniste: «Al-Azhar e la Chiesa cattolica domandano che questo documento divenga oggetto di ricerca e di riflessione in tutte le scuole, nelle università e negli istituti di educazione e di formazione, al fine di contribuire a creare nuove generazioni che portino il bene e la pace e difendano ovunque il diritto degli oppressi e degli ultimi».
Il primo poi a trarre ispirazione da questo documento è stato lo stesso Francesco, che ne ha preso spunto per scrivere la sua ultima enciclica, Fratelli tutti. Si tratta di un testo che esprime un’apertura universale: la Chiesa che dialoga con tutti, in un momento drammatico per l’umanità intera, quello della pandemia. Una Chiesa consapevole che nessuno si salva da solo e che si propone come protagonista di un processo, al termine del quale usciremo migliori o peggiori, ma sicuramente non uguali a prima2.
Note