La comunità: luogo dell’esperienza credente

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Non c’è posto nella Chiesa per forme individualistiche di credenza. La libertà è adesione per scelta a qualcosa/Qualcuno che apre a nuove possibilità di esistenza. Secondo questa prospettiva, ogni credente si pone accanto agli altri, accogliendo e donando il carisma proprio, affinché la comunità resti il corpo, cioè la visibilizzazione, del Signore Gesù.

Per affrontare il tema del ruolo della comunità nella vita di fede sembra opportuno premettere qualche breve osservazione sulla dimensione comunitaria dell’essere cristiani. Infatti, per quanto la fede sia un’esperienza radicalmente interiore, decisa dalla libertà di ciascuna/o e giocata là dove risiede il mistero più profondo della persona, essa è anche costitutivamente comunitaria. Chi crede nel Vangelo sa di averlo ricevuto e di essere chiamata/o a testimoniarlo: in questo modo la condivisione della medesima esperienza è tutt’uno con l’esperienza stessa. A questo però occorre aggiungere altro. La catena di testimonianze che costituisce la traditio ecclesiale va pensata non come una serie di anelli separati, ciascuno dei quali sarebbe un credente, ma come una moltitudine, un popolo che, mosso dal medesimo Spirito, riconosce in Gesù il Signore e vive di conseguenza. La traditio è un fiume che porta con sé tutta la vita della Chiesa (tutto ciò che essa è, ci dice la Dei verbum al n. 8) costituita dalla vita e dalla fede di tutti e di ognuna/o. Ciascuna goccia costituisce il fiume, ma solo insieme a tutte le altre. D’altra parte, lo Spirito, che viene donato ai credenti e senza il quale non è possibile nemmeno credere, altro non è che l’amore del Padre e del Figlio, per cui, quando viene riversato nei cuori dei credenti, li rivolge gli uni verso gli altri, costituendo i molti come membra di uno stesso organismo, le une a servizio delle altre per essere tutte insieme un solo corpo. Credere e amare sono in fondo la stessa cosa, perché la fede è un tipo di amore, anzi è – per citare Bernard Lonergan – essere illimitatamente inn-amorati, cioè scoprirsi immersi nell’amore sconfinato di Dio e lasciarsi muovere da esso, ridefinendo il proprio orizzonte esistenziale a partire appunto da questo amore, alla luce del quale vengono colti tutti i valori e si rinnova la comprensione stessa della realtà1 . Dal momento quindi che la fede stessa è un’esperienza d’amore che spinge ad amare per opera dello Spirito, si comprende bene come l’amore reciproco sia il luogo in cui è possibile sperimentare e vedere ciò che il Vangelo annuncia, cioè la comunione con Dio e la comunione fra esseri umani (cfr. Lumen gentium, n.1).

La fede ha bisogno della comunità

Su questa linea, nel Vangelo di Matteo la presenza di Cristo, la possibilità di incontrarlo, accoglierlo e servirlo, viene legata proprio al radunarsi dei credenti nel nome di Lui, cioè vivendo la sua stessa logica: «dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro» (Mt 18,20). E in questo senso va letta la promessa che chiude il primo Vangelo: «Ed ecco sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20). Il Gesù di Matteo non ascende al cielo, ma resta nei credenti che, radunandosi, sono capaci di renderlo presente, se vivono il Vangelo, cioè (così è tutta la logica del capitolo diciottesimo che riporta il discorso ecclesiologico di Gesù) se scelgono di farsi piccoli e, allo stesso tempo, se scelgono di prediligerli, accogliendoli e cercandoli2 . La piccolezza diventa così la dimensione fondamentale dei discepoli, perché è quella che Gesù ha scelto per sé identificandosi con i bambini («chi accoglierà un solo bambino come questo nel mio nome, accoglie me»: Mt 18,3) e con i fratelli più piccoli, come viene affermato nella descrizione del giudizio universale (Mt 25,31-46). La presenza di Cristo, l’esperienza di lui: la fede stessa ha bisogno della dimensione comunitaria nel suo momento sorgivo e, poi, continuamente. Ci si trova così intrecciati gli uni agli altri e gli uni per gli altri, animati dall’unico Spirito e impossibilitati a vedere il Risorto se non tramite il radunarsi nel suo nome, al punto che ci si può dire membra gli uni degli altri (cfr. 1Cor 12), costituenti il corpo stesso di Cristo. In quest’ottica, se qualcuno si separasse dagli altri, finirebbe per negarsi la possibilità di essere membro vivo del corpo di Lui. Bisogna concludere dunque che sono proprio le relazioni umane a trasmettere la fede e la vita di Dio. Al n. 113 dell’Evangelii gaudium papa Francesco scrive: «Questa salvezza, che Dio realizza e che la Chiesa gioiosamente annuncia, è per tutti, e Dio ha dato origine a una via per unirsi a ciascuno degli esseri umani di tutti i tempi. Ha scelto di convocarli come popolo e non come esseri isolati. Nessuno si salva da solo, cioè né come individuo isolato né con le sue proprie forze. Dio ci attrae tenendo conto della complessa trama di relazioni interpersonali che comporta la vita in una comunità umana. Questo popolo che Dio si è scelto e convocato è la Chiesa. Gesù non dice agli Apostoli di formare un gruppo esclusivo, un gruppo di élite. Gesù dice: “Andate e fate discepoli tutti i popoli” (Mt 28,19). San Paolo afferma che nel popolo di Dio, nella Chiesa “non c’è Giudeo né Greco... perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (Gal 3,28)». Se la fede è esperienza che intreccia le relazioni umane e stringe i credenti fra di loro fino a costituirli come un popolo, i cui membri sono così connessi da essere riconosciuti come un unico corpo, si capisce perché la comunità sia il luogo in cui la fede è vissuta e fatta crescere.

Un cammino condiviso

Il primo aspetto del ruolo della comunità nella vita di fede su cui ci si deve soffermare riguarda i carismi. Normalmente si usa il termine “carisma” per indicare qualche capacità riconosciuta come un dono fatto ai singoli credenti e tramite i quali questi possono servire gli altri. In realtà il carisma si può intendere in modo molto più radicale, come l’azione dello Spirito che invade il credente rendendo la sua stessa vita un’esistenza carismatica, cioè spinta dall’amore e offerta come dono agli altri3 . Si tratta dell’opera dello Spirito che, lasciato agire dal credente, lo rende membro vivo dell’unico corpo ecclesiale, configurandolo in modo unico e, allo stesso tempo, rivolgendolo al bene di tutto il corpo. In questo senso l’esistenza intera del credente va considerata un dono per la Chiesa e quindi non può essere pienamente vissuta e fatta fiorire senza che la Chiesa la riconosca come dono e l’accolga. Fino a che, infatti, un dono non viene riconosciuto, fatto proprio dal destinatario e in qualche modo “goduto” e quindi restituito, esso rimane infruttuoso, persino inutile: quindi, anche il dono costituito da ciò che lo Spirito opera nel credente, perché venga offerto alla Chiesa, deve essere riconosciuto dalla Chiesa4 . Se questo non dovesse avvenire, il dono andrà sprecato: il riconoscimento altrui infatti è indispensabile perché i credenti possano vivere ciò che lo Spirito dona loro di essere, e quindi per realizzare le proprie vite. Non si può vivere autonomamente la vita cristiana, dunque, proprio in quanto è esistenza carismatica, cioè offerta perché la Chiesa la riconosca come dono e se ne nutra. La comunità è allora lo spazio vitale e vivificante, nel quale porta frutto ciò che lo Spirito stesso opera in ciascuno di noi, ma allo stesso tempo è lo spazio vitale da cui attingere tutto ciò che lo Spirito opera negli altri. Se infatti ogni esistenza credente è carismatica, è chiaro che ciascuna/o è chiamata/o a riconoscere e accogliere le esistenze dei fratelli e delle sorelle come dono per se stessa/o. Nessuno può avere tutti i doni e tutti i carismi da solo, ma può godere di tutti i doni e i carismi proprio dentro quella rete di relazioni che costituisce la comunità e che, tutta insieme, ci restituisce l’intera opera dello Spirito. Una dinamica simile si può riscontrare anche nel cammino di santificazione, al quale tutti sono chiamati. La santità infatti non nasce nella solitudine di prestazioni eroiche, ma è abbarbicata alla moltitudine dei credenti che, come accade quando una folla cammina, trascina con sé nella direzione giusta anche chi è più titubante. A questo proposito riprendiamo quanto scritto da papa Francesco in Gaudete et exsultate, n. 3: qui, infatti, per sottolineare come la santità sia un dono vissuto da moltissimi nella Chiesa, e spesso nascostamente, il papa afferma che «siamo invitati a riconoscere che siamo “circondati da una moltitudine di testimoni” (Eb 12,1) che ci spronano a non fermarci lungo la strada, ci stimolano a continuare a camminare verso la meta». Poi, dopo aver puntualizzato come i santi restino in comunione con la Chiesa che ancora cammina nella storia, il papa torna a sottolineare come la santità sia un dono diffuso: «Lo Spirito Santo riversa santità dappertutto nel santo popolo fedele di Dio, perché “Dio volle santificare e salvare gli uomini non individualmente e senza alcun legame tra loro, ma volle costituire di loro un popolo, che lo riconoscesse secondo la verità e lo servisse nella santità”. Il Signore, nella storia della salvezza, ha salvato un popolo. Non esiste piena identità senza appartenenza a un popolo. Perciò nessuno si salva da solo, come individuo isolato, ma Dio ci attrae tenendo conto della complessa trama di relazioni interpersonali che si stabiliscono nella comunità umana: Dio ha voluto entrare in una dinamica popolare, nella dinamica di un popolo (Gaudete et exsultate, n. 6). Riprendendo quasi alla lettera quanto scritto in Evangelii gaudium e richiamando anche qui il secondo capitolo di Lumen gentium, papa Francesco ribadisce come siano le relazioni ecclesiali la trama dentro la quale la storia di santità di ciascuno può venire scritta, perché nessuno si salva da solo, nessuno può vivere i doni dello Spirito per sé e nessuno può portare a buon fine da solo la propria chiamata alla santità. Le relazioni con gli altri, infatti, il loro esempio, i loro doni, persino gli ostacoli che ci pongono davanti, finiscono per custodire il cammino credente, per farci crescere nella fede e nella vita. Proprio come dicevamo per i carismi, ciascuna/o ha il suo dono e il suo cammino non può essere identico a quello di nessun altro, ma questo non significa che sia possibile viverlo da sé: ciò che ciascuna/o è e spera di essere sembra realizzabile solo nella vita condivisa del popolo, senza essere parte del quale non si dà vita cristiana. La Gaudete et exsultate aiuta ad approfondire in che modo la comunità determini la crescita della vita cristiana: «la santificazione è un cammino comunitario, da fare a due a due. Così lo rispecchiano alcune comunità sante. [...] Allo stesso modo ci sono molte coppie di sposi sante, in cui ognuno dei coniugi è stato strumento per la santificazione dell’altro. Vivere e lavorare con altri è senza dubbio una via di crescita spirituale» (n. 141). Questo accade perché è proprio la comunità – come detto in apertura – lo spazio in cui il Signore si rende presente (cfr. Gaudete et exsultate, n. 142) e così la Parola, che ci convince dell’amore del Padre e ci converte, è sempre una parola ascoltata insieme, così come i gesti liturgici, che sostengono tutta la vita cristiana, sono sempre gesti di tutto il popolo, come indica il termine stesso di “liturgia”. Se infatti il sacramento che permette l’ingresso stesso nella vita cristiana, il battesimo, segna contemporaneamente anche l’ingresso nella Chiesa, l’Eucaristia, da cui la Chiesa stessa trae il proprio sostentamento, altro non è che ripetere il gesto capace di rendere presente il Risorto, che consiste propriamente nel mangiare insieme lo stesso pane. Il gesto centrale del vivere cristiano è un gesto comunitario. Se però è vero che sono la Parola condivisa e il gesto liturgico compiuto insieme a sostentare il cammino di ogni credente, è pure vero che la comunità è protagonista anche del cammino quotidiano che si esplica nei piccoli dettagli delle relazioni (cfr. Gaudete et exsultate, n. 143): «La comunità che custodisce i piccoli particolari dell’amore, dove i membri si prendono cura gli uni degli altri e costituiscono uno spazio aperto ed evangelizzatore, è luogo della presenza del Risorto che la va santificando secondo il progetto del Padre» (Evangelii gaudium, n. 145). È chiaro dunque che le relazioni, giocate nelle piccole occasioni di ogni giorno, come anche i gesti liturgici, sempre per loro intima natura gesti condivisi, e l’ascolto della Parola, scritta e rivolta ad ogni persona mentre viene rivolta al popolo intero, nutrono il cammino di ogni fedele, che impara così ad assecondare lo Spirito, a celebrare, a comprendere e testimoniare la propria fede e ad agire coerentemente con essa. Non è un processo individuale o risolvibile nella sola relazione con Dio, quanto piuttosto un cammino in cui la reciprocità e la condivisione con altri si rivelano come decisive proprio per poter vivere la propria personale relazione con Dio.

Comunità di annuncio

Camminare insieme e rivolgersi gli uni agli altri, inoltre, permette di discernere la voce dello Spirito che si fa udibile proprio là dove la Chiesa riesce a convenire dopo un processo di reale ascolto della realtà, della Parola e gli uni degli altri. Dalla condivisione della vita, della liturgia, del discernimento e della cura reciproca, sgorga poi un annuncio credibile, che si appoggia non sulla testimonianza di un singolo o sulle sue capacità persuasive, ma su ciò che la Chiesa vive e a partire dal quale può annunciare un amore che coinvolge tutti e chiama tutti a formare un’unica famiglia di figli e figlie di Dio. Neanche l’annuncio che possiamo fare, dunque, è un gesto che non coinvolge la comunità, e non solo perché tutto ciò che ciascuno è lo deve a quelli che intrecciano con lui la propria vita, ma anche perché è la vita della Chiesa, e quindi la vita condivisa dei credenti, che indica la credibilità di quanto è stato annunciato. Anche la comprensione della fede, e quindi la crescita della tradizione ecclesiale, è poi frutto della vita comunitaria, perché se ciascuna/o restituisce una comprensione dell’esperienza credente che si appoggia sul proprio vissuto e sulle proprie categorie, questa si confronta con quella di tutte le altre, armonizzandosi con esse o entrando in dialettica, in un processo vivace che permette alla Chiesa di tenere insieme innumerevoli interpretazioni dell’esperienza credente, senza permettere mai una polarizzazione che porti alla divisione o a espressioni incapaci di esprimere l’esperienza stessa5 .

Conclusione

Se ciascuna/o può vivere la propria esperienza credente solo grazie alla comunità cristiana, lasciandosi nutrire dai sacramenti e dalla Parola, condividendo la vita quotidiana per vivere la propria vocazione alla santità e venendo riconosciuta/o dagli altri come il dono che Dio voleva fare loro, è anche vero che tutta la comunità, come i suoi membri, sono debitori del proprio cammino anche a coloro che non fanno parte della Chiesa. Questa infatti vive in mezzo a tutti i popoli della terra e stringe con loro relazioni autentiche e appassionate (si veda il bellissimo testo di Ad gentes, n. 12), offrendo loro tutto ciò che può e imparando da loro quanto di prezioso essi hanno da offrire. Nessuno si salva da solo, nemmeno la Chiesa, e questo perché, mossa dallo Spirito di Gesù, la Chiesa non può che amare coloro che incontra e dedicarsi a custodire le loro vite. Che vogliano accogliere il Vangelo oppure no, cambia poco, perché la dinamica fondante è sempre l’amore che spinge i credenti verso tutti. Nel capitolo 27 del libro degli Atti, Paolo, nel mezzo di un lungo e terrificante naufragio, si dedica a rincuorare e custodire tutti quelli che erano sulla barca, credenti e non, amici e aguzzini, preoccupandosi non di salvare solo se stesso né tanto meno la barca e il suo carico (che forse potrebbero rappresentare le strutture ecclesiali e i tanti beni di diverso tipo accumulati lungo i secoli), ma di condurre in salvo tutti, perché figli di Dio sono quelli che, come Lui, vogliono che non si perda nessuno.

Note

1 Cfr. B. Lonergan, Il metodo in teologia, Queriniana, Brescia 1985.

2 Cfr. N. Gatti, Perché il piccolo diventi fratello. La pedagogia del dialogo nel capitolo 18 del Vangelo di Matteo, PUG, Roma 2007.

3 Cfr. S. Dianich, S. Noceti, Trattato sulla Chiesa, Queriniana, Brescia 2002, pp. 291-296.

4 Sulla fenomenologia del dono e l’applicazione a tutto il mistero della Chiesa si può vedere R. Repole, La Chiesa e il suo dono. La missione fra teologia ed ecclesiologia, Queriniana, Brescia 2019.

5 Cfr. E. Green, S. Segoloni Ruta, S. Zorzi, Sorelle tutte, La Meridiana, Molfetta 2021, pp. 92-103.