Sempre di più nei nostri tempi si rafforza nell’animo umano la convinzione che le controversie che possono nascere tra i popoli non si devono dirimere con le armi, ma con negoziati e accordi. C’è da dire che questa convinzione nasce, per lo più, dalla terrificante forza distruttiva propria degli attuali strumenti bellici e dal timore di calamità e spaventosi disastri che armi di questo genere provocherebbero. Per cui in questa nostra epoca, che si fa vanto della potenza atomica, è del tutto insensato [alienum est a ratione] pensare che la guerra sia atta a ristabilire diritti violati» (Giovanni XXIII, Pacem in terris, n. 67).
È del tutto insensato pensare che la guerra sia atta a ristabilire diritti violati. Eppure oggi assistiamo a una pericolosa legittimazione della guerra, che fa perdere di vista il suo carattere di insensatezza.
Si insiste molto, nei discorsi, sull’assurdità di una guerra determinata dall’invasione di un paese ad opera di un altro. Ed effettivamente la sensazione che avvertiamo, dinanzi alle scene terribili che arrivano dall’Ucraina, è quella dell’assurdo. Ci chiediamo come sia possibile che questo accada e avvertiamo interiormente la disumanità che produce, come qualcosa che stride contro ogni logica e che non si può tollerare. Tutto questo è assurdo, inconcepibile, inaccettabile.
È assurdo che vittime della guerra siano i civili inermi. È assurdo che vengano bombardati gli ospedali e le scuole, i luoghi della cura e della vita quotidiana. È assurdo che muoiano così tanti bambini e che molti altri siano costretti a vivere in condizioni disumane. È assurdo che le famiglie vengano separate, spezzate; che si sia costretti a fuggire, a lasciare la propria terra, non sapendo se mai ci si ritroverà con chi resta a combattere. È assurdo che intere città vengano rase al suolo seminando distruzione e terrore. È assurdo che la vita degli esseri umani sia calpestata, umiliata, negata, annientata.
Dinanzi a tutto questo i dibattiti televisivi suonano spesso come un infinito inutile commento: l’infinito commento di presunti esperti, sempre gli stessi. C’è un dramma che si consuma sotto i nostri occhi, ma il rischio è che si trasformi in un unico grande spettacolo, nel trionfo della banalità. Le opinioni opposte, esasperate, la sicurezza dei giudizi, la stigmatizzazione del parere altrui quando è diverso dal proprio, la polarizzazione degli sguardi e dei giudizi su quello che accade: come se si trattasse di una qualsiasi altra cosa, delle tante di cui i media sono pieni, con i relativi commenti che si inseguono in una successione senza fine e senza pensiero. Come se non ci fossero vite, persone, storie, affetti, dentro tutta questa assurda guerra. Da una parte e dall’altra. Perché i potenti fanno la guerra, gli Stati la decidono e ne gestiscono le sorti; ma è sulla carne viva della gente comune che la si combatte. Senza distinzioni. Aggrediti e aggressori sono vittime entrambi di una logica perversa che è quella della guerra come tale. Chi è aggredito, la guerra la subisce; ma chi è mandato a combattere in nome del proprio paese contro un altro, anche lui subisce la deformazione della realtà, l’esaltazione della forza, la giustificazione della violenza che la guerra porta sempre con sé.
Avvertire la tragedia della guerra
C’è un solo modo per sottrarsi alla disumanizzazione che la guerra produce, alla distruzione dell’umano a tutti i livelli, ed è rinnegare la guerra con tutte le nostre forze. Non lasciare che si spenga la nostra capacità di avvertirne la tragedia, ovunque essa si dia.
In questo numero di Dialoghi abbiamo scelto di dedicare un primo piano ai conflitti dimenticati perché non si immagini quanto sta accadendo in Ucraina come qualcosa di assolutamente inedito e se ne colga ancor più la drammaticità proprio in quanto tassello di un quadro più ampio di tensioni e di interessi che insanguinano da tempo ampie zone del mondo, talvolta senza che ad esse si presti attenzione.
Ci accorgiamo, forse, dell’esistenza di conflitti, perché quelli che scappano dalla violenza e dalla miseria che le guerre producono arrivano sulle nostre coste o premono alle nostre frontiere. E dinanzi a fiumi di persone disperate, che affrontano gli stenti, le fatiche, il pericolo della morte, per trovare rifugio altrove, in molti casi non sappiamo fare altro che distinguere fino all’esasperazione tra “rifugiati politici” e “migranti economici”, come se questa distinzione tenesse nell’intreccio inscindibile di fattori che lo scenario mondiale presenta. O, peggio ancora, ci preoccupiamo di difenderci da quella che immaginiamo come un’invasione. Alzare muri, chiudere i porti, limitare gli sbarchi. Respingere. Non importa se questo significa consegnare chi scappa ai lager della Libia o alle azioni disumane della polizia croata. Il Mediterraneo è il più grande cimitero d’Europa per una moltitudine che rimane spesso senza nome e la rotta balcanica è luogo di orrori inenarrabili, così come i boschi della Bielorussia.
Giorni fa parlavo con i miei studenti della guerra in Ucraina. Erano tutti particolarmente attenti tranne uno: uno studente africano, che se ne stava in silenzio, assente, con gli occhi bassi. Gli ho chiesto come mai. Mi ha risposto che in Africa orrori come quelli di cui stavamo parlando succedono da anni, ma nessuno se ne occupa. Ho avvertito con tristezza l’inconsapevole ipocrisia che regge spesso i nostri discorsi. Le guerre sono tutte uguali e i profughi che le guerre producono, in maniera diretta o indiretta, anch’essi sono tutti uguali.
Finché non ci renderemo conto dell’assurdità della guerra, di ogni guerra, continueremo a giustificarne o a tollerarne l’accadere, da una parte o dall’altra. Ma prendere consapevolezza dell’assurdità della guerra vuol dire capire che, ovunque essa si dia, è la voce della gente normale che viene ad essere soffocata e negata.
Assurdo è ciò che contrasta con la ragione, ma assurdo vuol dire anche sordo: sordo rispetto alle motivazioni e alle indicazioni che una retta ragione potrebbe offrire, ma ancor di più, in questo caso, rispetto a quello che la gente vorrebbe veramente; sordo rispetto alla sofferenza delle persone, rispetto al grido che viene dalle loro vite minacciate e distrutte. La guerra non la si combatte mai veramente in nome del popolo. In nome del popolo bisognerebbe piuttosto “combattere” per la pace.
Vincere la pace
Se vincere una guerra comporta immani sforzi, impiego di risorse economiche, investimento di risorse umane, strategie, alleanze, motivazioni e mobilitazioni, molto di più richiede “vincere la pace”, secondo la incisiva espressione usata da Maritain durante la seconda guerra mondiale, i cui orrori hanno reso evidente come non mai l’insensatezza di chi pretende di risolvere le tensioni con le armi.
Vincere la pace è assai più difficile. E non solo perché sulle macerie materiali, morali, psicologiche, che la guerra produce è ardua impresa ricostruire; ma perché la pace non si improvvisa e non è mai il frutto della paura, di una esibizione di forza che immobilizza gli equilibri impedendo che le tensioni esplodano. Vincere la pace richiede che ci si educhi al dialogo, alla mediazione; che si prenda atto della diversità dei soggetti nello scenario mondiale e ad essi si riconosca uguale dignità; esige che si accantonino gli schemi del pensiero unico della colonizzazione culturale e politica; che ci si avverta parte di un unico destino, ma nella diversità dei percorsi; che si impari a vedere le interconnessioni che ci fanno dipendere irriducibilmente gli uni dagli altri nella soluzione dei problemi.
Vincere la pace vuol dire rendersi conto che le sfide dinanzi alle quali siamo, e dalle quali dipende la sopravvivenza dell’umanità, ci toccano tutti allo stesso modo, qualunque sia la posizione di forza che si ha e che non possiamo che affrontarle insieme, ritrovando il senso autentico della progettazione politica; vuol dire ritrovare il senso di una concretezza effettiva che si nutre della capacità di lungimiranza. Vincere la pace è ritrovare quella condizione di autentica libertà alla quale spesso abdichiamo in nome di un falso realismo, che ci fa abbassare la testa dinanzi ai giochi di potere e assecondare dinamiche distruttive nell’idea che nulla si possa per impedirne il dilagare.
Più volte in questi mesi papa Francesco ha ribadito la follia della guerra, di ogni guerra, e ha invitato a pregare per i responsabili delle nazioni, affinché sappiano ascoltare il desiderio di riconciliazione della loro gente. Ascoltare – dice spesso il papa – è più che vedere. È toccare e lasciarsi toccare. Oltre l’assurdo, oltre la sordità di una assurda guerra.