Il pacifismo di Dorothy Day

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L’esperienza di Dorothy Day rappresenta il condensato di una vita tutta intessuta di fede e di impegno per la giustizia sociale, attenzione alle povertà, promozione della pace, sostegno ai lavoratori.

Ai vespri del 9 novembre 2010, in occasione del tren­tesimo anniversario della morte di Dorothy Day, avvenuta nel 1980, l’allora arcivescovo di New York, Timothy Dolan, scrisse: «È da tempo mia convin­zione che Dorothy Day sia una santa – non una santa “pan di zenzero” o santa da “santino” –, ma una moderna e devota figlia della Chiesa, una figlia che ha evitato l’esaltazione personale, e ha desiderato che il suo lavoro e quello di coloro che hanno lavorato al suo fianco, a nome dei poveri, poteva essere il segno distintivo della sua vita piuttosto che di se stessa». Si tratta certamente di una testimonianza molto importante poiché ci dà la conferma che la santità non è frutto di grandi e straordinarie imprese, ma è conseguenza di una paziente, umile e quotidiana applicazione del Vangelo.
Dorothy Day nasce l’8 novembre 1897, in un anno che per lei, in seguito, acquisterà una gran­de importanza e circa un mese e mezzo dopo la morte di Teresa di Lisieux, la santa che segnerà la sua vita a partire dal giorno in cui sua figlia Tamara Teresa vide la luce, il 4 marzo 1926.
Nata a Brooklin, nelle vicinanze del conosciu­tissimo ponte, terza di cinque figli, vi rimane fino all’età di sei anni per poi trasferirsi con la famiglia a Oakland, in California. È l’epoca in cui l’America vive il boom del capita­lismo, con un proliferare di industrie per l’acciaio e altre materie prime. È l’inizio di quel grande “sogno americano” che porta in quelle nuove terre, tra la metà dell’Ottocento e il primo venten­nio del Novecento, migliaia di emigranti provenienti da ogni par­te d’Europa. In questo contesto Dorothy Day comincia la sua vita e sarà proprio tra questa gente venuta da lontano che plasmerà la sua spiritualità, facendone una testimone di pace e carità.

Adolescenza
Molto presto Dorothy Day conosce il significato delle parole “po­vertà” e “privazione”, legate a una esperienza ben precisa: il terre­moto del 18 aprile 1906, che sconvolse San Francisco, e catapulta lei e la sua famiglia «da una soddisfatta felicità in un mondo di catastrofe». Eppure, quella esperienza terrificante sarà il punto di partenza per quella vita di carità e di donazione agli altri che si concretizza nel suo impegno sociale svolto nei bassifondi, tra gli operai immigrati e le loro famiglie, una scelta di vita durata sino alla fine dei suoi giorni.
Dalla California Dorothy e la famiglia si trasferiscono a Chicago, sulla 37th, in un appartamento dal quale potevano vedere benis­simo il lago Michigan. Ma non era certamente in un quartiere di lusso, bensì una casa popolare nella quale lei si vergognava di risiedere. È in questo tempo che Dorothy Day apprende due cose importanti: la “filosofia del lavoro” – ovvero “l’arte di sfregare i rubinetti fino a farli brillare” – e l’esistenza di un Dio molto di­verso da quello conosciuto superficialmente anni prima, un Dio capace di toccare l’uomo e “trasformarlo”, rendendolo capace di avvicinarsi a Lui.
Da adolescente legge autori importanti, nei quali l’aspetto religio­so emerge con forza, quali Dostoevski e Tolstoy ad esempio, ma anche i Salmi, la Bibbia e sant’Agostino, con il quale trova una forte congenialità, soprattutto nelle Confessioni, dove tratta della bellezza, della difficoltà e della gioia di amare un Dio che rapisce completamente colui che gli cede il proprio cuore. Ma come per sant’Agostino, anche per Dorothy Day il cammino verso la resa incondizionata a Dio si rivela lungo e faticoso, segnato dal co­stante conflitto tra carne e spirito, costellato di esperienze umane tragiche, ove assapora l’amarezza della solitudine, dell’esclusione, delle sperequazioni sociali, dell’ingiustizia, della miseria umana in tutte le sue forme, un mondo ove la fede fatica non tanto a cresce­re quanto a “perdurare”. La miseria del West Side, la lotta per la sopravvivenza fanno nascere in lei un forte desiderio di giustizia.

Anarchica e lontana da Dio
Crescendo il contrasto tra due mondi, la sua visione della “dispa­rità” tra gli uomini la porta ad una importante e difficile scelta: al­lontanarsi da Dio. A quindici anni legge J. London, M. Eden ed i suoi saggi sulla lotta di classe. Senza dubbio queste letture diverse le aprono la mente a ignote realtà e a nuove fondamentali scelte.
A sedici anni la sua vita cambia totalmente. Si diploma e si iscrive subito al Partito socialista, cominciando i suoi studi all’Università dell’Illinois, grazie ad una borsa di studio con la quale riesce a mantenersi per due anni. In questo periodo sposa l’idea marxista della religione quale “oppio dei popoli” e decide che nella sua vita essa è solo di intralcio. È l’inizio del suo impegno per i diritti degli ultimi e per la pace.
I suoi giorni, in quel periodo, trascorrono tra l’università, il lavoro, la fame, la solitudine, i grandi interrogativi che le tormentano la mente: disoccupazione, sfruttamento, malattie, incidenti sul lavo­ro, bambini orfani e malnutriti. Sono gli anni in cui molti predica­no l’antisemitismo, la nuova ideologia che stava prendendo piede soprattutto in Europa, scatenando, durante gli anni della Seconda guerra mondiale, uno dei più grandi olocausti della storia umana.

Giornalista
Quando la famiglia si trasferisce a New York a causa del nuo­vo lavoro di John Day al «Morning Telegraph», Dorothy capisce quanto sia ancora forte il vincolo emotivo che la lega alla famiglia e, dunque, ritorna a casa. Dopo essere stata assunta dal «Call», un quotidiano socialista apertamente pacifista, fa nuovamente la va­ligia e se ne va alla ricerca di un luogo dove vivere nella New York del 1917. Nella Grande Mela conosce subito le varie tendenze politico-sindacali che si scontrano all’interno del giornale per cui lavora e il movimento anarchico. Ammira profondamente Tolstoy e Kropotkin, che considera «moderni fautori dell’anarchia» e «uo­mini sinceri e pacifici».
All’inizio di marzo di quell’anno gli studenti della Columbia sono piuttosto attivi nel movimento per la pace e Dorothy lavora con loro, e non solo nel suo ruolo di giornalista. Partecipa alle riunio­ni, stampa volantini e centinaia di adesivi per protestare contro lo scoppio della guerra che era imminente. Di notte i giovani cam­minano insieme su e giù per la Fifth Avenue, nelle metropolitane e nel quartiere dei grandi magazzini, per attaccare gli adesivi sulle finestre e sui muri delle case.
L’acceso pacifismo la porta, nell’aprile del 1917, a Washington con un gruppo di universitari: sarà la prima tappa di una sorta di pellegrinaggio in varie città americane per manifestare per la pace e contro l’entrata in guerra degli Stati Uniti, marciando e distribuendo volantini alla folla sotto l’occhio vigile della polizia. In quei giorni scrive: «la guerra non è voluta dal popolo degli Stati Uniti. La federazione Emergency Peace lo ha dimostrato con il suo pellegrinaggio a Washington. La minoranza delle persone nel­le città di New York, New Jersey, Maryland e Pennsylvania è fer­mamente convinta di non volere la guerra. La maggioranza non sa bene perché le nazioni d’Europa stanno combattendo o perché gli Stati Uniti dovrebbero intromettersi se non per una vaga ed effi­mera idea di onore nazionale». In quel periodo conosce Trotzky, il quale teneva conferenze contro la guerra, chiedendo che gli Stati Uniti si schierassero a favore della pace e sostenendo che gli sforzi del presidente Wilson non avrebbero dato frutti.
Dopo poco tempo Dorothy lascia il «Call» e comincia a lavora­re con «The Masses». Fa ritorno nella capitale per manifestare contro l’incivile trattamento delle suffragette arrestate in una pre­cedente manifestazione. Così viene arrestata e condannata insie­me ad altre trentacinque donne. Sono giorni molto duri. Fa lo sciopero della fame insieme alle compagne di sventura, interrotto solo quando le autorità comprendono la determinazione di quelle donne. L’esperienza della prigione la segna nell’anima; ciò che le è più difficile sopportare sono il freddo e il buio. Ma ci sono anche le diverse situazioni umane con le quali Dorothy Day deve fare i conti ancora una volta: persone condannate per omicidio, drogati e pazzi, prostitute che, non si capiva perché, godevano di tratta­menti differenti tra loro.
Stanca delle «atrocità della vita», decide di dedicarsi alla cura degli ammalati. Così nel 1918, dopo avere svolto diversi lavori, si presenta come volontaria al King’s County Hospital. È un’esperien­za massacrante, di dura disciplina, ma che riporta Dorothy Day nel seno di una esperienza spirituale apparentemente perduta. Il contatto con i malati, specie con i convalescenti di guerra, non la lascia indifferente: quello era il frutto della guerra voluta dai potenti, perché i poveri volevano la pace.

Fondatrice del Catholic Worker
Gli anni Trenta sono dei più fecondi. Conosce Peter Maurin e con lui fonda il «CW», un giornale di impronta personalista: Maurin spinge Dorothy a riconsiderare la sua visione del mondo, della persona, della vita, per poter passare dal «collettivismo al persona­lismo cristiano», in special modo quello di Mounier e Maritain. Il giornale è “sinceramente pacifista”, si oppone sia alla guerra di classe che alla guerra imperialista e, soprattutto, alla preparazione di qualsiasi guerra, come stava accadendo nuovamente in Europa. Per Dorothy si sarebbe dovuto avere paura delle sofferenze e delle difficoltà causate dalla guerra.
Nel 1934 viene inaugurata la prima casa di ospitalità ad Harlem, ma resta aperta per poco. È allora che la sede di Fifteenth Street diventa anche casa di ospitalità. Successivamente, nel mese di dicembre, si apre la casa Teresa-Joseph: sei stanze per accogliere solo donne. Nel 1935, vista la folla di sventurati che si accalca per la distribuzione del cibo, la sede del «Catholic Worker» vie­ne spostata in un posto più grande, al 144 di Charles Street nel Greenwich Village: quattro piani semifatiscenti che i Workers cer­cano di rendere il più accogliente possibile.
Nel marzo del 1935 Dorothy annuncia una nuova iniziativa del «Catholic Worker»: l’apertura di una fattoria-scuola, dove «gli studenti possono essere lavoratori e i lavoratori studenti». Negli anni successivi si aprono altre case di accoglienza in tutto il paese e quella di New York dà da mangiare a più di quattrocento per­sone al giorno.
Le difficoltà che Dorothy Day e i volontari del «Catholic Wor­ker» incontrano sono tante. La più grande è l’incomprensione della stessa gerarchia cattolica americana. La radicalità dell’a­more predicato dai Workers non viene compreso dalla maggior parte dei cattolici americani, che vi scorge una forte parvenza di “comunismo”, nonostante Dorothy Day, Peter Maurin e i Workers si muovessero secondo la dottrina sociale della Chiesa, che però era poco conosciuta in America. Ma i Workers non sono ben visti anche a causa loro interesse per i diritti della gente di colore e per l’acceso pacifismo, di cui Dorothy Day diventa la paladina.
Durante la guerra di Spagna del 1936 negli Stati Uniti «quasi all’unanimità la gerarchia e la stampa cattolica americana par­teggiavano per Franco, sostenendo che il governo lealista era do­minato dai comunisti, non rappresentava la volontà del popolo spagnolo e tendeva alla distruzione della Chiesa in Spagna», al contrario dei Workers, apertamente pacifisti. In un editoriale del settembre 1938 Dorothy Day spiega con coraggio la posizione del «Catholic Worker» – spesso fraintesa dai cattolici – chiarendo che condanneranno sempre l’uso della forza come mezzo di risolu­zione delle controversie, opponendo la logica dell’istinto a quella dell’amore cristiano. L’atteggiamento è lo stesso quando scoppia la Seconda guerra mondiale.
Nel 1940 Dorothy Day deve difendere ancora una volta la loro posizione pacifista, ribadendo che i Workers sono «inflessibilmen­te contrari alla guerra come mezzo per salvare “cristianesimo”, “ci­viltà”, “democrazia”», per questo alcuni dei Workers chiamati alle armi si dichiarano “obiettori”. E scrive: «Non possiamo tacere. Non abbiamo taciuto di fronte alla mostruosa ingiustizia della guerra di classe, o alla guerra razziale che va di pari passo con questa guerra mondiale».
Negli anni Cinquanta vive il dramma della guerra di Corea e del­le migliaia di vittime, mentre ribadisce la sua assoluta posizione pacifista. Nel 1963, impressionata dalla figura di Giovanni XXIII, guida un gruppo di cinquanta donne in un pellegrinaggio paci­fista ed ecumenico a Roma per ringraziare il papa per la sua de­dizione verso la pace. Vi ritornerà nel 1965 con un altro gruppo di donne a sostegno dei padri conciliari che deliberavano sulla guerra e la pace. In Italia conosce Giorgio La Pira e don Luigi Giussani. L’impegno contro la guerra e per la pace la spinge a condannare apertamente la massiccia fornitura di armi al resto del mondo, soprattutto negli anni della guerra in Vietnam, ricor­dando le immagini di tutte le donne e i bambini che sono stati bruciati vivi o gli uomini che sono stati torturati e sono morti. Il suo impegno per la pace è durato tutta la vita.

Dorothy Day muore il 29 novembre 1980 in totale povertà, la­sciando ai suoi e al mondo la grande eredità dell’amore.

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Antologia

«Siamo in guerra, guerra dichiarata, con il Giappone, la Germania e l’Italia. Ma possiamo ancora ripetere le parole di Cristo, ogni giorno, tenendole strette nel nostro cuore, ogni mese stampandole sul foglio. In passato, l’Europa è stata un campo di battaglia. Ma ricordiamoci di san Francesco, che parlava di pace e lo ricorderemo anche ai nostri lettori, perché non lo dimentichino [...]. Siamo ancora pacifisti. Il nostro manifesto è il Discorso della Montagna, il che significa che cercheremo di essere operatori di pace. Parlando a nome di molti dei nostri obiettori di coscienza, non parteciperemo a guerre armate, né alla fabbricazione di munizioni, né all’acquisto di titoli di Stato per portare avanti la guerra, né all’incitamento ad altri sforzi. Cercheremo ogni giorno, ogni ora, di pregare per la fine della guerra» (Day after Day, in «The Catholic Worker», January 1942, 1, 4).
«Come obbedire alle leggi di uno stato quando sono contrarie alla coscienza dell’uomo? “Non uccidere”, afferma la legge divina. “Ti do un nuovo precetto che ami tuo fratello come io ho amato te”. San Pietro disobbedì alla legge degli uomini e affermò che doveva obbedire a Dio piuttosto che all’uomo. Le guerre di oggi comportano la distruzione totale, i bombardamenti di annientamento, l’uccisione di innocenti, l’accumulo di bombe atomiche e all’idrogeno. Quando si è arruolati per tale guerra, quando ci si iscrive alla leva per tale guerra, quando si paga l’imposta sul reddito, l’ottanta per cento della quale va a sostenere tale guerra, o si lavora dove si fabbricano armamenti, si sta partecipando a questa guerra. Siamo tutti coinvolti nella guerra in questi giorni. Guerra significa odio e paura. L’amore scaccia la paura» (The Pope and Peace, in «The Catholic Worker», February 1954, 1, 7).
«[Ma] non ci si può sedere e dire “la natura umana è quella che è, non puoi trovare un uomo che vince il suo avversario con l’a­more. Abbiamo paura della parola amore e tuttavia l’amore è più forte della morte, più forte dell’odio. Se non facciamo, come la stampa, una sottolineatura della legge dell’amore, tradiamo la no­stra fiducia, la nostra vocazione. Dobbiamo essere contrari all’uso della forza [...]. Non stiamo parlando di resistenza passiva. Amore e preghiera non sono passivi ma una forza più attiva ed appassio­nante. E chiediamo con dolore che coloro i quali sono con noi preghino con fede ed amore, e così potentemente da poter spo­stare le montagne di odio che si distinguono nel nostro cammino [...]. Noi non stiamo pregando per la vittoria di Franco in Spagna, una vittoria con l’aiuto del figlio di Mussolini che fa rabbrividire con i bombardamenti; con l’aiuto di Mussolini che si oppone al Santo Padre nei suoi pronunciamenti sul “razzismo”; con l’aiuto di Hitler che perseguita la Chiesa in Germania. Neppure stiamo pregando per la vittoria dei repubblicani i cui leader anarchici, comunisti ed anti-Dio stanno cercando di distruggere la religio­ne. Stiamo pregando per il popolo spagnolo – tutti fratelli nostri in Cristo – tutti loro tempio dello Spirito Santo, tutti membri o potenziali membri del corpo mistico di Cristo» (Peace not Victory, in «The Catholic Worker», September 1938, 1, 4.7).
«Molti dei nostri lettori chiedono: “Quale è la posizione del Ca­tholic Worker riguardo alla guerra in corso?” [...]. Ripetiamo che, come nella guerra etiopica, la guerra di Spagna, la guerra giappo­nese e cinese, la guerra russo-finlandese, così nella guerra attuale siamo inflessibilmente contrari alla guerra come mezzo per sal­vare “cristianesimo”, “civiltà”, “democrazia”. Noi non crediamo che possano essere salvati da questi mezzi. Per otto anni ci siamo opposti all’uso della forza nel movimento operaio, nella lotta di classe, così come nelle lotte tra i paesi [...]. In vari numeri del Ca­tholic Worker abbiamo ribadito questa posizione. Abbiamo citato il papa sulla “fallacia di una pace armata”. Abbiamo citato papa Pio XI che ha invitato la stampa ed il pulpito ad opporsi ad un incremento degli armamenti (ma ancora non siamo stati ascol­tati)» (Thoughts on Breadlines and on the War, in «The Catholic Worker», June 1940, 1, 4).