Domanda: chi tra noi è informato sulla guerra nel Tigrè? Eppure, dal novembre 2020, in Etiopia, si combatte. Da una parte il Fronte popolare di liberazione del Tigrè, dall’altra i militari del governo federale. Migliaia i morti, tra cui centinaia di civili; almeno quattrocentomila i profughi. Atrocità analoghe a quelle che abbiamo visto documentate in Ucraina – a Bucha e altrove – filtrano a fatica dal Corno d’Africa. Lo scorso 24 marzo Human Rights Watch ha pubblicato un report in cui informa che a gennaio, in un raid aereo nella città di Dedebit, sono state sganciate tre bombe su una scuola che ospitava sfollati tigrini, uccidendo una sessantina di civili e ferendone oltre quaranta. Quello nel Tigrè è uno dei tanti conflitti dimenticati, che formano la “guerra mondiale a pezzi” denunciata da papa Francesco.
Sulle nostre coste in questi anni sono arrivati molti giovani in fuga da Eritrea ed Etiopia, dove lotte armate, dittatura e povertà endemica rendono incerto il futuro. Ma non hanno trovato in Europa la stessa accoglienza riservata ai profughi ucraini. La guerra ai confini orientali del vecchio Continente ha provocato nell’opinione pubblica un sussulto di solidarietà. Nazioni finora tacciate di cinica durezza verso i migranti asiatici o africani in cerca di rifugio, come la Polonia e l’Ungheria, sono divenute improvvisamente ospitali e si è vista la gente aprire le proprie case con generosità.
Questo complesso quadro internazionale fa dunque da cornice al dramma ucraino. Potremmo dire perfino che ne è in qualche modo la conseguenza. Nella “geopolitica” – ha detto papa Francesco nell’udienza generale del 6 aprile, – «la logica dominante è quella delle strategie degli Stati più potenti per affermare i propri interessi estendendo l’area di influenza economica, ideologica e militare». Disinnescare la guerra vuol dire promuovere un nuovo modo di intendere i rapporti internazionali. E invece – è stato l’amaro commento del papa – «assistiamo all’impotenza dell’Organizzazione delle Nazioni Unite».
Con la fine del periodo di Cold War si sarebbe dovuto passare da un sistema bipolare al multilateralismo. La speranza (l’illusione?) era di far nascere finalmente un intreccio di rapporti più o meno paritari tra nazioni o gruppi di nazioni. Lo stesso Giovanni Paolo II, celebrando il grande Giubileo del 2000, sperava che, col terzo millennio, si sarebbe avviata una nuova era di pace. In realtà, subito dopo il crollo della cortina di ferro, si è visto che il ritorno alla libertà nei paesi fino a quel momento assoggettati a regimi autoritari apriva la corsa al consumismo più che favorire il respiro “a due polmoni” auspicato da Wojtyła.
La caduta dell’Unione Sovietica aveva spinto gli Stati Uniti ad attribuirsi il ruolo di unico “poliziotto del mondo”. Un’ubriacatura di potere che ha favorito errori clamorosi, a cominciare dalle due guerre del Golfo, giustificate ufficialmente con il desiderio di Washington di “esportare la democrazia”, ma in realtà legate al controllo di un’area strategica e ricca di petrolio. L’immagine simbolo di quel clamoroso “imbroglio” è quella dell’allora segretario di Stato americano Colin Powell che, nel 2003, all’Onu mostrò una falsa fialetta di antrace per provare che Saddam Hussein possedeva armi di distruzione di massa.
Nel frattempo è cresciuta a dismisura la capacità commerciale e militare della Cina, che si è imposta come terza superpotenza mondiale, sfruttando al meglio il suo doppio binario: comunismo politico e mercantilismo economico. Oggi è impensabile costruire un sistema planetario stabile senza il contributo cinese, che però rimane un cosmo a sé, chiuso nell’autoritarismo del partito unico e affidato alla guida del presidente-imperatore Xi Jinping. Le ambiguità della Cina sono emerse chiaramente nella vicenda ucraina: Pechino ha di fatto “protetto” Mosca senza rompere con l’Europa e cercando di approfittare dei nuovi scenari energetici e di mercato.
Dal canto suo l’Europa – intesa come Unione Europea – con lo scoppio della guerra in Ucraina sembra avere ritrovato una certa unità, riconoscendosi in valori comuni (la difesa della libertà, il rispetto dei diritti umani ecc.). Il problema è che questa unità viene usata in chiave antirussa, come arma contro il “nemico” Putin. Atteggiamento alimentato dall’azione parallela della Nato, che interpreta l’alleanza come capacità di difesa o di reazione militare. Sulla questione degli armamenti offerti all’Ucraina ci è sembrato di vedere quasi una sovrapposizione tra gli organismi Ue (Commissione e Parlamento) e la Nato. Da entrambe le parti è venuta ai governi degli Stati membri una chiara sollecitazione alla fornitura di materiale bellico all’esercito ucraino.
In Italia la questione ha acceso il dibattito politico-parlamentare. Ci si è chiesto quanto sia legittimo, oltre che opportuno, aumentare l’arsenale di un paese, sia pure in chiave difensiva. Le risposte non sono facili. Per i cristiani c’è un rimando allo spinoso tema della “guerra giusta”. Sappiamo bene che la guerra è sempre una sconfitta per tutti, d’altra parte c’è il diritto-dovere di difendere da un’aggressione se stessi, la propria famiglia, il proprio popolo. La nostra Costituzione, all’art. 11, «ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali». Bisogna tuttavia ricordare che la Repubblica italiana è nata dalla Resistenza al nazi-fascismo, una lotta compiuta col sangue. Non è questo lo spazio e il luogo per approfondire questo punto, che però rimane un elemento importante di valutazione per le nostre coscienze.
Oltre al concetto di “guerra giusta” occorre riflettere anche su quello di “guerra santa”. Dopo l’11 settembre 2001 ci eravamo concentrati sulla jihad, dimenticando secoli di carneficine compiute in nome di Cristo. Per correggere la nostra miopia sarebbe dovuta bastare la lezione del Novecento, con due guerre mondiali scatenate nel cuore della cristianità. Invece c’è voluta l’aggressione russa all’Ucraina per comprendere, speriamo con vergogna, che ci si può massacrare anche fra nazioni che si dicono cristiane.
La difesa della “vera fede” è divenuto uno degli alibi per bombardare e radere al suolo città piene di civili. Del resto, la guerra usa sempre la religione come paravento. Vale anche per l’Ucraina. La contesa del Donbass, iniziata nel 2014, ha esacerbato i nazionalismi ammantati di ortodossia. Dopo il fallimento di un concilio pan-ortodosso, si è arrivati nel dicembre 2018 al cosiddetto “scisma ucraino”, che ha segnato la separazione da Mosca degli ortodossi ucraini, peraltro divisi al loro interno in varie fazioni. Operazione benedetta dal patriarca ecumenico di Costantinopoli, Bartolomeo I, a sua volta in competizione col patriarca russo Kirill. Se il primo è storicamente la figura di riferimento di tutta l’ortodossia, il secondo è il rappresentante della “terza Roma”, come fu definita Mosca in epoca zarista. Kirill ha denunciato interferenze e discriminazioni in Ucraina nei confronti di sacerdoti e vescovi rimasti a lui fedeli, parlando addirittura di “persecuzione”. Questo spiega, in parte, il sostegno morale offerto a Putin per la sua “operazione speciale”. Di certo, l’autocefalia della Chiesa ortodossa ucraina, guidata dal patriarca Epifanyj, ha creato una spaccatura profonda e trasversale nel mondo ortodosso.
La Santa Sede si è mantenuta neutrale, ma gli equilibri sono difficili anche per il papa, che predica unità fra i cristiani. Da una parte c’è la sua fraterna amicizia con Bartolomeo, dall’altra l’avvicinamento a Mosca, con l’ipotesi di un nuovo incontro con Kirill, dopo quello di Cuba nel 2016. Sarebbe assurdo che da un ruolo di mediatrice nel dialogo ecumenico, la Santa Sede fosse spinta dentro una “faida” di religione che le è estranea. Ecco perché è ingenuo pretendere che il papa, quasi fosse un casco blu dell’Onu, si precipiti in ogni luogo in cui si accende un conflitto. Prima dei gesti clamorosi la tessitura della pace richiede un lavoro paziente e oscuro.