La democrazia ha bisogno dell’autorità? L’interrogativo si pone osservando il diffondersi di una partecipazione dal basso, distribuita, che parrebbe favorire la democrazia, mentre crea sfiducia nell’autorità politica (e non solo), e che non sembra in grado di rispondere alla richiesta di corresponsabilità. Ripensare le forme di esercizio dell’autorità va di pari passo con la necessità di ripensare la democrazia e richiede di ricostruire la fiducia tra le persone.
«La democrazia è decisamente sopravvalutata», recita una delle frasi preferite di Frank Underwood, l’immaginario presidente degli Stati Uniti protagonista della serie televisiva House of Cards. Ed è davvero difficile trovare una formula che in modo più efficace restituisca la portata della sfiducia che attraversa le nostre società e che mina in profondità le stesse basi delle nostre istituzioni. In quella famosa serie televisiva, in cui «il sogno americano è deliberatamente fatto a pezzi», tutti i personaggi (persino quelli secondari) risultano «in un modo o nell’altro, corrotti, cinici, calcolatori, ossessionati dalla stessa cosa, il potere, quale che sia il prezzo da pagare, per sé e per gli altri, pur di ottenerlo»1 . L’esercizio del potere sembra irrimediabilmente separato da qualsiasi ambizione ideale. E ogni residua fiducia nella democrazia viene cancellata da un cinismo onnipresente, che rende persino impossibile pensare al disinteressato perseguimento di una causa comune.
La fine del potere
Plasticamente raffigurati dalla sinistra sagoma di Frank Underwood, la sfiducia, il disincanto, il cinismo nei confronti della politica e della democrazia sono stati al centro, nel corso degli ultimi due decenni, di numerosi studi. Alcune letture hanno spiegato il fenomeno ricorrendo a una molteplicità di fattori, tra cui in particolare le turbolenze alimentate dalla crisi finanziaria globale del 2008 e le ricadute innescate dall’instabilità internazionale registratasi nell’ultimo decennio. Non pochi osservatori hanno invece attirato l’attenzione su un mutamento culturale più profondo, che modifica in modo radicale il rapporto tra cittadini e “autorità”, e che, per esempio, induce i cittadini post-moderni a ritenere il proprio giudizio sulla realtà come più affidabile rispetto a quello proposto da “autorità scientifiche”, o la propria competenza come superiore (o analoga) rispetto a quella degli specialisti. Alcune interpretazioni hanno dunque invitato a riconoscere il ruolo giocato dal dibattito filosofico novecentesco e in particolare dalla decostruzione delle “Grandi narrazioni”, compiuta sul terreno filosofico soprattutto a partire dagli anni Settanta del Novecento (ma già avviata dalla trasvalutazione di tutti i valori compiuta da Nietzsche). Per altre spiegazioni, l’attrazione della cosiddetta postverità è invece legata all’influenza di nuovi “persuasori occulti”, capaci di manipolare informazioni, di diffondere menzogne e – con ogni probabilità – anche di modificare le intenzioni di voto degli elettori (o almeno di alcuni elettori). Altre letture hanno infine sottolineato l’incidenza della trasformazione tecnologica che, abbattendo progressivamente i costi di accesso all’informazione, finisce col generare conseguenze destabilizzanti e col rendere sempre più fragili le basi di ogni autorità (non solo politica).
L’ex analista della Cia Martin Gurri, nel suo The Revolt of The Public and the Crisis of Authority in the New Millennium (originariamente pubblicato nel 2014), sostiene proprio una tesi di questo genere2 . Se nel passato le informazioni erano monopolizzate da un numero piuttosto ridotto di attori e organizzazioni, oggi una miriade di canali le diffonde e rende quasi alla portata di chiunque anche dati estremamente riservati. Sebbene in teoria la trasparenza favorisca la democrazia, in realtà, obietta Gurri, l’informazione diventa uno strumento formidabile di critica, che consente di indebolire (o persino di abbattere) qualsiasi genere di autorità (politica, culturale, religiosa).
Percorrendo una direzione simile, l’analista venezuelano Moises Naím ha evocato l’immagine di una vera e propria fine del potere per riferirsi a un processo in virtù del quale diventa sempre più difficile conservare stabilmente posizioni di controllo in tutte le grandi organizzazioni. Se per circa un secolo le armi per vincere la battaglia del potere (politico, economico, militare) erano state le grandi dimensioni e l’organizzazione burocratica, oggi, secondo Naím, quel ciclo sembra essersi chiuso, perché i diversi strumenti che consentono di esercitare il potere (la costrizione, la persuasione, la ricompensa materiale) sono a disposizione anche dei “piccoli” attori, che sono oggi in grado di insidiare le posizioni dei “grandi”, pur senza a loro volta sottrarsi all’insidia rappresentata dai nuovi sfidanti. In altre parole, sarebbe in corso un rovesciamento dei rapporti di forza a vantaggio dei “micropoteri”: incapaci di rimpiazzare del tutto i “macropoteri”, essi sarebbero comunque in grado di insidiare la loro posizione, di minacciarne la sicurezza, di logorarne l’autorevolezza e la reputazione.
A differenza di quanto sostiene Gurri, secondo Naím il fattore di innesco di una simile tendenza non deve essere individuato solo nelle trasformazioni tecnologiche, perché un ruolo altrettanto importante è giocato dai mutamenti demografici e culturali. Alla base della contemporanea “dispersione” del potere, per l’analista venezuelano, starebbero infatti anche processi più profondi e duraturi, che egli identifica nelle rivoluzioni del più, della mobilità e della mentalità. In sostanza, la crescita demografica degli ultimi decenni e l’incremento della mobilità avrebbero reso meno controllabili le persone, i territori e le frontiere. Inoltre, il significativo miglioramento delle condizioni medie di vita (specialmente al di fuori dell’Occidente) avrebbe alimentato la crescita delle aspettative in una fascia consistente della popolazione mondiale, diventata così molto più disponibile a mobilitarsi. Naturalmente questi processi hanno molti effetti positivi, ma la proliferazione dei “micropoteri” – a livello nazionale e internazionale – tenderebbe a rendere sempre più debole ogni autorità di governo, tanto da minacciare la stessa stabilità politica3 .
Lo spirito di democrazia
La tesi di Naím ha una serie di precedenti illustri. Forse il più noto risale alla metà degli anni Settanta, quando Michel Crozier, Samuel Huntington e Joji Watanuki stesero un famoso rapporto sullo stato della democrazia, su richiesta della Commissione Trilaterale. I tre studiosi non esitarono allora a evocare lo spettro di una “crisi della democrazia”, le cui radici affondavano in un epocale mutamento dei valori, che consisteva nello spostamento dai valori “materialistici” verso quelli “postmaterialistici”. Non si trattava di un mutamento che allontanava i cittadini dalla sfera politica, bensì di una dinamica che andava a rafforzare l’attitudine alla partecipazione. L’eccesso di partecipazione e la diffusione dello “spirito di democrazia” – sostenevano Crozier, Huntington e Watanuki – finivano però col mettere in crisi la stessa legittimazione dell’autorità politica e, dunque, la stabilità del regime democratico: «uno spirito di democrazia, troppo diffuso, invadente può – secondo loro – costituire una minaccia intrinseca e insidiare ogni forma di associazione, allentando i vincoli sociali che reggono la famiglia, l’azienda e la comunità»4 .
Nella lettura proposta dal rapporto per la Trilaterale erano ben evidenti gli accenti politicamente conservatori, ma probabilmente la «rivoluzione postmaterialista» evocata da Crozier, Huntington e Watanuki, sulla scorta delle ipotesi di Ronald Inglehart, ha molto a che vedere, in generale, con la crisi del “principio di autorità” che attraversa ancora oggi le nostre società. Si tratta di un meccanismo particolarmente evidente nella sfera politica e legato proprio alla diffusione dello “spirito di democrazia” (e alle sue molteplici conseguenze). Il “disallineamento” tra partiti e cittadini è infatti davvero una tendenza di lungo periodo, legata a trasformazioni sociali e culturali difficilmente reversibili. Come sostengono molti studiosi, si tratta anche della conseguenza della scolarizzazione di massa e dell’aumento dei livelli di istruzione: per un verso, la “mobilitazione cognitiva” favorisce infatti lo spirito critico; per l’altro, la riduzione (o l’annullamento) del divario culturale tra ceto politico e militanti dissolve il monopolio del sapere (e dell’ideologia) che contribuiva a “sacralizzare” la leadership. E si tratta di un mutamento culturale che non pare destinato a subire un’inversione di tendenza nei prossimi anni. Proprio in questo senso, si potrebbe persino sostenere che la crisi dell’autorità – una crisi in cui pare consumarsi l’aura “sacrale” del potere (e non solo del potere politico) – rappresenti il lascito più duraturo della contestazione giovanile della fine degli anni Sessanta. Nonostante le matrici dottrinarie dell’anti-autoritarismo di mezzo secolo fa siano ormai avvolte nell’oblio, la diffidenza nei confronti dell’autorità politica pare infatti essere diventata una sorta di “seconda natura” per i cittadini delle società post-moderne. Ed è con questa seconda natura che è indispensabile fare i conti5 .
Ricostruire la fiducia
Interpretazioni come quelle avanzate da Gurri e Naím – e prima ancora da Crozier, Huntington e Watanuki – hanno più di qualche fondamento e, nonostante alcune forzature, i dati che segnalano non possono essere negati. Il rischio di queste letture consiste però nel trascurare le potenzialità di una sfida che può essere definita per molti versi come “antropologica”. Forse un modo differente di guardare a questo processo consiste nel tornare a riconoscere in modo più netto la differenza – per noi spesso sbiadita – fra l’autorità e il potere, una differenza che anche pensatori novecenteschi come Hannah Arendt e Alessandro Passerin d’Entrèves hanno efficacemente riportato alla luce. Ma una strada ulteriore consiste anche nel riscoprire il nesso tra autorità e fiducia.
In un testo recente, Rachel Botsman – un’esperta delle conseguenze che le trasformazioni tecnologiche producono sull’economia – ha ricordato come la fiducia sia un ingrediente fondamentale per la buona riuscita di quasi ogni attività sociale ed economica. Come osserva la studiosa, si tratta di una «relazione ottimistica con l’ignoto», cioè di quella molla che consente agli individui di avviare attività incerte, nella convinzione che avranno un esito positivo. Ma il punto è che la fonte da cui deriva la nostra fiducia nel corso del tempo si è modificata. Nel passato la fiducia era soprattutto locale, nasceva cioè dalla conoscenza diretta dei propri simili, ed era perciò fatalmente legata alla piccola dimensione della comunità urbana. In seguito, con lo sviluppo dell’economia mercantile, è diventata istituzionale: prodotto cioè di grandi e autorevoli organizzazioni, capaci di svolgere un ruolo di intermediazione ma anche di garantire l’affidabilità dei singoli attori o il valore di una banconota. Oggi invece, proprio grazie alle tecnologie, la fiducia tende a essere distribuita: non discende cioè dall’alto verso il basso, ma segue un percorso inverso. E starebbe gradualmente conquistando terreno proprio questo nuovo tipo di fiducia, in cui è l’interazione tra individui (e non un soggetto controllore, che sta al di sopra di tutti) a consolidare la reputazione e l’affidabilità di ciascun operatore6 .
Probabilmente l’ipotesi di Botsman è fin troppo ottimistica e sottovaluta il fatto che molte delle piattaforme in cui si dovrebbe costruire oggi la fiducia distribuita non sono “neutrali” e neppure immuni da rischi di manipolazione. Ma è difficile negare la portata dell’ascesa della fiducia “distribuita” e della sfida che essa comporta per tutte le organizzazioni. Forse proprio questa strada potrebbe d’altronde contribuire a farci uscire dalle secche di una discussione che tende a cercare rimedi alla “crisi dell’autorità” in terreni diversi da quelli in cui si origina. E potrebbe spingerci a riconoscere come, nella stagione della “fine del potere”, le democrazie – che certo hanno bisogno di efficaci poteri decisionali – non possono neppure fare a meno di rafforzare la partecipazione dei cittadini, anche in modi differenti rispetto al passato. Come ha ricordato papa Francesco in occasione del suo viaggio pastorale ad Atene nel dicembre 2021, «la partecipazione di tutti», nonostante sia complessa da garantire, «è un’esigenza fondamentale» soprattutto «perché risponde a quello che siamo: esseri sociali, irripetibili e al tempo stesso interdipendenti». Benché non siano risultati facili da raggiungere, la valorizzazione dei meccanismi “orizzontali” di fiducia e il rafforzamento della democrazia “dal basso” – al livello delle nostre strutture comunitarie – potrebbero davvero rappresentare una soluzione per arrestare la proliferazione del cinismo, del disincanto, dello «scetticismo democratico»7 . E forse, solo ripensando le organizzazioni politiche in questa direzione, potremo evitare quel corto circuito tra promesse e disillusione che le nostre democrazie non sembrano più in grado di controllare.
Note
1 D. Moïsi, La geopolitica delle serie tv. Il trionfo della paura, Armando, Roma 2017, pp. 102-103.
2 M. Gurri, The Revolt of The Public and the Crisis of Authority in the New Millennium, Stripe Press, San Francisco 2018.
3 Cfr. M. Naím, La fine del potere. Dai consigli di amministrazione ai campi di battaglia, dalle chiese agli stati, perché il potere non è più quello di un tempo, Mondadori, Milano 2013.
4 M.J. Crozier, S.P. Huntington, J. Watanuki, La crisi della democrazia. Rapporto sulla governabilità delle democrazie alla Commissione trilaterale, FrancoAngeli, Milano 1977, p. 149.
5 Cfr. D. Palano, La democrazia senza partiti, Vita e Pensiero, Milano 2015.
6 R. Botsman, Di chi possiamo fidarci? Come la tecnologia ci ha uniti e perché potrebbe dividerci, Hoepli, Milano 2017.
7 Cfr. per esempio la proposta avanzata da C. Taylor, P. Nanz, M. Beaubien Taylor nel volume Una nuova democrazia. Come i cittadini possono ricostruirla dal basso, Il Margine, Milano 2022.