C’è un rapporto tra l’hate speech, il linguaggio dell’odio, ed episodi di intolleranza, discriminazione e violenza?
Solo una “comunicazione costruttiva” permette alle parole di essere strumento di pace e non di violenza.
S empre più va diffondendosi nel dibattito pubblico l’attenzione verso l’hate speech (o linguaggio d’odio, per impiegare l’espressione italiana) e si susseguono le iniziative per contrastare tale fenomeno, in considerazione del nesso tra espressioni d’odio, da una parte, e atti di intolleranza, discriminazione o violenza, anche terroristica, dall’altra. Prima di trattare del rapporto esistente tra discorso d’odio e violenza, è bene, però, premettere che non esiste né a livello nazionale, né internazionale, una definizione condivisa di hate speech.
In particolare, se è pacifico come tratto identificativo dell’hate speech il fatto di essere indirizzato nei confronti di uno specifico gruppo di persone che condivide una particolare caratteristica (come l’etnia, la nazionalità, la religione, il sesso, la disabilità), è, invece, piuttosto controverso quali possano essere considerate espressioni di odio/ ostilità/pregiudizio, tali da costituire un discorso d’odio. Di conseguenza, al novero degli hate speech si può ricondurre una vastissima gamma di espressioni, che va dalla vera e propria istigazione alla violenza contro uno specifico gruppo etnico o religioso, al mero impiego dei pronomi maschili e femminili, da taluni ritenuto non rispettoso del divieto di discriminazione sulla base dell’identità di genere.
Molte delle forme di discorso d’odio sono categorie note e risalenti: l’istigazione alla violenza, le offese, il vilipendio, la diffamazione, l’ingiuria; mentre una forma nuova, ma piuttosto diffusa, è la stereotipazione negativa, ovverosia l’accostamento generalizzato ad un gruppo di persone di una caratteristica negativa, tale da gettare una luce negativa sull’intero gruppo1 . Un’altra forma di hate speech, di attualità anche nel contesto italiano, è il negazionismo della Shoah o dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra, di recente previsto come reato dalla legge n. 115 del 20162 . Vi sono, infine, categorie molto più fluide, come la marginalizzazione o la stigmatizzazione sociale, che – come si è detto – allargano molto il perimetro del potenziale hate speech.
Ed è proprio l’indeterminatezza e potenziale infinitezza del concetto a far sì che vi siano perplessità, se non – a volte – aperta contrarietà, rispetto alla prevenzione ed al contrasto del discorso d’odio, poiché si teme che ciò si risolva in un’indebita limitazione della libertà d’espressione. Emerge, dunque, il punto critico, ed allo stesso tempo centrale, del tema: il rapporto tra esercizio della libertà d’espressione e possibili limitazioni alla stessa.
Sul punto occorre considerare che la libertà di espressione – come affermato in una celebre e storica sentenza della Corte europea dei Diritti dell’Uomo3 – vale non solo per le informazioni o le idee che sono accolte con favore o considerate inoffensive o con indifferenza, ma anche per quelle che offendono, scioccano o inquietano lo Stato o una parte della popolazione. Tuttavia, come indicato dall’articolo 19 del Patto internazionale delle Nazioni Unite relativo ai diritti civili e politici, la libertà di espressione «comporta doveri e responsabilità speciali», sicché è universalmente riconosciuta la possibilità che tale diritto possa essere sottoposto a restrizioni, laddove esse siano necessarie al rispetto dei diritti o della reputazione altrui ovvero alla salvaguardia della sicurezza nazionale, dell’ordine pubblico, della sanità o della morale pubbliche, e rispondenti al canone di proporzionalità tra l’entità della restrizione ed il fine perseguito. A corollario di queste previsioni, l’articolo 20 del medesimo Patto stabilisce che debbano essere vietati dalla legge «qualsiasi propaganda a favore della guerra» nonché «qualsiasi appello all’odio nazionale, razziale o religioso che costituisce incitamento alla discriminazione, all’ostilità o alla violenza».
Queste limitazioni poste all’hate speech trovano fondamento nella considerazione che, benché non vi sia un rapporto causale deterministico, la violenza motivata da odio o pregiudizio tendenzialmente non emerge ex abrupto, ma è il risultato di un contesto di intolleranza e discriminazione che conduce a, o perlomeno giustifica, la violenza contro un determinato gruppo di persone.
Per quanto concerne, poi, il terrorismo, uno dei fattori che conduce alla radicalizzazione terroristica di un singolo individuo è l’esposizione a idee o narrative che legittimano il terrorismo, con la conseguenza che certi discorsi d’odio possono favorire tale radicalizzazione, mentre, per altro verso, situazioni di diffusa intolleranza e discriminazione (reale o percepita), originate anche da hate speech, rappresentano condizioni strutturali che possono portare a fenomeni terroristici motivati da sentimenti di rivalsa.
Il cyberhate
L’ampio rilievo che l’hate speech ha nel dibattito odierno deriva anche dal fatto che, con l’avvento di Internet, lo scenario è cambiato radicalmente. Infatti, fino a relativamente poco tempo fa, il linguaggio d’odio poteva esprimersi solo in manifestazioni pubbliche o mediante stampa, sicché la repressione dello stesso era molto agevole: il divieto o lo scioglimento della manifestazione, il sequestro degli stampati. Anche l’avvento della radio e della televisione non aveva mutato molto il contesto, dato che pure questi media erano e sono controllabili con facilità.
Internet, invece, ha portato ad un cambio totale di paradigma, perché chiunque, senza investire alcun capitale, può aprire un sito Internet o un blog, pubblicare un post su Facebook o caricare un video su YouTube, i cui contenuti non vengono controllati preventivamente da nessuno e che potenzialmente possono raggiungere una platea mondiale. I social network, inoltre, consentono a qualsiasi messaggio di diventare virale (in grado, cioè, di essere visto in brevissimo tempo da decine, se non centinaia, di milioni di persone), con un effetto moltiplicatore che nessun medium ha mai avuto in precedenza. L’autore dei messaggi, infine, può facilmente occultare la propria identità, rendendo molto difficile la sua effettiva identificazione.
In un tale contesto, le possibilità per le autorità dello Stato di intervenire sul cyberhate cioè il discorso d’odio su Internet) sono molto limitate, anche perché le società di Internet rifiutano di assoggettarsi a legislazioni o autorità giurisdizionali diverse da quelle scelte dalle medesime società4 e gli apparati tecnologici che materialmente erogano tali servizi sono situati all’estero (rimanendo, così, sottratti a misure cautelari reali). Ogni intervento coercitivo da parte delle autorità statali è, dunque, molto difficile, se non impossibile, salvo che non venga spontaneamente recepito dalla società interessata.
Alla base di questa posizione delle società di Internet vi è sicuramente una motivazione ideale, nella convinzione che la Rete sia lo strumento per diffondere democrazia, libertà ed eguaglianza dando la possibilità a tutti di esprimersi e che, pertanto, ogni possibile limitazione sia pericolosa, ma vi è pure una motivazione commerciale, poiché i ricavi di tali società sono collegati alla diffusione dei messaggi da esse veicolati su Internet.
Le risposte all’hate speech
Delineati, seppur sinteticamente, il contesto attuale e le sfide che esso pone, occorre valutare quali siano le possibili risposte all’hate speech. Con tutta evidenza la repressione penale non può e non deve essere l’unica via, dovendosi affidare la prevenzione ed il contrasto del discorso d’odio ad una pluralità di azioni.
In primo luogo, un ruolo fondamentale nella prevenzione di espressioni e atti d’odio è svolto dal contesto educativo, poiché esso agisce alle radici del fenomeno. Già solo il mero fatto di crescere in un ambiente pluralistico, nel quale ciascun bambino o ragazzo ha l’opportunità di esprimere la propria identità, così come la possibilità di imparare l’uno dalla diversità dell’altro, è uno strumento formidabile per promuovere la tolleranza e la non discriminazione sin dalle più giovani generazioni. Risultano utili anche programmi volti a favorire la comprensione reciproca ed il rispetto per la diversità, rispetto ai quali è bene, però, evidenziare il rischio che si fondino su un approccio del tutto relativistico (tale per cui qualsiasi opzione morale o religiosa avrebbe eguale validità e meriterebbe eguale rispetto), che potrebbe porsi in contrasto con le convinzioni morali e religiose dei genitori.
L’autoregolamentazione, poi, è considerata, soprattutto in ambito internazionale, lo strumento privilegiato per la prevenzione ed il contrasto del discorso d’odio, poiché con essa le persone si impegnano volontariamente a non impiegare un certo linguaggio, conformemente ad un codice etico o deontologico cui aderiscono, mentre la verifica del rispetto di tale impegno è affidata alla moral suasion esercitata dai vertici dell’ente o a sanzioni disciplinari irrogate dai competenti organi.
L’efficacia dell’autoregolamentazione risiede pure nel fatto che le espressioni vietate da essa non sono solo quelle penalmente rilevanti (l’uso delle quali espone l’autore sia alla sanzione penale, sia a quella disciplinare), ma anche – e soprattutto – espressioni che, seppure non vietate dal diritto penale, costituiscono comunque hate speech, ampliando quindi l’azione di contrasto rispetto a quella che può essere svolta dallo Stato.
L’ambito di applicazione dell’autoregolamentazione è molto vasto, poiché essa può essere adottata da società commerciali, ordini professionali, università, società sportive, ecc. È, tuttavia, nell’ambito politico che l’autoregolamentazione può svolgere un ruolo decisivo, poiché si tratta di un contesto nel quale interventi coercitivi da parte delle autorità statali o sono impediti da immunità costituzionali o, comunque, sono considerati un’extrema ratio, volendosi assicurare massima libertà ai rappresentanti dei cittadini. Allo stesso tempo, però, il discorso politico è quello che più facilmente può attecchire e guidare il comportamento degli individui, sicché il ceto politico ha una grande responsabilità nell’esercitare la propria libertà di espressione. Un’autoregolamentazione scelta dai partiti politici (nel senso di impegnare i propri iscritti ad un linguaggio rispettoso, tollerante e non discriminatorio) oppure prevista dai regolamenti degli organi elettivi, costituisce uno strumento molto valido per vincolare i leader politici ad un discorso politico responsabile.
Un tema a sé è quello dell’autoregolamentazione dei media, che deve tener conto della complessità derivante dal progresso tecnologico. Infatti, l’autoregolamentazione dei giornalisti, siano essi della carta stampata, della radio o della televisione, è un istituto noto ed impiegato da tempo5 . Sennonché, al giorno d’oggi, l’opinione pubblica non viene formata dai media tradizionali, ma da molteplici attori presenti su Internet, sottratti ai regimi regolamentati nazionali e per i quali operano persone che non sono giornalisti professionisti.
In relazione a questi nuovi contesti, l’autoregolamentazione può funzionare solo nel momento in cui il soggetto che si impegna non è l’autore del contenuto, bensì la società che fornisce il servizio Internet impiegato dall’autore per diffondere il proprio messaggio. In tal senso è di particolare importanza ed interesse il Codice di condotta sull’illecito incitamento all’odio online che alcune grandi società di Internet (Facebook, Google, Microsoft e Twitter) hanno lanciato assieme alla Commissione europea, col quale si sono impegnate, tra l’altro, a predisporre regolamenti per i propri utenti in cui vengono vietati la promozione dell’istigazione alla violenza e a comportamenti improntati all’odio.
In considerazione dell’enorme volume di messaggi presenti sulla rete, le società di Internet non possono individuare tutti i casi, ma devono basare la propria risposta sulle specifiche segnalazioni che ad esse pervengono da utenti, organizzazioni della società civile o attori istituzionali. Inoltre, i criteri da esse impiegati per stabilire cosa costituisca hate speech e cosa, invece, sia espressione della libertà di pensiero, non sono trasparenti e si prestano ad interpretazioni arbitrarie. D’altro canto, si tratta di società commerciali che agiscono nei confronti dei propri clienti, nell’ambito di un rapporto contrattuale, per cui, a meno di non ripensare radicalmente la governance della Rete, è solo attraverso l’iniziativa delle società di Internet che si può agire sul cyberhate.
Da ultimo è necessaria anche la risposta penale, da impiegare come misura di ultima istanza per i casi più gravi. Al riguardo, con la Decisione quadro 2008/913/JHA del 28 novembre 2008, l’Unione europea ha richiesto che ciascuno Stato membro adotti una legislazione che punisca, tra l’altro, «l’istigazione pubblica alla violenza o all’odio nei confronti di un gruppo di persone, o di un suo membro, definito in riferimento alla razza, al colore, alla religione, all’ascendenza o all’origine nazionale o etnica», ovverosia quelle ipotesi in cui è più visibile e prossimo il nesso tra le espressioni impiegate e la possibile violenza. Non prevedere una sanzione penale per tali fattispecie significherebbe condannare le potenziali vittime a subire la violenza, prima che intervenga la risposta punitiva dello Stato.
Occorre, poi, sottolineare come la risposta penale non si esaurisca nell’introdurre una previsione che punisce l’hate speech, ma richiede che i casi denunciati siano prontamente ed attentamente investigati ed oggetto di processo penale, qualora ne ricorrano i presupposti, e che le sanzioni irrogate siano effettive e dissuasive, poiché altrimenti la tutela offerta dallo Stato resta teorica ed illusoria.
Per una comunicazione costruttiva
Conclusivamente, occorre notare come troppo spesso il rapporto tra libertà di espressione e promozione della tolleranza e non discriminazione venga visto come un rapporto conflittuale, come se uno escludesse l’altra e viceversa. Bisogna, invece, considerare che l’hate speech non costituisce un esercizio della libertà di espressione, ma è un abuso della stessa, mentre le legittime restrizioni alla libertà di espressione sono volte ad assicurare a tutti diritti fondamentali, come quello alla vita, alla sicurezza e all’eguaglianza, quindi – in ultima istanza – a tutelare la dignità della persona umana. Come insegna papa Francesco, l’autentico e responsabile esercizio della libertà di espressione avviene mediante una «comunicazione costruttiva che, nel rifiutare i pregiudizi verso l’altro, favorisce una cultura dell’incontro, grazie alla quale si può imparare a guardare la realtà con consapevole fiducia»6 . In tal modo, il pensiero di ciascuno, anche se scomodo o non condivisibile, contribuisce al pluralismo delle nostre società e permette che l’opinione pubblica si formi in maniera corretta e matura. Viene, così, a crearsi un clima di fiducia e rispetto reciproci tra comunità, nel quale le parole sono strumento di pace e sicurezza, non di violenza.
Note
1 Si pensi ad espressioni quali: «Gli zingari sono tutti ladri» oppure «I musulmani sono tutti terroristi».
2 Non è possibile in questa sede esaminare le problematicità di tale legislazione, con riferimento sia alla scelta di fondo di perseguire penalmente il negazionismo, sia alla difficoltà di definire la condotta penalmente rilevante.
3 Il riferimento è alla sentenza Handyside contro Regno Unito del 7 dicembre 1976.
4 Usualmente leggi e giudici di uno stato degli Usa, dove la libertà di espressione incontra le minori limitazioni possibili.
5 Si pensi alla Carta di Treviso, del 5 ottobre 1990, per la tutela dei minori da parte dei mezzi d’informazione.
6 Papa Francesco, Messaggio per la 51ma Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali.