Il conflitto tra Hamas e Israele è degenerato in uno scontro regionale che coinvolge altre nazioni, con attacchi israeliani in Siria, Libano e Yemen. Mentre i civili soffrono le conseguenze, le uniche vie di pace sembrano allontanarsi.
Alla fine, quel che si temeva è avvenuto: lo scontro tra Hamas e Israele si è trasformato in conflitto regionale, innescando una spirale che ci porta – come direbbe papa Francesco – «a una guerra quasi mondiale»1. Chiedersi di chi sia la colpa è attardarsi su questioni che interessano la storia più che il presente. L’odio pro duce odio, questa è l’unica certezza. Il sentimento di oppressione cresciuto per decenni e decenni tra i palestinesi, specie nella Stri scia di Gaza, ha portato ai massacri selvaggi del 7 ottobre 2023; il sentimento di minaccia della propria esistenza ha favorito la risposta brutale dello Stato ebraico.
Chi ha saputo cavalcare meglio quest’onda emotiva è stato Benjamin Netanyahu, che anziché pagare per le falle clamorose aperte si nel blitz terroristico di Hamas, ha rafforzato la propria leadership mantenendo il suo paese in un costante stato di guerra, prima a Gaza e poi contro gli Hezbollah e l’Iran, fino all’invasione di terra del sud del Libano. Sen za contare i costanti attacchi aerei sulla Siria e quelli contro gli Houthi nello Yemen, altri rami dell’asse filoiraniano. L’intervento armato di Israele si è consumato nel vuoto delle proposte politiche sul futuro assetto del puzzle israelo-palestinese e mediorientale. Anzi, si sono allontanate ancor più (ma forse si voleva proprio questo?) le uniche possibilità di pacificazione dell’area, a cominciare dalla soluzione “due popoli, due Stati”.
L’effetto domino ha fatto il resto, nella sfida fra due mondi (ebraico e islamico) che considerano entrambi la vendetta non solo legittima ma doverosa, in base alla legge del taglione e al jihād. E di fronte a una comunità internazionale, Onu e Ue in primis, sempre più atona. Le Nazioni Unite sono state umiliate con i ripetuti attacchi dell’esercito israeliano alle postazioni dei caschi blu in Li bano, dove il contingente più nutrito dell’Unifil è quello italiano con milleduecento uomini. Israele si è giustificato affermando che i miliziani di Hezbollah usano i siti della forza di interposizione come scudo per coprire i depositi di armi e le rampe di lancio dei razzi che finiscono in Galilea.
Non basta questo, però, a giustificare azioni che sanno di parossismo, senza freni di fronte a nulla. Colpendo le truppe internazionali, Israele finisce per alzare la mano contro i suoi stessi alleati, che finora lo hanno armato e giustificato nella difesa della propria sovranità. Non basta: l’effetto più grave è il riaccendersi nel mondo del senti mento antisemita, un demone che torna a insidiare le coscienze di molti, rischiando di riportare indietro le lancette della storia.
Con le sue posizioni oltranziste il governo israeliano è arrivato a mettere fuorilegge l’Unrwa, l’Agenzia Onu che da sempre assiste i profughi palestinesi, accusata di connivenza con Hamas. Senza l’ombrello dell’Unrwa chi proteggerà i due milioni di abitanti di Gaza che già vivono in condizioni umanitarie terrificanti? Israele promette che saranno attivate altre agenzie, come l’Unicef, che però ha bollato la chiusura dell’Unrwa come «un altro modo per uccidere i bambini palestinesi».
Il fatto è che a nessuna delle parti in causa sembra importare il prezzo di questa escalation, pagato in grandissima parte dai civili, tra cui moltissimi bambini. Ai milleduecento morti e ai duecentocinquanta rapiti israeliani dell’attacco di Hamas, sono seguiti i quarantadue mila palestinesi uccisi a Gaza e le oltre duemilasettecento vittime del Libano, dove l’esodo dei profughi ha dimensioni bibliche. Qui, dall’inizio dei raid e dell’invasione israeliana, più di mezzo milio ne di persone ha attraversato il confine con la Siria, compiendo a ritroso il cammino che anni prima aveva percorso per scampare ai tagliagole del Daesh e alle rappresaglie del regime di Assad.
«Se ci colpite, colpiremo voi», è stato sempre lo slogan di Netanyahu. Il premier israeliano è però andato oltre, passando agli attacchi “preventivi”. Prima vittima illustre di questa strategia è stato il leader politico di Hamas, Ismail Haniyeh, ucciso a fine luglio da un razzo esploso nell’edificio di Teheran dove alloggiava. Da allora la “caccia all’uomo” non si è più fermata, a Gaza, in Libano e ovunque. Obiettivo: decapitare le cupole di Hamas e di Hezbollah. Il 27 settembre il Partito di Dio ha perso il suo capo supremo, Hassan Nasrallah, rimasto sotto le macerie dei bombardamenti israeliani su Beirut. Il 7 ottobre è toccato a Yahya Sinwar, leader politico-militare di Hamas, per gli israeliani “il macellaio, per molti palestinesi un simbolo del cosiddetto “asse della resistenza”. Sinwar è stato ucciso “per caso” durante uno scontro a fuoco a Gaza tra un gruppo di miliziani e una pattuglia della IDF (Israel Defense Forces). C’è chi dice che Netanyahu non avesse fretta di eliminarlo, in modo da mantenere alta la pressione armata sulla Striscia. Senza Sinwar, invece, hanno ripreso fiato le trattative per giungere alla liberazione degli ostaggi israeliani e a una tregua nella Striscia.
Di certo l’eliminazione fisica dei nemici al vertice non basta a Israele a garantirsi il controllo di Gaza e dei Territori palestinesi né a domare gli avversari esterni. Le catene di comando si rigenerano come il tumore in un corpo senza più difese immunitarie. Per la successione a Sinwar si sono subito fatti diversi nomi, a comincia re da quello di suo fratello Mohammed, anch’egli nativo di Khan Yunis, collaboratore delle brigate al-Kassam. Sarebbe lui a gestire in questa fase gli ostaggi israeliani. Dal canto suo, Hezbollah ha già un nuovo capo, Naim Qassem, che ripete il solito mantra: Israele sarà cancellato. E Israele assicura che Qassem non durerà molto e farà la stessa fine del suo predecessore.
L’azione israeliana contro l’apparato sciita in Medio Oriente ha costretto l’Iran a uscire allo scoperto. La partita, ch’era stata giocata a lungo tramite terzi soggetti, è divenuta diretta e a campo aperto. Teheran, che pure avrebbe preferito non abboccare all’amo di Netanyahu, ha “dovuto” reagire con una rappresaglia missilistica i cui effetti sono stati in gran parte annullati dall’Iron Dome e dalle intercettazioni delle navi USA. La Casa Bianca, con Biden ormai quasi “ex” presidente e le presidenziali alle viste, ha poi avuto il suo bel daffare nel convincere il governo israeliano a non rispondere mirando ai siti petroliferi e alle centrali nucleari. Alla fine di ottobre i caccia con la stella di Davide hanno bersagliato esclusivamente basi militari e centri per la produzione di missili iraniani. Teheran ha minimizzato i danni per non essere risucchiato nella spirale del “botta e risposta”, limitandosi a minacce verbali. Il regime degli ayatollah sa che il braccio di ferro con Israele, se portato alle estreme conseguenze, potrebbe causare una crisi generale del paese, alimentare le già forti tensioni inter ne e infine provocare la caduta del potere politico confessionale instauratosi nel 1979.
In effetti, la reciproca minaccia di distruggere l’altro nasconde la fragilità sociopolitica delle due nazioni. La popolazione iraniana è molto giovane, con un’età media di soli 27 anni e un buon livello di istruzione. Per sottrarsi al controllo che lo Stato pretende di avere sui programmi di studio, la maggior parte degli studenti universitari sceglie gli atenei privati, nonostante le tasse di iscrizione elevate, perché solo lì trovano corsi accademici più aperti agli influssi occidentali. Cresce pertanto l’intolleranza verso le re gole imposte dal governo, come hanno mostrato le manifestazioni – represse con la forza – contro l’obbligo del velo per le donne, seguite all’uccisione due anni fa della ventiduenne Mahsa Amini.
Anche Israele sta vivendo una fase, ormai lunga, di incertezze sociali e politiche. Lo dimostra la frammentazione delle compagini politiche rappresentate alla Knesset. Dal 2019 a oggi gli israeliani sono andati a votare cinque volte. Dopo l’ultima tornata elettorale, nel novembre 2022, Netanyahu è riuscito a mettere insieme una coalizione di partiti di destra diventando primo ministro per la sesta volta. Decisivi per il raggiungimento della maggioranza sono stati i partiti religiosi ultraortodossi, espressione di un ebraismo integralista. Ma anche i partiti arabi, prima del massacro del 7 ottobre 2023, potevano ambire a diventare l’ago della bilancia per la futura guida del paese. La minoranza palestinese è, infatti, la più importante nel variegato panorama della nazione israeliana, dove gli ebrei costituiscono “solo” il 75% della popolazione e non sono omogenei al loro interno.
Il gabinetto di guerra, che per circa diciannove mesi ha permesso a Netanyahu di avere carta bianca quasi su tutto e l’attuale governo civile con deroghe e poteri straordinari per l’emergenza bellica, non sono riusciti a coprire le debolezze presenti sia nella società che nelle istituzioni, in un passaggio storico cruciale che tocca le radici dell’identità nazionale. Va considerato il senso di vulnerabilità che si è diffuso nell’opinione pubblica israeliana dopo la più grave strage subita dal 1948, anno di fondazione dello Sta to ebraico. Ossessionato dal problema sicurezza, gran parte degli israeliani – compresa la componente moderata – non guarda più alla pace come alla meta da raggiungere, accontentandosi della soluzione di forza e del “giorno per giorno”.
Questo quadro di fortissime tensioni esterne e di profonde in certezze interne non poteva non contagiare il Libano. Il sistema multietnico e pluriconfessionale libanese, fatto di un delicato equilibrio di pesi e contrappesi, da molti anni è stato messo in discussione da Hezbollah. Il partito sciita è stato di gran lunga il più solido e ben organizzato, ma ha costruito uno stato nello Stato, rispondendo di fatto a se stesso (e all’Iran) più che al parlamento di Beirut. Il nodo più complicato è quello della sua milizia, più forte e potente dell’esercito regolare libanese, almeno fino a prima dei raid e dell’invasione israeliana. Qualcosa di simile, con i dovuti distinguo, a quanto avvenuto in Palestina, dove Hamas ha creato una propria rete di potere socio-politico-militare bypassando l’Autorità Nazionale Palestinese, che in questa crisi ha mostrato tutta la sua inconsistenza.
Restando in ambito libanese, è evidente che Hezbollah non può essere un attore politico e al contempo un gruppo militare in dipendente, al di fuori del controllo statale. Bisognerà vedere se l’indebolimento del suo apparato, danneggiato pesantemente da Israele, porterà la leadership “sopravvissuta” a rivedere l’organizzazione, amalgamandola nel “nuovo” Libano, che deve tornare a essere paese-cerniera tra Oriente e Occidente, tra Asia ed Europa, tra mondo islamico e mondo cristiano.
In conclusione, anche se ai nostri occhi può sembrare scontato, va ribadito il concetto che un popolo e una nazione hanno il diritto di difendersi, ma scegliere di farlo attraverso un’azione terroristi ca o un’operazione militare indiscriminata è una sconfitta consegnata agli aggressori, è la vittoria della violenza stessa e niente di buono potrà produrre per il futuro. «La difesa deve essere sempre proporzionata all’attacco» ha sottolineato il papa. «Quando c’è qualcosa di sproporzionato si fa vedere una tendenza dominatrice che produce azioni immorali»2.
Non si può uccidere solo per uccidere, né si può mantenere una condizione permanente di ostilità. La piena legittimità di Israele nel consesso internazionale passa attraverso il riconoscimento della Palestina e viceversa. Occorre una visione che vada al di là dell’eliminazione dell’avversario. Esiste un’alternativa ai due stati per sciogliere il nodo israelo-palestinese? No! O meglio, l’alternativa c’è ed è terribile: continuare la mattanza e alimentare sempre più l’astio mortale, trasmettendolo ai figli e ai figli dei figli.
Il testo è stato consegnato in redazione il 31 ottobre 2024.
Note
1 Così il pontefice si è espresso nel suo discorso in occasione della visita in Belgio (27 settembre 2024).
2 Papa Francesco, Conferenza stampa durante il volo di ritorno dal Belgio, 29 settembre 2024.