La promessa di eternità, che è al centro del mistero cristiano e che trova nella risurrezione di Cristo il suo fondamento, intercetta una domanda di salvezza imperitura che attraversa la storia umana, dà forma alla vita, plasma gli immaginari sociali, alimenta la riflessione culturale e le produzioni artistiche. Che cosa vuol dire oggi evocare cieli nuovi e terra nuova? Come parlare di risurrezione di Cristo e di salvezza eterna? Come ritrovare la prospettiva escatologica a partire dal cammino sinodale?
Assumendo come chiave interpretativa della nostra epoca la metafora fortunata della “liquidità”, Bauman ha affrontato il tema della Paura liquida (Laterza, 2012) nella quale oggi siamo immersi, riconducendola in ultima analisi a paura della morte. Tre sono le strategie, secondo Bauman, con le quali cerchiamo di rendere vivibile un’esistenza posta sotto la spada di Damocle del morire: la prima strategia tende a costruire ponti fra tempo ed eternità, grazie ai quali la morte può essere anche un nuovo inizio; la seconda concentra l’attenzione sulle cause specifiche delle singole morti, appaltando alle tecnologie biomediche il compito di approntare rimedi sempre più efficaci; la terza punta soprattutto ad “addomesticare” la morte, facendone la metafora indolore di tutti gli eventi che cominciano e finiscono nella nostra vita, in modo sempre revocabile e mai assoluto. Tuttavia, vorremmo aggiungere, mentre nel primo caso la rivelazione cristiana offre una risposta all’incrocio fra dramma della finitezza e speranza nella risurrezione, le altre due strategie tendono a minimizzare e ridimensionare, o nella ricerca degli antidoti più appropriati (che il transumanismo risolve nel delirio di una “società postmortale”), oppure nel tentativo di togliere alla morte stessa il suo pungiglione, riducendola a materia di ordinario interesse culturale. In entrambi i casi siamo davanti a un esercizio disperato di “normalizzazione”, di cui la debolezza della proposta cristiana rischia di diventare complice involontaria: nel momento in cui le voci delle comunità cristiane (e dei teologi!) si fanno stentate ed evasive, non rimane che sovraccaricare di valore salvifico la scienza medica, oppure le scienze umane, dalla sociologia alla psicologia.
La promessa di eternità, che è al centro del mistero cristiano e che trova nella risurrezione di Cristo il suo fondamento, intercetta una domanda di salvezza imperitura che attraversa la storia umana, dà forma alla vita, plasma gli immaginari sociali, alimenta la riflessione culturale e le produzioni artistiche. La ricerca di un punto di incontro tra domanda e risposta è parte essenziale del dialogo tra credenti e non credenti, che in ogni cambiamento d’epoca deve trovare motivazioni e parole nuove. Che cosa vuol dire oggi evocare cieli nuovi e terra nuova? Come parlare di risurrezione di Cristo e di salvezza eterna? Nella comunità cristiana si registra una certa tendenza all’“afasia escatologica”, all’appiattirsi sulla normalità livellatrice della vita pastorale, puntando su un ritorno immediato e gratificante del credere e smarrendo la carica di profezia e di futuro che invece si pone come dimensione costitutiva della fede cristiana e dell’annuncio della risurrezione. Ciò sembra andare di pari passo con un contesto sociale e culturale dominato da una frenesia di quotidianità, incapace di guardare oltre l’immediatezza dell’esperienza e sempre più in difficoltà nell’elaborare progetti significativi e condivisi per il futuro, capaci di coltivare sogni e allungare desideri.
Il dossier intende misurarsi con questa sfida, lasciandosi provocare dal tema dell’eschaton. La promessa di risurrezione che ci proietta oltre l’orizzonte della storia è credibile se non separa speranza escatologica e responsabilità storiche, decadendo a rifugio consolatorio e deresponsabilizzante. In apertura, Carla Danani riconosce i rischi di diversione e contrapposizione quando si cerca di far dialogare l’eterno e il quotidiano; la risposta non può che essere cercata nell’invito a porre la questione escatologica nel cuore stesso del quotidiano, che attesta l’esser nati, prima ancora che il dover morire. Sul piano sociologico, anche le indagini più recenti, condotte e qui sintetizzate da Franco Garelli, evidenziano un quadro in chiaroscuro circa lo stato di salute dell’insieme delle credenze religiose: per un verso, le fondamentali verità della fede cristiana appaiono meno compatte e condivise rispetto al passato, con un divario che aumenta soprattutto nelle credenze circa le realtà ultime; per altro verso, tuttavia, non si può parlare di un oblio profondo di tali credenze, benché l’aldilà vada assumendo i tratti di una nebulosa, sempre più difficile da immaginare e da rappresentare. Sul piano teologico-pastorale anche Giacomo Canobbio registra un preoccupante silenzio sui “novissimi”, che nasce dal desiderio comprensibile di prendere le distanze dalla predicazione immaginifica del passato, senza nascondere la difficoltà di misurarsi con il mistero del nostro destino. La via da percorrere, secondo Canobbio, è quella che guarda alla beatitudine come pienezza di relazioni buone, che custodisce in sé l’idea di un compimento imperituro.
Anche Giovanni Grandi s’interroga intorno alla difficoltà di parlare delle cose ultime, invitando a rileggerla come traccia di una domanda di felicità perfetta, che evoca, oltre ogni logica retributiva, il grande tema del rapporto tra penultimo e ultimo, in un “incentivo al fare” memore dei sapori di cieli e terra nuova. Interrogandosi quindi sul senso dell’eschaton, dinanzi al bivio tra evasione e impegno storico, Francesco Russo continua la riflessione, ponendosi in ascolto di Gaudium et spes e della sua attualizzazione ad opera di papa Francesco. La singolare coincidenza tra il calo di tensione escatologica e la perdita di passione nei confronti della costruzione della città dell’uomo conferma quindi la necessità di essere testimoni credibili di speranza attraverso un impegno capace di seminare sulla terra segni di eternità. Il Forum che conclude il dossier, infine, s’interroga sulle tracce dell’eschaton nelle narrazioni e nel sottosuolo magmatico degli immaginari sociali. Pur nell’incrocio di competenze e sensibilità diverse, emerge uno scenario interessante e singolarmente consonante con l’intero percorso. Nell’ambivalenza di uno scenario diviso tra inquietudini apocalittiche e impegno storico, sembra emergere una tensione escatologica insospettata alla base di nuove forme di passione e di militanza, rese particolarmente intransigenti dalla promessa di nuovi inizi e di quotidiane risurrezioni. Nel segno di una speranza che accomuna, si riducono le distanze tra credenti e non credenti.
L’intero percorso del dossier, pur nella pluralità delle voci e dei temi affrontati, lascia quindi intravedere un nervo scoperto che si fa fatica a dissimulare e con il quale stentiamo a confrontarci a viso aperto. Ne risulta confermata, anzitutto, l’idea di un legame sotterraneo tra disimpegno storico e chiusura dell’orizzonte escatologico: bulimia dell’immediato e anoressia dell’eterno potrebbero essere due facce della medesima medaglia. In secondo luogo, la tentazione del presentismo sembra manifestarsi come una vera e propria patologia spirituale, capace di contagiare tutti, credenti e non credenti: anche la fede vissuta come consumo del sacro, alla ricerca di immediate gratificazioni emozionali, potrebbe esserne una variante religiosa, che tarpa le ali alla fame di eternità. Infine, a fronte di una confermata ritrosia a porre i novissimi al centro dell’evangelizzazione, accreditando la promessa salvifica di cieli nuovi e terra nuova, la differenza cristiana tra risurrezione dei corpi e immortalità dell’anima rischia di sbiadire in un indistinto desiderio di felicità, facilmente ricomprato dal consumismo dilagante, mentre la vita di fede, se privata da una promessa di felicità compiuta e indefettibile, rischia di spegnersi in forme di grigio moralismo consolatorio. Anche questo dossier, nella linea dei precedenti, vuole offrire un ulteriore contributo al cammino sinodale, ponendo al cuore di esso questioni radicali e non solo congiunturali o di adeguamento organizzativo. La vita della Chiesa ha bisogno non solo di un adeguato impegno di rivisitazione delle strutture e dei suoi assetti interni, come pure di un ripensamento profondo delle forme di corresponsabilità di tutti i battezzati, ma deve anzitutto rimettere al centro ciò che più che conta dal punto di vista della fede e della testimonianza cristiana, a cominciare dalle domande più scomode e più radicali intorno al senso del nascere e del morire, sulle quali la risurrezione di Cristo getta una luce che salva.