Militante della Gioventù femminile di Azione cattolica, staffetta partigiana, sindacalista, parlamentare e ministro. Una donna dedita alla politica rigorosamente esercitata con onestà. Una vita spesa per la democrazia, la giustizia, la solidarietà.
«La Democrazia va conquistata, la Democrazia va vissuta e partecipata, la Democrazia va difesa»: con queste parole, che sembrano la sintesi della sua vita, Tina Anselmi teneva, il 30 marzo del 2004 (nel giorno del suo settantasettesimo compleanno) una Lectio magistralis all’Università di Trento, dopo aver ricevuto la laurea honoris causa in sociologia.
Da 12 anni non faceva più parte del Parlamento italiano, dopo che alle elezioni politiche del 1992 non era stata rieletta. La Democrazia cristiana, il suo partito, aveva candidato nel suo “sicurissimo” collegio di Castelfranco l’ex presidente della Regione Veneto, Carlo Bernini, che divenne senatore, mentre invece Tina, candidata nel collegio di Conegliano-Oderzo – dove era in ascesa la Lega – incassò una cocente sconfitta. E questo forse riassume eloquentemente quanto potere esercitassero i partiti: Tina lo aveva sperimentato sulla sua pelle. Non a caso, dunque, denunciava come un rischio per la democrazia, nella sua lectio, la «trasformazione dei partiti in macchine di potere».
Altro rischio gravissimo – continuava Anselmi – era la presenza di «poteri occulti», che potevano condizionare la macchina dello Stato, infiltrandosi in tutti i suoi gangli vitali. Anche questo male la Anselmi lo aveva potuto toccare con mano, quando divenne presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla Loggia massonica P2.
Ma ad ascoltare la sua relazione finale sulle conclusioni a cui era giunta la Commissione d’inchiesta sulla P2 erano in pochissimi, nel dicembre del 1984: i colleghi, fra cui molti iscritti nelle liste della loggia di Licio Gelli, nemmeno si erano presentati nell’aula parlamentare1.
Quando la Anselmi non fu più rieletta, le scrissero in moltissimi – docenti universitari, magistrati, associazioni, gente comune – manifestandole spontaneamente una solidarietà corale, dicendole che l’avrebbero voluta come prima donna presidente della Repubblica2. Gli italiani avevano capito che era una delle poche persone dedite alla politica di cui ci si poteva fidare, perché era rimasta fedele ai principi che aveva assimilato in gioventù, nella sua famiglia, nel suo paese, Castelfranco Veneto (dove era nata nel 1927), nell’Azione cattolica e nella Resistenza.
Solidarietà con gli umili, soprattutto con le donne – le più oppresse –, profonda comprensione dei bisogni della gente: erano questi i principi ai quali si ispirava la sua azione politica, anche perché in mezzo ai contadini, agli artigiani, agli operai e alle operaie Tina era cresciuta.
Aveva avuto esempi di pensiero libero nel padre, socialista della prima ora, che veniva riempito di olio di ricino dai fascisti a ogni manifestazione del regime. Aveva imparato cosa significa adoperarsi per gli altri con le compagne della Gioventù femminile di Azione cattolica, con le quali nel 1944 aveva fondato e poi gestito una biblioteca per le operaie. La cultura, l’alfabetizzazione, il saper stare insieme, erano valori indispensabili per la promozione della donna. Ma anche i giusti salari, un lavoro dignitoso.
Fu proprio in una di quelle sere alla biblioteca per le operaie, nell’agosto del 1944, che un’amica le chiese di entrare nella Resistenza. Tina, già propensa ad accettare questo compito rischioso, non ebbe più dubbi quando, nel settembre del ’44, fu costretta a vedere decine di giovani impiccati ai lecci di viale delle Fosse, a Bassano del Grappa, consegnati ai tedeschi dai fascisti italiani: divenne staffetta partigiana della Brigata autonoma “Cesare Battisti”, sotto il comando di Gino Sartor.
Le sue imprese da partigiana furono spesso raccontate da Tina. Meno note sono forse alcune azioni che conducevano i partigiani agli ordini di “Masaccio”, il giovane comandante cattolico Primo Visentin, che operava a stretto contatto con la formazione di Gino Sartor, in cui militava come staffetta Tina. Questi uomini, oltre che combattere i tedeschi, cercavano anche di praticare un’opera di giustizia sociale. Costringevano ad esempio i ricchi proprietari terrieri – che opprimevano i contadini con contratti agrari vessatori – a firmare contratti più equi, in modo da non ridurre nella miseria più nera i lavoratori della terra e le loro famiglie. E lo stesso facevano con i proprietari di industrie che davano paghe da fame agli operai. Resistenza, dunque, anche come mezzo di giustizia sociale.
Fu a questa scuola che Tina Anselmi si formò. E mise in pratica – partecipando ad azioni rischiose – anche quella terza parola d’ordine che le ragazze della Gf avevano come ideale, e cioè, oltre all’Eucarestia e all’apostolato, anche l’“eroismo”.
Con questo acuto spirito di giustizia sociale, Tina divenne sindacalista, battendosi per le operaie nei primi anni del secondo dopoguerra. Non poteva sopportare le ingiustizie che pativano le lavoratrici delle filande, che avevano le mani “lessate” per essere costrette a immergerle nell’acqua bollente, per la lavorazione dei bozzoli dei bachi da seta: Tina le difese, rischiando anche di persona.
In quegli anni insegnava come maestra elementare, studiava materie letterarie all’Università Cattolica di Milano (si laureò nel 1951) e militava nelle file giovanili della Democrazia cristiana, acquisendo così anche una preparazione politica.
Nel 1968, a 41 anni, fu eletta alla Camera dei deputati e cominciò a presentare progetti di legge soprattutto a tutela delle donne, delle lavoratrici, dei più deboli.
Il 6 marzo 1969, ad esempio, Tina Anselmi firmava una proposta di legge per un’inchiesta parlamentare sull’assistenza sanitaria pubblica e privata: partiva da lontano, dunque, il suo interesse per la sanità. Ma è qui importante sottolineare come le prime firme su questa proposta di legge fossero di ben cinque donne, tutte cattoliche: Giannina Cattaneo Petrini, milanese, medico pediatra; Amalia Miotti Carli, di Vicenza, laureata in filosofia, vedova di Giovanni Carli, un eroe della Resistenza; Maria Eletta Martini, lucchese, eletta alla camera nel 1963, laureata in lettere e con un passato di staffetta partigiana, come Tina; Maria Badaloni, romana, musicista, che con Carlo Carretto fondò nel 1944 l’Associazione italiana maestri cattolici. Gli altri otto sottoscrittori erano tutti della Democrazia cristiana, e tra questi vi era Oscar Luigi Scalfaro, il futuro presidente della Repubblica.
Nel 1976 Tina divenne ministro del Lavoro e della Previdenza sociale nel terzo governo Andreotti, e firmò la legge sulla “Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro”, con cui si poneva fine a discriminazioni secolari.
Nel 1979, ministro della Sanità, riuscì a portare a buon fine la famosa “legge 833” sulla riforma della sanità che sarà un caposaldo nella storia della Repubblica: solo la sua caparbietà riuscì a superare tutti gli ostacoli per far approvare una legge che languiva in Parlamento da ben 14 anni. Le innovazioni erano radicali ma, perché il nuovo sistema funzionasse – sottolineava Anselmi – era importante la più ampia partecipazione popolare per il controllo della gestione e della funzionalità dei servizi. Questo per evitare abusi, un rischio effettivo, come la storia avrebbe poi ampiamente dimostrato.
Dopo la caduta del quinto governo Andreotti, nel 1979, quando divenne presidente del Consiglio Francesco Cossiga, Tina non ebbe incarichi ministeriali. E non ne ebbe più nemmeno in seguito. Ma fu chiamata nel 1981 da Nilde Jotti, presidente della Camera dei deputati, a presiedere la Commissione parlamentare d’inchiesta sulla Loggia massonica P2.
Dire quanto fu sofferta, pericolosa, deludente questa esperienza per Tina Anselmi, è impossibile nello spazio di queste righe. Ma, pur essendo da sola, come donna, a presiedere una commissione formata da 40 uomini, Tina procedette senza indugi – pur tra minacce e intimidazioni – e denunciò il marcio che aveva scoperto nella vita politica, amministrativa, militare e civile italiana. Lottò a lungo contro la prevalente tendenza ad insabbiare tutto, tanquam non esset. Solo tardivamente il Governo italiano propose l’estradizione di Licio Gelli, il “motore” della P2. Ma tutto cadde nel vuoto. Il progetto della P2 – che era quello di condizionare la vita politica italiana – riuscì ad andare, sostanzialmente, in porto. Lo riconosceva amaramente Tina Anselmi parecchi anni dopo, in un’intervista del 2003 rilasciata a Concita De Gregorio: «Quando leggo le parole di Gelli [...] mi assale lo sconforto. [...]. Tanto lavoro di indagine, tanti buoni risultati, ne emergeva una trama così chiara: eppure non gli è stato dato alcun seguito. Credevo e credo – non penso affatto che il pericolo sia cessato – che la P2 costituisca un grave pericolo per la democrazia»3.
Per il bene della democrazia Tina lavorò ancora, fino ai suoi ultimi anni, partecipando dal 1997 al 1999, con Ettore Gallo, alla Commissione governativa d’inchiesta sui fatti della Somalia, che indagò sul comportamento del contingente militare italiano nell’ambito della missione Restore Hope. Dal 1999 al 2001 fu presidente della Commissione nazionale sulle conseguenze delle leggi razziali per la comunità ebraica italiana.
Conobbe molti mali della nostra democrazia, del nostro paese, ma non smise mai di sperare e di insegnare ai giovani che la democrazia è un bene prezioso, che va difeso e coltivato, come una pianta delicata.
Nel 2008, quando da poco si era dovuto dimettere il governo Prodi, la Anselmi aveva ancora una volta sottolineato «la grave situazione di emergenza democratica» in cui versava l’Italia. E aveva affermato: «Mi rendo conto che gli anni di Gelli e dei suoi compagni oggi appaiano lontani, ma quanto lontani? Ebbene, insisto, e aggiungo che la parte del progetto di Gelli legato al discredito delle istituzioni democratiche, attuato dall’interno delle medesime e dalla loro esasperata conflittualità [...] rischia di giungere all’atto conclusivo»4.
Se ne andava nella sua casa di Castelfranco, nel giorno di Ognissanti del 2016, una donna che sembra, per tanti versi, una Cassandra inascoltata nella storia della nostra Repubblica. Ma Tina Anselmi è rimasta nel cuore di molti italiani, perché videro e vedono in lei una persona dedita alla politica rigorosamente esercitata con onestà. Una vita spesa per la democrazia, la giustizia, la solidarietà.
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Antologia
La questione femminile nella Chiesa5
Voglio ricordare un episodio. A Città del Messico nel 1975 si tenne la conferenza mondiale dell’ONU sul problema della donna. Il forum era molto influenzato dai movimenti femministi; questi si ponevano in modo antitetico a tutto ciò che veniva espresso dal mondo cattolico o, comunque, da un mondo cristianamente caratterizzato, ritenendo che esso fosse contro la donna perché rifiutava aborto e divorzio e perché non accettava in via di principio la contrapposizione della femmina contro il maschio. Le rappresentanti delle associazioni cristiane non riuscivano a parlare; salivano alla tribuna, ma con urla e fischi venivano zittite e costrette a tornare al loro posto. Andò al microfono Madre Teresa di Calcutta; prese a parlare dell’amore e fu ascoltata in un silenzio veramente religioso. Si sentiva un’attenzione al suo messaggio, ma si coglieva anche che tale attenzione nasceva dalla credibilità di chi lo lanciava. Con la sua presenza, Madre Teresa ottenne più di tante dichiarazioni. La Santa sede l’aveva inclusa tra le sue delegazioni e credo che fu una scelta molto opportuna.
L’anno scorso a Nairobi [1985], Madre Teresa non è venuta. La Santa Sede ha preferito mettere nella sua delegazione due diplomatici sacerdoti, escludendo la presenza di donna, benché ve ne siano tante, impegnate, che avrebbero potuto benissimo rappresentare la Chiesa. Credo sia stato un errore anche psicologico: in una conferenza mondiale sul problema femminile.
Al di là delle scelte concrete, posso comunque dire che certe presenze si sentono. Anche se fisicamente non è venuta a Nairobi, credo che Madre Teresa giochi un ruolo enorme in tutti i paesi del Terzo mondo. Ho scoperto ad esempio in Kenia che per quelle popolazioni la persona da venerare maggiormente non è il sacerdote, ma la suora. E mi hanno spiegato il perché: lo status sociale della donna, il suo prestigio e il suo ruolo, lì sono riferiti al suo essere madre; per loro quindi una suora, cioè una donna che rinuncia ad essere madre, con questo stesso fatto dà la dimostrazione di un grande atto d’amore verso chi serve. Che l’uomo non si sposi, non ha nessun valore, anche perché tra quelle popolazioni c’è la poligamia; non è un valore il matrimonio; il valore è la trasmissione della vita; quindi chi sacrifica questa per servire gli altri è la persona da tenere in alta considerazione.
Io non so cosa avrei dato per essere dentro la testa di queste donne africane. Venivano al forum camminando giorni e giorni dai loro villaggi; dormivano per terra, su un pezzetto di sacco; in un sacchetto di nylon avevano due o tre patate, due o tre cipolle: ci vivevano per dieci giorni. E stavano lì ad ascoltare il ministro francese per la condizione femminile Betty Friedan, tanti discorsi. E io pensavo: poi tornano nei loro villaggi, dove vivono ancora con le lance e con le frecce; che cosa esploderà dentro di loro? Che miscela di passato, di presente, di futuro? Chi dirà loro qualcosa? Quali motivazioni, quali valori, quali esperienze suggerirà loro? La scommessa del domani è lì. Ci tocca capirlo. E fare qualcosa.