Carlo Maria Martini possedeva uno stile comunicativo fondato sull’ascolto, sul silenzio, sul dialogo e sulla prossimità. Una comunicazione che non impone, ma accoglie e interroga, secondo lo stile narrativo di Gesù. In un tempo di parole vuote e polarizzate, la sua figura resta profezia di una parola che nasce dalla fede e genera comunione.
Prima ancora di parlare, Martini ascoltava. Ascoltava le Scritture con il trasporto dello studioso e l’umiltà del credente. Ascoltava la Chiesa nei suoi travagli, senza idealismi. Ascoltava il mondo, le sue inquietudini, le sue obiezioni. Nelle sue 23 lettere pastorali – veri esercizi di discernimento spirituale – emerge un’idea forte e radicale: comunicare è farsi vuoto per accogliere. Non si tratta solo di metodo, ma di teologia. L’ascolto è il primo atto della fede, perché Dio stesso è un Dio che ascolta il grido del suo popolo. Martini lo sapeva: prima di annunciare, la Chiesa deve farsi orecchio. Nel suo motto episcopale, Pro veritate adversa diligere – per la verità, amare le cose avverse – c’è un’indicazione profonda: la verità non si conquista con l’imposizione, ma esige discernimento, capacità di testimonianza, libertà interiore, ricerca spassionata dell’Altro.
Nella tradizione monastica, il silenzio non è assenza, ma spazio della rivelazione. Martini si inserisce in questa linea: la parola cristiana nasce solo se preceduta da silenzio interiore. Le “Scuole della Parola”, frequentate da generazioni di giovani, non erano semplici lezioni bibliche: erano liturgie del silenzio. Il cardinale commentava la Parola di Dio, lentamente, e poi taceva. In quel vuoto abitato, la Parola scendeva come pioggia feconda. Diceva: «Una parola detta senza silenzio interiore è solo una successione di suoni». È un monito radicale per una comunicazione ecclesiale spesso logorroica, talvolta narcisistica. La comunicazione evangelica, se non nasce da un silenzio fecondo, rischia di divenire ideologia.
Martini ha vissuto la Bibbia non soltanto come codice da interpretare, ma ancor più come «dimora del Senso da abitare». Per lui, la Scrittura è il luogo primario della comunicazione di Dio con l’umanità: un dialogo, non un monologo. Questo stile biblico ha plasmato anche il suo modo di comunicare con le persone: mai dogmatico, sempre aperto alla domanda. L’arte del comunicare, secondo Martini, è l’arte di porre domande giuste più che offrire risposte immediate. Le sue omelie, i suoi interventi, i suoi dialoghi con i non credenti erano esercizi di una comunicazione che non chiude, ma apre. Nel tempo della polarizzazione, in cui la parola viene spesso usata come arma, Martini disarmava il linguaggio. Lo restituiva alla sua vocazione originaria: non separare, ma creare comunione. Sapeva che la fede non è un messaggio da pubblicizzare, ma una vita da condividere; per questo, la comunicazione della fede non può essere unidirezionale, ma dialogica e relazionale.
Un atto simbolico dice molto: l’istituzione della Cattedra dei non credenti. Un vescovo che sceglie di mettersi in ascolto e di interrogare a sua volta chi non condivide la sua fede non per convertire, ma per comprendere. È l’opposto dell’apologetica classica. È l’evangelizzazione come ospitalità dell’altro, in ragione del fatto che la verità non si impone, si offre; non si grida, si testimonia; non si possiede, si condivide.
Egli si è poi sempre adoperato con energia e passione a segnalare l’urgenza di promuovere un’opinione pubblica nella Chiesa per «discutere liberamente» al suo interno, spingendosi perfino ad affermare che «la Chiesa italiana potrebbe ricavare frutti di sempre maggiore povertà, essenzialità, purezza, linearità da alcuni episodi di laicismo che contraddistinguono certi settori della società italiana». Per reazione alla deriva soggettivistica, egli deplorava la rinascita di forme di fondamentalismo religioso, che si profilano come richiesta perentoria di sicurezza e di sollievo, quasi a erigere una diga nei confronti della complessità e dell’incertezza del vivere odierno. Quello che è da fugare è di dar forma a un modello di cristianesimo che si limiti a una declamazione perentoria dei comandamenti e dei valori religiosi, esonerando la coscienza dei credenti dall’operare quel discernimento della situazione concreta che soltanto è in grado di verificare la portata storica della testimonianza credente e la sua praticabilità nelle circostanze odierne. In ultima analisi, sollecitava a prendere congedo da un cristianesimo dogmatico dove ciò che si crede deve risultare chiaro, definito e immediatamente applicabile, con l’illusione di potersi mantenere fedeli al piano di Dio, quasi a immunizzarsi dall’assenza di speranza che costituisce la malattia mortale della coscienza contemporanea, in un’epoca contrassegnata dalla fine dei sogni ideologici e dall’esplosione delle “passioni tristi”.
Negli ultimi anni della sua esistenza, quando la malattia lo costrinse al silenzio, Martini ha continuato a comunicare. Con lo sguardo, con la pazienza, con la vulnerabilità. Era diventato parola incarnata, come il Cristo che annunciava. C’è una parola che non viene dalle labbra, ma dagli occhi, dai gesti, dalla maniera in cui si soffre o si spera. È la comunicazione che scaturisce dalla prossimità, non dal controllo; dalla condivisione della condizione umana, non dal pulpito.
Martini è stato così un comunicatore totale, non perché parlasse in ogni occasione, ma perché ogni suo gesto era eloquente. In un mondo che misura l’efficacia mediatica in base al successo, Martini ha proposto una comunicazione che si misura sulla verità dell’essere.
In un tempo dove tutto comunica ma poco dice, dove il parlare si moltiplica e il senso si assottiglia, la figura di Carlo Maria Martini resta una profezia per la Chiesa e per l’umanità.
La sua comunicazione era un’estensione della sua fede: fatta di ascolto, silenzio, dialogo, prossimità. Non era una strategia, ma uno stile di presenza. Per questo continua a parlare anche oggi, a chi ha orecchie per intendere. Nel frastuono del nostro tempo, ha insegnato che la parola cristiana, per essere vera, deve nascere dall’ascolto, passare per il silenzio e diventare vita donata. Non si tratta solo di comunicare il Vangelo, ma di comunicare come il Vangelo.
Il Vangelo da narrare
Gesù parlava in parabole. L’osservazione è tanto semplice quanto decisiva. Basta sfogliare i Vangeli per rendersene conto: l’insegnamento del Maestro si esprime di frequente in forma narrativa, attraverso racconti brevi, vividi, simbolici. Alcuni testi (come Mc 4,34) inducono perfino a pensare che Gesù non parlasse alle folle in altro modo. Ma perché questa scelta? Perché preferire un linguaggio indiretto, evocativo, a quello discorsivo e argomentativo?
A queste domande il cardinale ha dedicato non solo acute riflessioni teologiche, ma soprattutto una prassi pastorale concreta: nelle sue celebri lectiones e nei suoi interventi poi trascritti, Martini ha proposto le parabole come luoghi teologici vivi, dove Dio parla attraverso il racconto, nella forma che più rispetta la libertà e gli interrogativi dell’ascoltatore.
Il linguaggio narrativo – sottolineava – non è un espediente pedagogico, ma una necessità dell’Incarnazione. Gesù non è un oratore che espone tesi; è il Figlio che, agendo e parlando, rivela il Padre. E lo fa con parole assunte dalla vita quotidiana: semi, viti, padroni e servi, mercanti e pescatori. È un parlare concreto e incarnato, che nasce dal cuore di Gesù e si plasma sulle circostanze, sulle domande, persino sulle resistenze di chi ascolta.
Questa modalità, tuttavia, ha una ambivalenza strutturale: svela e vela insieme. È ciò che colpisce nel passo, tra i più sconcertanti, di Marco 4,11-12: «A voi è stato dato il mistero del regno di Dio; per quelli che sono fuori invece tutto avviene in parabole, affinché… ». Il linguaggio parabolico non è immediatamente accessibile; chiede uno sforzo, una ricerca, un coinvolgimento personale. Come dice Martini: «La parabola non insegna, ma interroga; non spiega, ma provoca».
La forza della parabola sta nella sua capacità di coinvolgimento. Gesù non dice: «Il Regno di Dio è questo», ma: «Un uomo aveva due figli…» e lascia che la storia faccia il suo corso nell’anima di chi ascolta. Il lettore è messo davanti a una scelta, a una possibile identificazione: sono io il figlio minore? O forse il maggiore? Sono il samaritano che si ferma, o il levita che passa oltre?
Per Martini, questa dinamica è centrale: la parabola è uno specchio dell’anima. Non è un’illustrazione di concetti già noti, ma un laboratorio di discernimento spirituale. In questo senso, il cardinale ha fatto delle parabole strumenti privilegiati di preghiera e formazione, in particolare negli itinerari diocesani e negli esercizi spirituali, fedeli alla tradizione ignaziana che lo ha nutrito.
La domanda sul perché Gesù parlasse in parabole non è soltanto esegetica, ma drammaticamente attuale: come parlare oggi di Dio? Come evitare un linguaggio religioso fiacco, convenzionale, generico o polarizzato? Martini avvertiva acutamente questa urgenza. Il suo invito costante era a riscoprire un linguaggio capace di dire Dio in modo vero, umano e spiritualmente efficace. E qui le parabole offrono una pista ancora fertile. Il loro stile è rispettoso della libertà di chi ascolta, non impone, ma propone. Non conclude, ma apre. È un linguaggio umile, capace di avvicinarsi all’uomo nel punto esatto in cui si trova. Come ha scritto Martini, «Gesù non ha fretta. Sa aspettare. Sa adeguarsi al passo dell’altro. E intanto racconta». Racconta per generare un’eco, un risveglio, un appello nell’interlocutore.
Uno dei punti più affascinanti della riflessione martiniana riguarda il legame tra velamento e rivelazione. In un tempo segnato dall’urgenza di spiegare tutto, la parabola si presenta come invito al silenzio, alla riflessione, alla libertà. Non è un espediente per nascondere la verità, ma un modo per custodirla, per non banalizzarla, per non imporla con la forza del concetto. Questo rispetto per il mistero – che è rispetto anche per l’uomo – è secondo Martini una delle espressioni più alte della pedagogia divina. Dire Dio non è affermare tesi su di lui, ma evocare la sua presenza in modo che possa essere riconosciuta solo da chi ha occhi e orecchi per intendere.
Infine, le parabole non sono esortazioni morali, non sono strumenti per esprimere un’etica religiosa più accessibile. Esse nascono «dal cuore stesso di Gesù», dalla sua passione per Dio e dal suo amore per l’uomo. Sono frutto dell’urgenza dell’evangelo: desiderio impellente di comunicare il volto del Padre, di far trapelare la luce del Regno in un linguaggio che l’uomo possa sopportare. Per questo, forse, le parabole sono il linguaggio più autentico del Vangelo: non semplici racconti, ma sacramenti narrativi. Segni poveri, quotidiani, ma pieni di grazia. Parole che custodiscono la Parola.