I soldi della Chiesa. Oltre i luoghi comuni e le fake news

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Dei soldi della Chiesa si parla da sempre e spesso a sproposito. Questo articolo ci aiuta a fare chiarezza sulla realtà dei fatti prendendo in esame alcune delle principali fake news e gli stereotipi in circolazione sull’argomento che spesso penetrano anche nelle nostre comunità e carpiscono la buona fede di molti.

Il pontificato di papa Francesco, tra gli altri suoi effetti, ha anche quello di aver riportato l’attenzione sulla povertà della Chiesa («Come vorrei una Chiesa povera e per i poveri» è una delle sue frasi programmatiche più citate). Dunque sui soldi, sul modo di impiegarli, sulla sobrietà necessaria dell’agire ecclesiale, sugli stili di vita degli ecclesiastici, anche e persino sui veri o presunti tesori favolosi che sarebbero nascosti qua e là e che farebbero della Chiesa stessa una holding a livello internazionale, più vicina al vituperato modello del «predica bene e razzola male» che a quello virtuoso della effettiva povertà evangelica.
In realtà dei soldi della Chiesa si parla da sempre. E spesso a sproposito. Per una serie di luoghi comuni, per ignoranza dei dati fondamentali, per i residui fuochi fatui di certe leggende nere, talvolta anche per cattiva fede o premeditata volontà di screditamento. Sesso e denaro, del resto, sono le armi più affilate quando si vuole mettere in cattiva luce una istituzione come la Chiesa, in particolare la Chiesa cattolica con i suoi principali esponenti: il Papa, i cardinali, i vescovi, ma anche tanti sacerdoti, religiosi e religiose.

Per un uso evangelico dei beni e del denaro
In un’epoca come la nostra poi, sempre più condizionata dal potere dei mass media e dalla pervasività di internet e dei social (con la loro crescente caratteristica di ambiente o – come dicono alcuni – di sesto continente, più che di mero strumento), il discorso sui soldi della Chiesa rischia di prestare oltre modo il fianco a fake news, deformazioni, calunnie. Non che in tempi recenti e meno recenti non ci siano stati episodi, vicende, lati oscuri nel rapporto tra Chiesa e gestione dei beni materiali. Il caso Marcinkus viene citato spesso come emblema di un modo ritenuto poco trasparente di amministrare i beni materiali. Ma la vulgata che da tali episodi si è sempre fatta derivare, fino a diventare prevalente nell’immaginario collettivo, è quella di una per lo meno ambigua, se non proprio peccaminosa, relazione tra Chiesa e denaro tout court, che ha finito così per oscurare l’immensa opera delle strutture ecclesiastiche e dei gruppi ecclesiali a favore dei poveri e del bene comune. Opera resa possibile proprio grazie alla disponibilità di soldi e di altre risorse, messi generosamente a disposizione di tutti i bisognosi, credenti e no, senza mai chiedere il certificato di battesimo.
Il tema non è di quelli trascurabili per un cristiano. Gesù stesso ha ammonito che non si possono servire due padroni: o Dio o mammona. Laddove mammona (il diavolo) è stato spesso “ridotto” nell’immaginario collettivo ai soldi. E proprio papa Francesco, che del diavolo parla spesso nei suoi interventi pubblici, ha più volte ricordato (soprattutto ai consacrati) che Satana entra dal portafoglio e che il denaro, specie quando da semplice strumento diventa un idolo, è davvero lo sterco del demonio. Perciò su questo tema occorrerà ricominciare a riflettere seriamente nelle nostre comunità, a partire dalla catechesi a tutti i livelli (e, mi permetto di sottolineare, in special modo dalla catechesi per gli adulti, cioè per coloro che probabilmente sono i più esposti oggi alle fake news del sistema dis-informativo basato solo sulla superficiale lettura di quanto ci arriva nei social sul telefonino). Perché quello della relazione tra Chiesa e denaro è un argomento passepartout, che se ben approfondito può davvero condurre a rivedere stili di vita individuali e comunitari e a favorire una sempre più piena adesione al Vangelo.
I vescovi italiani, del resto, hanno già da tempo avviato questa riflessione, con due documenti – Sovvenire alle necessità della Chiesa del 1988 e Sostenere la Chiesa per servire tutti del 2008 – nei quali, a partire dall’8xmille e dal nuovo sistema di sostentamento del clero, vengono fissate le basi per un uso evangelico dei beni e del denaro. Oggi, però, per parlare di questo tema – parallelamente a quella che potremmo chiamare la pars costruens –, occorre anche sgombrare il campo dalle macerie delle false notizie, delle deformazioni e degli attacchi mirati che tendono in realtà solo a screditare l’immagine della Chiesa agli occhi dell’opinione pubblica. Se da un lato, infatti, i dati sulle scelte dell’8xmille ci dicono che dal 1990 ad oggi la fiducia dei contribuenti nei confronti della Chiesa cattolica è stata costantemente plebiscitaria (con percentuali di scelta sempre superiori all’80 per cento), cresce quel logoramento ai fianchi da parte delle centrali del multiforme pensiero anticlericale, che ultimamente ha preso anche le forme di certi sovranismi “cattivisti”, con tanto di attacco alle diverse espressioni della solidarietà.

La disinformazione e la realtà dei fatti
Vediamo, dunque, per chiarezza, quali sono le fake news più diffuse nel mondo dei media e qual è invece la realtà dei fatti.
L’8xmille va al Vaticano e in tal modo i soldi dei contribuenti italiani finiscono a uno Stato estero. Nulla di più falso. L’8xmille è stato istituito con una legge dello Stato – la numero 222 del 1985 – e i suoi proventi vanno alla Chiesa in Italia, rappresentata dalla Cei. La Conferenza episcopale italiana distribuisce poi sul territorio le somme, secondo una serie di regole che sono tutte pubblicate sui suoi organi ufficiali e rendiconta allo Stato, come la legge istitutiva richiede, l’impiego dei fondi. Questi stessi fondi, sempre secondo le prescrizioni della legge, devono essere destinati a tre
precise finalità: sostentamento del clero, carità in Italia e all’estero, esigenze di culto della popolazione. In quest’ultima voce sono comprese ad esempio la costruzione di nuove chiese (specie nei quartieri periferici, dove la parrocchia supplisce a molte carenze dello Stato e diventa fattore di aggregazione sociale anche contro pericolose devianze) e la conservazione e il restauro dell’ingente patrimonio di beni culturali ecclesiastici, che costituisce una delle ricchezze del nostro Paese anche in termini turistici. Ogni anno la Cei riceve dallo Stato più o meno un miliardo di euro, ma è stato calcolato da fonti esterne alla stessa Cei che in realtà il valore delle opere sociali realizzate con quei fondi, e che dunque vanno a vantaggio di tutta la collettività nazionale, sia dieci-undici volte maggiore.
L’8xmille non viene impiegato per la carità, ma va tutto ai preti. Anche questa è una credenza facilmente smentibile con i fatti. Innanzitutto, come già ricordato, sono tre le destinazioni dell’8xmille. E il dato circa la ripartizione effettuata ogni anno dall’assemblea generale della Cei dimostra che le proporzioni sono più o meno un terzo, un terzo e un terzo. Nel 2019 ad esempio 436 milioni di euro sono andati per le esigenze di culto, 384 per il sostentamento del clero e 285 per gli interventi caritativi. Inoltre, molte voci inserite tra le esigenze di culto della popolazione sono in realtà riconducibili a forme di carità, potremmo dire strutturale (non si dà direttamente il pesce, ma si insegna a pescare, per usare la nota metafora). Della costruzione di nuove chiese in quartieri periferici abbiamo già detto. Ma si possono citare anche i fondi per il “Progetto Policoro”, che ha fatto nascere oltre un migliaio di posti di lavoro, specie al Sud; e gli stessi restauri dei beni culturali ecclesiastici che creano committenza e dunque danno lavoro a imprese specializzate. Infine bisogna considerare un ulteriore elemento: prima dell’introduzione dell’8xmille, tutta la cifra che lo Stato dava alla Chiesa sotto forma di congrua (una specie di stipendio mensile per alcune categorie di sacerdoti) andava effettivamente al sostentamento del clero. Oggi dal 100 per cento siamo scesi a poco più di un terzo, liberando così risorse per le altre due finalità.
Il Vaticano non paga le tasse, in particolare l’Imu. È una di quelle affermazioni che, oltre a essere minate da grave inesattezza, sconfinano nel paradosso, o se si vuole nel grottesco. La Città del Vaticano è uno Stato sovrano e indipendente. Perciò non ha senso dire che deve pagare le tasse all’Italia. Sarebbe come affermare che la Francia o gli Stati Uniti debbano farlo. C’è però il caso degli immobili di proprietà dell’Apsa (un organismo della Santa Sede) che sono situati sul territorio italiano. Non è un patrimonio immenso: si tratta di circa 1.800 appartamenti a Roma e a Castel Gandolfo e di 600 tra negozi e uffici. Circa il 60 per cento degli appartamenti è affittato ai dipendenti vaticani a canone fortemente agevolato. Per questo patrimonio viene pagata integralmente l’Imu. Nel 2018 sono stati versati 5,4 milioni di euro al Comune di Roma, 338.000 euro per la Tasi sempre a Roma, più 164.000 euro per Imu e Tasi fuori Roma. L’Ires inoltre ha inciso per 3,3 milioni di euro. In totale si giunge a 9,2 milioni di euro. Con buona pace di chi sostiene che il Vaticano non paghi le tasse.
I 35 euro per migrante sono un business per la Cei e il Vaticano. Nell’ultimo anno e mezzo alcune forze politiche, con il supporto di mass media compiacenti e disinformati, hanno messo nel mirino la solidarietà, espressa dalla Chiesa in Italia a molti livelli, ma soprattutto quella indirizzata all’accoglienza dei migranti. Si è parlato di “business” e si è fatto credere all’opinione pubblica che i reiterati appelli all’accoglienza da parte del Papa e dei vescovi in realtà nascondessero un interesse di tipo economico. Intascare i famosi (e a un certo punto divenuti famigerati) 35 euro per rifugiato o richiedente asilo che la legge italiana riconosce alle organizzazioni che se ne occupano. In realtà le cose non stanno affatto così. Primo perché quei 35 euro non finiscono né nelle casse della Cei, né tanto meno in quelle del Vaticano o del Papa. Secondo perché tale cifra viene riconosciuta a enti con determinate caratteristiche, senza distinzione di appartenenza religiosa. Anche organizzazioni laiche li percepiscono e dunque non è un privilegio della Chiesa cattolica. Terzo perché il rapporto costi-benefici è di gran lunga a favore dei benefici. Vediamo perché.
Innanzitutto bisogna dire che questa cifra serve a coprire le spese di vitto, di alloggio e di tutte le altre necessità delle persone, compresi i servizi che mirano all’inclusione sociale come ad esempio l’apprendimento della lingua o in alcuni casi addirittura l’alfabetizzazione. Serve a pagare il personale che opera in queste strutture e a garantirne la manutenzione, poiché non chiunque può accedere alle convenzioni. Lo Stato stabilisce determinati standard qualitativi, che non possono essere raggiunti con il solo volontariato. Occorrono figure professionali ben determinate e strutture attrezzate in una certa maniera. Quindi nessun business, ma reale assistenza a chi è nel bisogno, svolta attraverso l’attività di singole cooperative o associazioni o altri soggetti ammessi alle convenzioni, che sono i reali destinatari dei 35 euro. Lo Stato questa attività non può gestirla direttamente e, se anche lo facesse, dovrebbe sostenere costi infinitamente superiori. Perciò si fa aiutare dal terzo settore. Infine, considerazione non da poco, quei 35 euro creano migliaia di posti di lavoro (tutte le figure professionali che abbiamo ricordato). E posti di lavoro per gli italiani.

Conclusione
Questi sono solo alcuni degli esempi di informazione distorta in relazione ai soldi della Chiesa. Un’informazione che spesso penetra anche nelle nostre comunità e carpisce la buona fede di numerosi praticanti. Perciò occorre fare attenzione alle fonti alle quali ci si abbevera. Purtroppo nel panorama della comunicazione odierna ci sono molti pozzi avvelenati. Sta all’accortezza e al discernimento di ognuno selezionare le fonti certificate e confrontare le informazioni. Ma sta anche alla lungimirante azione delle comunità ecclesiali promuovere autentica formazione sul tema. Papa Francesco anche in questo può farci da guida. Soprattutto quando ricorda che la povertà è per un cristiano «madre e muro». Madre perché ci chiama alla fecondità, alla generatività, alla capacità di donazione che sarebbe impossibile in un cuore avaro o che cerca di accumulare. E muro perché ci protegge da tentazioni come la mondanità spirituale, il rivestire di valori religiosi e “pii” la sete di potere e di protagonismo, la vanità e persino l’orgoglio e la superbia. Ma che cosa significa per un cristiano parlare di povertà? Rinunciare totalmente all’uso del denaro e dei beni? Questa sarebbe una lettura integralista del Vangelo. Sicuramente più rispondente a quella autentica è invece l’intendere la povertà come distacco del cuore dai beni, da usare per costruirsi un tesoro nei cieli. Perché, proprio come il Vangelo insegna, «là dove è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore».