«L’ uomo è organizzatore dello spazio», scriveva negli anni Settanta del Novecento l’etnologo André Leroi-Gourhan1 , esprimendo con queste poche ed incisive parole una delle caratteristiche culturali più evidenti nell’umanità di tutti i tempi: dare ordine all’esistente ispirandosi, innanzitutto, a criteri spaziali. A ben guardare, lo spazio è lo scenario unificante per eccellenza, scelto da noi uomini come criterio operativo tutte le volte che ci proponiamo di dare ordine alle cose che ci circondano, in special modo quando esse appaiano collegate da relazioni fisiche o culturali. Basti pensare con quale frequenza siamo soliti usare metafore spaziali per indicare eventi che ben poco hanno da spartire con lo spazio. Si origina così una sorta di mappa concettuale, che risulta preziosa nel tentativo di unificare le infinite relazioni che danno significato ad ambiente e società.
Per conferire un senso compiuto allo spazio, però, è necessario chiuderlo, ritagliarlo in qualche modo, separandolo da altre realtà che ne rimangono escluse. È necessario, cioè, tracciare una linea, reale o immaginaria, che lo delimiti: un confine, appunto. Nella nostra lingua questa parola deriva dai termini latini cum e finis, il luogo in cui qualcosa finisce. Ma cos’è che finisce? Spesso è l’idea di noi stessi intesi come gruppo sociale. Ciò sta a significare che un qualunque gruppo – sia esso una piccola comunità familiare, una nazione o una istituzione sovranazionale – per definirsi ha bisogno di tracciare un proprio confine all’interno del quale regole e leggi possano trovare il loro significato. Il confine delimita quindi uno spazio dove le diverse identità si incontrano e si riflettono l’una nell’altra, confermandosi a vicenda. Ed è in tal senso che il confine è anche frontiera. Non ciò che chiude ma quello che delimita implicando la relazione ad altri. Non è casuale che il confine sia stato paragonato alla cornice di un’opera d’arte a motivo della sua precisa funzione di delimitarla, ritagliandola dal mondo circostante, rendendola in tal modo unica e speciale.
Fissare un confine, determinare una frontiera, risulta però un’arma a doppio taglio. Se da un lato può favorire il sorgere di nuovi ordinamenti sociali, dall’altro può impedire di divenire qualcos’altro, facilitando il congelamento e la decadenza. Ciò risulta evidente se, oltre agli aspetti spaziali, si prendono in considerazione anche quelli temporali della realtà. Tutto, infatti, nel nostro universo è in divenire. E tutto va incontro, con il passare del tempo, a modificazioni spontanee delle proprie strutture organizzative, che possono essere più o meno incisive, ma sono comunque, sempre, apportatrici di disturbo all’ordine preesistente.
Le società umane non fanno eccezione a questa regola e da sempre fronteggiano tali derive ispirandosi a due criteri antitetici. O scelgono di difendere strenuamente la vecchia organizzazione combattendo ogni novità, indipendentemente dall’origine interna o esterna, oppure accettano la realtà universale del mutamento e intervengono in modo intelligente per indirizzarla verso nuovi equilibri. In ambedue i casi i confini giocano un ruolo chiave. La loro totale chiusura, infatti, impedirebbe l’ingresso di qualsiasi novità, utile o dannosa che sia, con la conseguenza di accelerare tragicamente lo spontaneo disfacimento dello schema organizzativo esistente. La loro completa apertura, d’altra parte, permetterebbe l’ingresso indiscriminato di apporti sia costruttivi che distruttivi. La giusta permeabilità dei confini è la conditio sine qua non per non soccombere al fluire del tempo.
Un confine, per essere pienamente operativo, deve essere riconosciuto anche dall’esterno, dagli altri. Tracciare un confine diventa allora un modo per ottenere il riconoscimento di uno spazio di appartenenza dove stabilire le proprie regole, affermare una diversità e segnalare il luogo di una differenza.
Se il confine produce diversità e crea talvolta problemi, anche la sua mancanza o la sua indeterminatezza può essere causa di incomprensioni. Ci sono casi, infatti, in cui i confini non sono condivisi dalle parti interessate, perché non sanciti da accordi bilaterali. È emblematico, oltre che tragicamente attuale, il caso Israele-Palestina dove i numerosi scontri e le successive conquiste territoriali hanno portato a una mancanza di confini riconosciuti, come quello della Cisgiordania. Negli anni tutto ciò è stato fonte di continue rivendicazioni, che oggi si sono purtroppo tramutate in atroci violenze ed estese distruzioni.
L’obiettiva realtà che tutte le imprese umane debbano cingersi di confini – fisici o culturali – per svolgere con profitto il lavoro di auto-organizzazione rende meritevole di approfondimento il tema dei confini. Abbiamo scelto di intendere specificamente i confini come frontiere perché ci sta a cuore il loro carattere irriducibilmente relazionale che riteniamo abbia bisogno di essere adeguatamente esplorato. Sappiamo bene che confini e frontiere non sono termini perfettamente equivalenti e che i significati che essi assumono nel linguaggio comune sono molteplici. È sicuramente vero che le frontiere, più che i confini, rimandano a un limite deliberatamente determinato ed evocano l’idea del controllo, ma è altrettanto vero che parliamo di frontiere anche per indicare soglie oltre le quali spingersi o spazi da abitare riconoscendosi in rapporto a ciò che non coincide con noi. Nel termine frontiera c’è l’esser di fronte, il pensarsi in relazione. Così come è dei confini che delimitano, differenziano, ma in rapporto ad altro e ad altri.
I confini, lo ribadiamo, sono necessari alla vita. Senza di essi non si dà relazione. Quando tutto si confonde, si apre lo spazio per la prevaricazione e la negazione dell’altro.
Ma i confini devono poter essere attraversati. Così come le frontiere, che sono fatte per separare, ma anche per passare da una parte all’altra. I confini, come le frontiere, implicano l’altro, sono in rapporto all’altro. Se i confini definiscono l’identità dei luoghi, dei popoli, delle persone, lo fanno a partire dalla relazione e nella relazione. Quando il confine si irrigidisce, quando le frontiere diventano invalicabili, questa relazione viene negata e, in qualche modo, il confine stesso viene ad essere stravolto in ciò che è di per sé e nella sua funzione più propria. Il confine può essere spazio di incontro e di scambio, oppure può essere difeso ad oltranza contro tutto e contro tutti. Può essere spazio di arricchimento e di sviluppo, oppure può essere luogo di respingimento dell’altro e di umana miseria. Il senso dell’umano e delle relazioni si gioca non poco nel modo in cui concepiamo e viviamo i confini.
Per questo abbiamo scelto di trattare in questo primo numero dell’annata 2024 di «Dialoghi» – interamente dedicata al tema delle frontiere – della questione delicata e cruciale dell’ambivalenza che le frontiere e i confini hanno avuto nel tempo e possono avere nelle relazioni.
Il nostro Dossier si apre con il Forum a più voci sul significato dei confini e delle frontiere nel quotidiano: nell’architettura, con Maria Antonietta Crippa; nel diritto che regola il rapporto tra i popoli, con Luciano Tosi; nel funzionamento degli organismi viventi attraverso i processi di simbiosi, con Pietro Ramellini.
Segue poi, a firma di Sandro Calvani, l’analisi storica di quello che i confini hanno significato nel tempo a partire dalla loro prima definizione. Per millenni le frontiere sono state unicamente separazioni di territori, non di popoli, in quanto sempre e dovunque le persone hanno potuto attraversarle senza particolari difficoltà per scambiarsi «i capitali, le merci, le malattie, l’energia, le informazioni o le tecnologie». Non precise realtà geografiche, dunque, ma semplici indicazioni funzionali. È dopo la Prima guerra mondiale che viene introdotto, per la prima volta nella storia, il divieto di attraversamento delle frontiere per le persone sprovviste di visti e passaporti. Nel XX secolo aumentano le misure di controllo delle frontiere, con riferimento alla “sicurezza nazionale” e all’immigrazione e si rafforza ulteriormente «la tendenza a utilizzare i confini come strumenti per controllare i movimenti e separare le popolazioni». Oggi la crescente globalizzazione favorisce l’apertura dei confini ma produce anche il loro irrigidirsi: le «frontiere come fili spinati che difendono le patrie»
Sulla violenza di cui i confini possono essere principio si sofferma il saggio di Marta Cariello che, attingendo alle storie scritte sulle rive del Mediterraneo, «alle partenze e agli arrivi, agli archivi non ancora chiusi» e lasciando spazio alle parole della letteratura femminile post-coloniale, racconta dei confini attraverso lo sguardo di chi viene respinto e vede il confine come intimo approdo e inafferrabile distanza. «La frontiera ci ricorda le complessità del confine e la sua asimmetria, quando, nel confine, entra la violenza. Violenza che non è solo o necessariamente fisica, ma anche determinazione delle vite altrui, esclusione dalle comunità (o cittadinanze), o esclusione dalle narrazioni, quella che chiamiamo violenza epistemica».
Ma i confini non sopportano l’impermeabilità loro imposta. C’è una porosità dei confini da imparare a riconoscere guardando prima di tutto alla vita biologica. È quello che ci aiuta a fare l’articolo di Carlo Cirotto che descrive la funzione di quei particolarissimi confini biologici, le membrane cellulari, capaci di regolare il transito di sostanze in ambedue le direzioni. Non un confine impermeabile, ma un confine poroso in grado di supportare la distinzione di un “dentro” da un “fuori”, di un “sé” da un “altro” da sé. Nel contributo si sottolinea anche l’importanza della funzione svolta dalle membrane delle singole cellule nel corretto funzionamento degli organismi pluricellulari e si discute il probabile ruolo di protagoniste da esse ricoperto nei processi, incredibilmente complessi e ancora poco noti, della comparsa della vita sulla Terra.
La ineludibile porosità dei confini emerge anche nelle relazioni interpersonali alle quali è dedicato l’articolo di Donatella Pagliacci. Il corpo è «la frontiera dell’io». Esso è al tempo stesso valicabile e invalicabile. Ed è nella relazione amorosa, nella fusione affettiva dei corpi che questa ambivalenza raggiunge il suo apice. Essa, infatti, «si nutre di intimità e di discrezione, della compenetrazione fisica e spirituale dell’uno nell’altra e del reciproco riconoscimento, per salvaguardare l’identità e la libertà di ciascuno degli amanti». Che cosa, dunque, implica la porosità dei confini, come bisogna intenderla? Che cosa significa l’attraversamento che il confine, la frontiera richiedono e rendono possibile? Cosa consente di evitare che nell’attraversamento tutto si confonda, l’identità si smarrisca o prevalga un unico schema culturale? Il saggio di Annalisa Caputo ci porta per mano, attraverso il riferimento a François Jullien, a penetrare nel senso di questo attraversamento che è pienamente umano. Nella relazione tra gli esseri umani, così come nel dialogo interculturale, non ci può essere solo un dialogo tra simili che fa leva sugli elementi comuni. Il dialogo è veramente tale, e non una mascherata forma di assimilazione o di negazione dell’altro, solo se tiene bene in vista le differenze, lo “scarto” esistente fra i dialoganti. «Un dialogo è tanto più fecondo, quanto maggiore è lo scarto in gioco». Esso esige lo stare nel tra, l’esser di fronte, in rapporto all’altro: un «intrattenersi tra scarti», per scoprire, in un movimento continuo dall’uno all’altro, «le comuni risorse e fecondità “tessendo la tenda o la copertura invisibile sotto cui si dispiega l’a due”». «Il che non significa perdere se stessi (anche perché un Se stesso identitariamente chiuso e autoreferenziale non esiste), ma significa essere pronti a scoprire parti profonde di sé che solo l’Altro può svelare». Si tratta di ricordare che le culture «non sono identità statiche e immobili; se le pensiamo così, nascono i nazionalismi, gli integralismi, le frontiere diventano i muri». Le culture «sono come semi da seminare», da mettere in circolo. Ed è solo a partire dalla ricchezza degli “scarti”, finalmente riconosciuti e accolti in un movimento di reciprocità, che si può creare ciò che è comune.
L’invito che viene dunque da questo nostro Dossier è a prendere coscienza dell’ambivalenza delle frontiere e a rischiare l’attraversamento dei confini. Perché è solo così che restiamo umani e possiamo esserlo veramente.
Nota
1 A. Leroi-Gourhan, Il gesto e la parola, Einaudi, Torino 1977, p. 374.