Nel settembre 2024 papa Francesco ha compiuto due significativi viaggi apostolici. Tra Asia e Oceania (dal 2 al 13), pellegrino di fraternità e di armonia tra diverse etnie, culture e religioni, e nel cuore dell’Europa (dal 26 al 29), in Lussemburgo e Belgio, per sollecitare la ricerca di strade di pace, mentre siamo vicini a una guerra quasi mondiale.
«In Asia si deve andare, è importante» disse papa Francesco nel luglio 2013, rientrando dalla Gmg di Rio de Janeiro, il suo primo viaggio internazionale. In Asia sarebbe andato per la prima volta l’anno successivo, destinazione Corea del Sud. Tra Asia e Oceania è tornato dopo dieci anni, dal 2 al 13 settembre 2024, con tappe in quattro paesi: Indonesia, Papua Nuova Guinea, Timor Leste e Singapore. In mezzo Sri Lanka e Filippine (gennaio 2015), Myanmar e Bangladesh (tra novembre e dicembre 2017), Thailandia e Giap pone (novembre 2019), Kazakhstan (settembre 2022) Mongolia (agosto-settembre 2023). Contesti in cui i cristiani sono presenza di minoranza, se si escludono i casi delle Filippine e di Timor, chiama ti al confronto e al dialogo con altre culture e altre religioni.
Un viaggio apostolico non è turismo, si fa per portare la Parola del Signore e per conoscere l’anima dei popoli, la precisazione all’udienza generale del 18 settembre, dedicata al viaggio appena compiuto, ricordando che il primo papa a volare incontro al sole nascente fu Paolo VI nel 1970, quando visitò Filippine e Australia, e sostò in diversi Paesi asiatici e nelle Isole Samoa.
A fine settembre 2024 (dal 26 al 29) altro viaggio papale, il quarantaseiesimo, nel cuore dell’Europa e delle sue istituzioni. Prima tappa in Lussemburgo, paese ricco, importante centro finanzia rio, con il Pil pro capite tra i più alti al mondo, immigrati quasi la metà degli abitanti: «Sia di aiuto e di esempio» ha chiesto il papa, nell’indicare il cammino «per accogliere e integrare migranti e rifugiati». Poi in Belgio, dove sono emersi con forza il tema della vita e la condanna senza appello per gli abusi sui minori nella Chiesa, ma non meno importanti sono stati i richiami alle radici di un’Europa che deve fare passi avanti su unità e solidarietà, esercitando un concreto impegno per la pace e contro l’insensatezza della guerra, cercando «oneste trattative» e «onorevoli compro messi» per risolvere i conflitti ed evitare «inutili stragi», mentre «siamo vicini ad una guerra quasi mondiale». Si possono legge re in maniera speculare e integrata, questi due viaggi, guardando all’Europa dall’Asia e all’Asia dall’Europa. Da un lato il vecchio continente in calo demografico («per favore, più bambini» la richiesta del papa), con le chiese che si svuotano e la democrazia e la pace, pur faticosamente conquistate, riscoperte come fragili e niente affatto scontate. Dall’altro l’Asia, con le sue contraddizioni, ma anche con tante potenzialità, con popolazioni giovani, con tante sfide aperte per una Chiesa che in contesti multiculturali e multireligiosi cerca di costruire ponti e di tessere legami di fraternità.
Quello in Asia e Oceania è stato il viaggio più lungo del pontificato, 32mila km in 12 giorni, per testimoniare di pace e di vita, di dialogo e di incontro, di ricerca di armonia nelle differenze. In Indonesia, dopo circa 13 ore di volo, tocchiamo un immenso arcipelago di più di 17 mila isole bagnate dal mare che collega Asia e Oceania. La più alta concentrazione di musulmani al mondo (87% della popolazione), circa il 10% di cristiani, i cattolici appena il 3%, e tuttavia sono testimonianza di una Chiesa vivace e aperta al dialogo. Il motto nazionale “Molti, ma uno”, richiama la realtà di «popoli diversi saldamente uniti in una sola Nazione», ha sottolineato il papa a Jakarta, parlando a circa trecento rappresentanti istituzionali, della società civile e del corpo diplomatico, ricordando che «l’armonia nel rispetto delle diversità si raggiunge quando ogni visione particolare tiene conto delle necessità comuni e quando ogni gruppo etnico e confessione religiosa agiscono in spirito di fraternità, perseguendo il nobile fine di servire il bene di tutti». Nei pressi della Moschea di Istiqlal, la più grande dell’A sia, incontro interreligioso e firma di una dichiarazione comune con l’Imam Nasaruddin Umar, per ribadire il comune impegno per la pace dei credenti di diverse religioni, fraternità e fratellanza proposti come antidoto all’anti-civiltà, alle trame diaboliche dell’odio e della guerra. Non formale l’abbraccio con l’imam e l’inaugurazione del tunnel dell’amicizia, passaggio sotterraneo che collega Cattedrale e Moschea, nell’auspicio «che tutti insieme, ciascuno coltivando la propria spiritualità e praticando la propria religione», si possa «camminare alla ricerca di Dio e contribuire a costruire società aperte, fondate sul rispetto reciproco e sull’a more vicendevole, capaci di isolare le rigidità, i fondamentalismi e gli estremismi, che sono sempre pericolosi e mai giustificabili». Ai cattolici, nella messa allo stadio di Giacarta, il mandato a essere «costruttori di pace e di speranza», ricordando l’invito di Madre Teresa di Calcutta: «Quando non abbiamo nulla da dare, diamo gli quel nulla», e «anche se non dovessi raccogliere niente, non stancarti mai di seminare».
Visti dall’alto, dai finestrini del volo papale diretto a Port Moresby, in Papua Nuova Guinea, isolotti e barriere coralline nell’azzurro intenso e trasparente del Pacifico sono stati la prima immagine di un contesto naturale e sociale del tutto diverso. Ci avrebbero poi accolti e accompagnati danze e colori, le piume dei costumi lo cali e i suoni dei tamburi. Anche qui un arcipelago con centinaia di isole, più di ottocento lingue e altrettanti gruppi etnici, una straordinaria ricchezza naturale, culturale e ambientale, messa a rischio dall’innalzamento del livello del mare.
La ricchezza (oro, petrolio, gas e minerali pregiati...) va utilizzata per promuovere «il benessere di tutti, nessuno escluso», la richiesta del papa, che ha ricordato come le risorse della terra e delle acque, siano destinate all’intera collettività, e se per il loro sfruttamento è richiesto l’intervento di grandi imprese internazionali, è giusto che «nella distribuzione dei proventi e nell’impiego della mano d’opera» si guardi alle «esigenze delle popolazioni locali, in modo da produrre un effettivo miglioramento delle loro condizioni di vita». Utopia? Eppure Papua Nuova Guinea può essere laboratorio di un modello di sviluppo integrale, animato dal “lievito” del Vangelo, con missionari e catechisti protagonisti di una Chiesa in uscita. La località di Vanimo, sulla costa nord-occidentale ai con f ini con l’Indonesia, è nota per le spiagge e la barriera corallina, per la cultura e le tradizioni indigene, per le foreste di mangrovie, tra le più belle al mondo. Il papa ha voluto visitarla accogliendo l’invito dei missionari argentini che vivono tra la foresta e il mare, portando una tonnellata di aiuti tra vestiti, giocattoli e medici ne. Nei tanti giovani la speranza del futuro, come a Timor Leste, dove «Asia e Oceania si sfiorano e, in un certo senso, incontrano l’Europa». Altro paesaggio naturale di grande bellezza, tra mare e montagne, foreste e pianure. Veniamo accolti col tais, la sciarpa di tessuto locale. Popolazione a maggioranza cattolica, i primi missionari furono domenicani portoghesi, e la loro lingua è tuttora “ufficiale” insieme al tetum.
Con il popolo la Chiesa ha condiviso il processo d’indipendenza dall’Indonesia dopo l’emancipazione dal Portogallo nel 1975, cercando di orientarlo sempre alla pace e alla riconciliazione, politica “della mano tesa”, potenziale modello per altre aree di crisi: «Voglia il Cielo», l’auspicio del papa, «che pure in altre situazioni di conflitto, in diverse parti del mondo, prevalga il desiderio della pace».
A Timor un popolo «provato ma gioioso» – dirà il papa nella già citata udienza –, saggio nella sofferenza, che genera tanti bambini e insegna loro a sorridere (il 65% della popolazione è al di sotto dei 30 anni): «Ho visto la giovinezza della Chiesa: famiglie, bambini, giovani, tanti seminaristi e aspiranti alla vita consacrata [...] ho respirato “aria di primavera”.
Pochi giorni prima, presso la spianata di Taci Tolu, tra l’oceano e tre laghi salati, 600mila persone radunate per la messa si riparava no dal sole con gli ombrelli bianchi e gialli. Prima di congedarsi il papa a braccio parlava di democrazia tenace e fragile, avvertendo: «Attenti ai “coccodrilli” che vogliono mordervi cambiandovi la cultura. Il popolo e i bambini sono la cosa più preziosa che avete», la risorsa più preziosa «non è il sandalo o il legno del teak, ma il popolo». A visita conclusa da circa un mese e mezzo, domandiamo al nunzio apostolico, monsignor Marco Sprizzi, che segni ha lasciato la visita del papa. Ci racconta di un rafforzamento dell’identità nazionale che è tutt’uno con l’appartenenza alla Chiesa, di una rinsaldata comunione tra Chiesa locale e Chiesa universale, di nuove motivazioni offerte ai politici cattolici, per essere fedeli al Vangelo e alla dottrina sociale della Chiesa, ma soprattutto di una forza spirituale per i giovani in un contesto di povertà diffusa, con poche opportunità di lavoro e l’incertezza del futuro. L’in contro con il papa – ci dice – ha dato loro tanta speranza, si sono sentiti importanti.
A Singapore cambia lo scenario e ci ritroviamo in una città-stato modernissima, polo economico e finanziario non solo per l’Asia. I cristiani minoranza, con la Chiesa impegnata a generare armonia e fraternità tra le diverse etnie, culture e religioni. Non a caso l’ultimo appuntamento a Singapore è stato un incontro interreligioso con i giovani. Per uno sviluppo sostenibile e per la salva guardia del creato il papa ha presentato Singapore come esempio da seguire, con un ruolo da giocare nell’ordine internazionale, minacciato da conflitti e guerre sanguinose, promotrice del multilateralismo e di un ordine basato su regole condivise. Deciso l’incoraggiamento a «continuare a lavorare per l’unità e la fraternità del genere umano, a beneficio del bene comune di tutti i popoli e di tutte le Nazioni, con una comprensione non escludente né ristretta degli interessi nazionali».
Nell’omelia della messa al National Stadium ha tratto spunto dal la bellezza delle ardite architetture, per ricordare che all’origine di imponenti costruzioni, «come di ogni altra impresa che lasci un segno positivo in questo mondo» non ci sono «prima di tutto i soldi, né la tecnica e nemmeno l’ingegneria, – tutti mezzi utili – ma l’amore», poiché è «l’amore che edifica». Ci è sembrata una sintesi efficace dell’intero viaggio, insieme all’uccello del paradiso che è nello stemma di Papua, simbolo di una libertà che niente e nessuno può soffocare perché è interiore, custodita da Dio che è amore, e che nella libertà vuole i suoi figli.