Siate dunque costanti, fratelli, fino alla venuta del Signore. Guardate l’agricoltore» (Gc 5,7). È necessario lasciarsi ammaestrare dalla pazienza del contadino: in autunno inoltrato egli scruta, con sguardo benedicente, l’appezzamento di terreno appena seminato; alla fine dell’inverno, vedendo spuntare il miracolo del seme, attende con serena trepidazione il prezioso frutto della terra; all’inizio dell’estate ammira, estasiato, le messi che biondeggiano per la mietitura.
Costanza e pazienza sono virtù che manifestano la resistenza, la resilienza dell’animo umano, chiamato a coniugare insieme fiducia e operosità. «Il paragone con il contadino è molto espressivo: chi ha seminato nel campo – osservava Benedetto XVI nelle parole che, il 12 dicembre 2010, hanno preceduto la recita dell’Angelus –, ha davanti a sé alcuni mesi di paziente e costante attesa, ma sa che il seme nel frattempo compie il suo ciclo, grazie alle piogge di autunno e di primavera. L’agricoltore non è un fatalista, ma è modello di una mentalità che unisce in modo equilibrato la fede e la ragione, perché, da una parte, conosce le leggi della natura e compie bene il suo lavoro, e, dall’altra, confida nella Provvidenza, perché alcune cose fondamentali non sono nelle sue mani, ma nelle mani di Dio. La pazienza e la costanza sono proprio sintesi tra l’impegno umano e l’affidamento a Dio».
«La pazienza, oltre ad essere una virtù umana – rileva papa Francesco nel discorso tenuto, il 18 settembre 2021, ai fedeli della Diocesi di Roma –, è una forza divina operante anche quando il movimento di conversione dell’uomo non è ancora compiuto».
«La pazienza – aggiunge il Santo Padre – è makrothymía, cioè pazienza dello sguardo che si nutre di visioni profonde, visioni larghe, visioni lunghe: Dio vede lontano, Dio non ha fretta». La pazienza di Dio rivela la sovranità della sua longanimità, termine che deriva da longus e animus. Il termine greco makrothymía, che significa lunghezza di spirito (cfr. Rm 2,4), traduce la parola ebraica appayim, che vuol dire letteralmente lunghezza di narici (cfr. Es 34,6-7; Nm 14,17-19; Na 1,2-3; Gio 4,2; Sal 103,8-9).
Tale espressione lascia intendere che Dio, lento all’ira (cfr. Sap 15,1; Sir 18,11), «non gode della morte del malvagio, ma che si converta dalla sua malvagità e viva» (Ez 33,11).
Il tema della ricchezza della bontà di Dio, manifestatasi compiutamente nella pazienza di Cristo (cfr. 2Tes 3,5), è ripreso e sviluppato dai sinottici nel contesto dell’esortazione alla vigilanza e si rifà all’immagine del padrone e dello sposo che tardano ad arrivare (cfr. Mt 24,42-51; 25,1-13). Nella parabola dei servi che, «con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese», attendono il ritorno del loro padrone dalle nozze (cfr. Lc 12,35-40), Gesù tiene a precisare, su sollecitazione dell’apostolo Pietro, che un amministratore fidato e prudente non trascura l’eventualità che il padrone tardi a venire (cfr. Lc 12,41-48). Nella parabola del fico sterile, in cui si dice che il padrone è deciso a tagliarlo, il vignaiolo chiede di osare ancora per un altro anno (cfr. Lc 13,6-9). La pazienza di Dio ha una riserva infinita: non esige dall’uomo la perfezione ma lo slancio del cuore, il pianto e l’incanto dell’anelito; Egli apre nuove possibilità ove tutto sembra perduto, lasciando crescere il buon grano senza raccogliere la zizzania (cfr. Mt 13,24-30).
Il ricorso al tema della pazienza divina – un antropomorfismo che mira a responsabilizzare l’uomo come protagonista delle vicende del mondo – ha lo scopo di sottolineare che Dio, Padre misericordioso, nella sovranità del suo atto creativo regge il mondo con un preciso disegno, cui le contraddizioni della libertà umana e l’azione del Maligno non possono resistere. Egli conduce la storia, che si dipana nel suo fluire incerto e nel suo intreccio di bene e di male, in cui si ricompongono, come in un mosaico, le libere scelte dell’uomo. Dio, che manifesta la sua onnipotenza soprattutto con la misericordia e il perdono, apre sempre nuovi spazi al cambiamento di rotta, in cui ci sono coincidenze che è difficile non chiamare disegno, poiché esprimono la tenace volontà di quella Provvidenza d’amore che non interrompe l’opera della salvezza. Come Paolo riconosce che la ricchezza della bontà di Dio, della sua clemenza e della sua magnanimità, «spinge alla conversione» (Rm 2,4), così Pietro assicura che Dio è magnanimo, «non vuole che alcuno si perda, ma che tutti abbiano modo di pentirsi» (2Pt 3,9). Quella che il Nuovo Testamento definisce in greco makrothymía è, dunque, la straordinaria larghezza della pazienza di Dio il quale, in Cristo Gesù, è sceso agli inferi a portare l’annuncio della salvezza (cfr. 1Pt 3,19-20).
La pazienza di Dio, inesauribile, ha la sua declinazione ecclesiale nella dialettica tra il già e il non ancora e la sua coniugazione personale nella grandezza d’animo (cfr. 1Cor 13,4). Non è semplice tolleranza delle difficoltà o mera sopportazione fatalista delle avversità, ma è fortezza d’animo che rende capaci di sostenere tanto i rapporti intra-ecclesiali (cfr. Col 3,12), quanto le relazioni con tutti (cfr. 1Tes 5,14). Per il cristiano la pazienza, essendo coestensiva alla fede in Dio, è sia makrothymía, capacità di guardare e sentire in grande, sia hypomone, perseveranza, fede che dura nel tempo. A giudizio di san Cipriano, la pazienza è la summa virtus: «Il fatto di essere cristiani è opera della fede e della speranza, ma perché la fede e la speranza possano giungere a produrre frutti, abbisognano della pazienza» (De bono patientiae, 13). «La fede, messa alla prova, produce pazienza» (Gc 1,3), «la tribolazione produce pazienza» (Rm 5,3), la quale vaglia, come oro nel crogiolo, la speranza che non delude (cfr. Rm 5,5).